L’opera lirica moderna e contemporanea
Un genere poco noto al grande pubblico, ma che sta vivendo una notevole fioritura musicale

Secondo un sentire comune abbastanza diffuso, l’opera lirica è un genere ormai morto e sepolto come se, dopo Puccini, l’«albero» della grande musica si sia seccato fino alle radici; anzi, la musica lirica (insieme a quella sinfonica) è vista come lenta, antiquata, non al passo coi tempi, appartenente a un’epoca ormai superata. Una sorta di «entità aliena», o un genere artistico muffoso e ammuffito, mummificato nel passato. In realtà, la musica leggera, le «canzonette», quelle che spopolano a Sanremo e tra i giovani, il «rap» e il «trap», sono più antiquati della musica lirica: la quale ha avuto il suo momento «rapperistico» già nel 1912, col Pierrot Lunaire, dove il testo non è cantato ma declamato con un vago accento musicale (un testo che, tra l’altro, non ha niente a che vedere col «nulla» che viene propinato dai «rapper» dei nostri giorni), è poi passata a destrutturare tutto il linguaggio musicale fin dalle fondamenta e sta adesso tornando verso una musicalità più comprensibile dal grande pubblico, anche se naturalmente non «vecchio stampo» ma adatta ai nuovi tempi. Insomma, la musica lirica ha già fatto da più di un secolo tutto il percorso che la musica leggera si sta accingendo a fare. E la musica sinfonica, strumentale, non è da meno: prova ne è che persino il rock, per rinnovarsi, si è dovuto «unire» alla musica classica nel genere chiamato «rock melodico» o «post rock», che ha avuto i suoi antesignani nei Pink Floyd. Se la musica lirica è meno ascoltata di quella leggera è perché è più semplice seguire una canzonetta senza troppe pretese che dura tre minuti piuttosto che un’opera lirica di due ore, e perché molti giovani – sempre più spesso privi di senso critico e troppo frettolosi – sono diffidenti verso un genere che, per essere apprezzato appieno, richiede che ci si «fermi», si ascolti e si sia propensi a riflettere. Che si usi il cervello, insomma.

In realtà, la musica lirica non è affatto un genere morto, ma è anzi vivissimo, conta attualmente decine di autori e opere di valore (da I fantasmi di Versailles di John Corigliano a The death of Klinghoffer di John Adams, a 1984 di Lorin Maazel, a Cuore di cane di Aleksandr Michajlovič Raskatov, a Re Lear di Carlo Boccadoro…). Gli ultimi 25 anni, poi, vedono un ritorno al mondo dell’opera lirica senza paragoni: solo in America vengono scritte ogni anno 180 nuove opere liriche, delle quali pochissime entrano nel repertorio resistendo al tempo – una o due su 180; tutte le altre, musicalmente di fattura non eccelsa, vengono rappresentate una o poche volte per poi sparire. Destino comune anche a quello della stragrande maggioranza dei brani di musica leggera. Ciò nonostante, si può dire che non v’è stato periodo della Storia tanto «fecondo» di opere liriche come gli ultimi 70 anni.

Qui di seguito, ne segnaleremo qualcuna delle principali, ancora in repertorio.


I dialoghi delle Carmelitane di Francis Poulenc

Nato nel 1899 e morto nel 1963, Francis Poulenc nel 1921 entra a far parte del «gruppo dei sei», musicisti che vogliono creare una musica francese «oggettiva», anti-wagneriana (romantica) e anti-debussy (impressionista). Cresciuto in una famiglia ricca (suo padre è un industriale in campo farmaceutico), Poulenc non si dedica a studi precisi, anzi, viene addirittura allontanato dal Conservatorio in malo modo. Alcune sue composizioni riescono comunque a entrare nei salotti della buona società per la facilità nell’esecuzione e perché non sono troppo controcorrente.

Nel 1923 compone il balletto Les biches, ma deve la sua fama alle «chansons» (composizioni per pianoforte e voce). Nel 1936 si riavvicina al Cattolicesimo e inizia a scrivere una serie di composizioni sacre (Messe, inni...).

Nel 1953, l’editore Ricordi gli propone un balletto su Santa Margherita di Tortona. Poi, il balletto diventa un’opera lirica: I dialoghi delle Carmelitane, la storia vera del martirio di un intero convento carmelitano durante la Rivoluzione Francese; le religiose (una era solo una novizia) si erano rifiutate di rinunciare ai loro voti e furono condannate alla ghigliottina sotto l’accusa – di per sé ridicola – di «macchinare contro la Repubblica». (La verità è che la Rivoluzione era in bancarotta, appena iniziata e già coi germi del fallimento, e aveva bisogno di incamerare ogni tipo di «bene» possibile per tentare di salvarsi). I dialoghi dell’opera erano già stati letti per radio.

A causa di una crisi depressiva che lo coglie al termine della stesura del primo atto, l’opera vede la luce solo nel 1956. Il 27 gennaio 1957 c’è la prima alla Scala di Milano con testo in italiano, e ha subito un grande successo; in giugno, a Parigi, viene utilizzato il testo originale in francese.

Poulenc considera suoi maestri Bach, Mozart, Satie e Stravinsky (da Bach attinge pezzi di musica sacra); si considera un compositore senza etichetta (prende spunto dal jazz, dai canti popolari, dai musical...) e «usa le note degli altri per fare qualcosa di nuovo». I dialoghi delle Carmelitane sono un’opera molto melodica, legata anche alla musica sacra più antica (Salve Regina, Ave Maria...). Questo per dimostrare che si può essere innovativi guardando al passato, e unendo musica recente e musica più antica.


Il Sogno di una notte di mezza estate di Benjamin Britten

Nato nel 1913 e morto nel 1976, praticamente ignorato per tutta la vita e ancora non molto conosciuto, Benjamin Britten si è dedicato con continuità all’opera, con uno stile originalissimo e personale. Grande compositore (il maggiore compositore inglese dai tempi di Purcell, 300 anni prima), pianista, direttore d’orchestra, dirige da sé le proprie opere e ci lascia ottime registrazioni; enorme didatta, si propone il compito di migliorare la qualità della musica inglese. Proprio per quest’intento, nel 1946 esce la Guida per le persone giovani all’orchestra, un documentario della BBC in cui compone variazioni per ogni strumento musicale per farne conoscere suono e struttura.

Avendo iniziato a comporre musica negli anni Quaranta, quando la Gran Bretagna è impegnata nella lotta contro la Germania e gli uomini migliori sono al fronte o comunque impegnati nelle operazioni militari, Britten scrive opere per soli 15 o 16 elementi d’orchestra, creando «il tanto» con «il poco». Si ispira a tutta la musica europea del passato, soprattutto a Mahler, Berg e Stravinsky, ma rimanendo tonale in contrasto con le «direttive» della Scuola di Vienna (per questo nel 1947 verrà ostracizzato e definito «neoromantico»); accoglie anche atmosfere della musica orientale (ha viaggiato in Giappone e Thailandia). Fonda l’English Opera Group e il Festival di Aldenbourgh.

Il Sogno di una notte di mezza estate è del 1960, nel periodo più alto delle sue composizioni (per esempio, nel 1954 ha composto Giro di vite, un’altra delle sue opere più rappresentative). Britten decide di musicare un’opera di Shakespeare perché il drammaturgo scriveva in versi (il metro era il «pentametro giambico», ovvero un verso con cinque accenti che danno un certo ritmo alla parola): quasi tutte le frasi sono quelle dello stesso Shakespeare, il resto lo scrive Benjamin Britten con Pears, il suo compagno di vita (Britten è omosessuale, anche se non lo dichiarerà mai). Ogni categoria di personaggi, nell’opera, è caratterizzata da strumenti ben precisi: le fate sono quasi tutte voci bianche con l’uso prevalente di due arpe, un clavicembalo, una celesta, alcune percussioni; gli amanti sono sempre caratterizzati da archi e sei legni; gli artigiani vengono descritti con ottoni e un fagotto. Anche il luogo della foresta, selvaggio e onirico, dove ci si può smarrire (non solo in senso fisico), ha un suo timbro particolare: è infatti contraddistinto da dodici suoni riuniti in quattro accordi mischiati in innumerevoli variazioni. Gli strumenti musicali descrivono e raccontano la vicenda come il poeta inglese faceva con le parole.


Die soldaten di Wozzek

Uno dei vertici della lirica novecentesca, Die soldaten (I soldati) è un’opera moderna, ma che non si può considerare «contemporanea»: nel campo musicale, il linguaggio è cambiato moltissimo nel corso degli ultimi 50 anni.

L’opera racconta le grandi emozioni dell’uomo: la guerra, l’amore, la morte, i sentimenti contrastanti, la gelosia, la follia. È stata terminata nel 1965, durante gli anni che segnano il picco della Guerra Fredda tra Stati Uniti e Unione Sovietica; Wozzek si suicida poco dopo, colpito dalla depressione, convinto che l’umanità vada verso il baratro, senza più salvezza.

Die soldaten richiede un apparato orchestrale e vocale notevole: 140 strumenti, 50 ruoli vocali, per un totale di due ore. La musica è dodecafonica, ma nell’opera vengono inseriti pezzi di tutti i tipi (jazz, una corale di Bach...) perché il compositore sa che, in teatro, bisogna «sporcarsi» le mani con tanti generi musicali diversi. La parte vocale, nell’opera, è quella che conta di meno: i cantanti raccontano la storia, ma la descrizione dei sentimenti, l’azione, il dramma sono tutti affidati all’orchestra. L’azione deve svolgersi su diversi palchi, perché lo spettatore deve essere libero di seguire le vicende che desidera. Proprio per queste sue caratteristiche, l’opera fu giudicata ineseguibile: ne abbiamo due rappresentazioni in 30 anni, per metterla in scena bisogna unire due o tre teatri.

Die soldaten racconta la storia di Marie, una giovane bella e vanitosa di Lille, amata da Stolzius, un commerciante della città di Armentières. L’ufficiale di fanteria Desportes corteggia la giovane in modo insistente; Wesener, il padre di Marie, accoglie con favore la relazione della figlia con Desportes, pensando al matrimonio. Ma Desportes è costretto a fuggire improvvisamente, per i debiti accumulati. Marie viene corteggiata da Mary, un ufficiale amico di Desportes, che ben presto l’abbandona; frequenta allora il conte de la Roche, ma lo lascia quando viene a sapere che Desportes è tornato. Intanto Stolzius prepara la vendetta per l’infedeltà della fidanzata: uccide Desportes avvelenandogli il cibo e quindi si suicida. In seguito, nel mezzo di una guerra devastante e dopo averla disperatamente cercata, Wesener incontra la figlia Marie, che gli chiede disperatamente aiuto: ella è ora finita miseramente al seguito dei soldati. Passata dall’uno all’altro, come un semplice oggetto di piacere, è ora una povera «barbona». Impietosito, senza riconoscerla, il padre le dona una moneta, pensando alla sua povera figlia che nel frattempo starà mendicando chissà dove, e si allontana, mentre Marie cade a terra disperata.

Nell’opera, Wozzek riversa il suo odio assoluto per i militari: l’esercito è visto come un mostro che annulla la persona e la distrugge come essere umano. La Seconda Guerra Mondiale ha inferto all’umanità uno stupro dal quale non c’è più ritorno: non è altro che l’ultimo atto di un lungo degrado. Marie rappresenta l’umanità che è entrata in un meccanismo di autodistruzione (esemplificato dalle armi sempre più potenti, fino alla bomba atomica) ed è ormai impossibilitata a uscirne.


Il Nixon in China di John Adams

Il Nixon in China di John Adams, composto dal 1985 al 1987 prendendo a tema la visita di Richard Nixon a Mao Tse-tung nel 1972, rischiò di entrare nel novero delle «opere scomparse»: i critici la fecero a pezzi («Ci sono tre cose che non vanno: la regia, la musica e il libretto; a parte queste, è perfetta»; «Adams ha fatto alla musica ciò che Mc Donald ha fatto alla carne di bue»), il pubblico la subissò con un coro di pernacchie. Non piacque perché era un’opera narrativa (con una trama, non tradizionale) e per il modo di cantare (fuori moda rispetto all’avanguardia del tempo). Oggi è continuamente ripresa in tutto il mondo (in Italia fu rappresentata a Verona).

Adams viene considerato uno dei maestri del minimalismo americano (ripetizione di piccole cellule musicali), ma nel Nixon in China inserisce parti jazz, riferimenti a Wagner e Strauss, allarga i confini del minimalismo per ottenere effetti drammatici; non c’è alcuna azione, tutta l’opera è basata sull’introspezione psicologica dei personaggi e sui loro sentimenti. L’orchestra è piccola (25-26 strumenti), ma con sonorità enormi.

Si tratta della prima opera politica di Adams: apparentemente, lui non prende posizione e non fa critica esplicita al regime comunista cinese (ma tra le righe della partitura si legge benissimo una satira feroce contro il comunismo, con una musica martellante e ossessiva e un leader politico, Mao, che parla solo per slogan e aforismi, totalmente slegato dalla realtà); il tema dell’opera sono i miti contemporanei (Nixon si reca in visita in Cina per fini esclusivamente politici). Il Presidente Americano è tratteggiato come una specie di Simon Boccanegra, con arie melanconiche: è un uomo potentissimo ma alla mercé del Segretario di Stato Henry Kissinger, potrebbe comandare il mondo ma non vi riesce, è tormentato dai dubbi. Alla fine dell’opera, dopo i brindisi e le autoglorificazioni di tutti i protagonisti, si chiede se ciò che è successo è servito effettivamente a qualcosa, senza darsi risposta.

Il Nixon in China è la prima opera moderna con personaggi contemporanei (a parte Mao, al momento della composizione tutti gli altri erano vivi); ha fatto scuola e aperto una strada: oggi vengono fatte molte altre opere con personaggi attuali come protagonisti.


The perfect American di Glass

Philip Glass, nato nel 1937, esponente della scuola minimalista, è un compositore prolifico: ha scritto pagine di musica strumentale, solistica, sinfonie, sonate, composizioni innovative e tre opere liriche – Einstein on the beach, Master of Grace e The perfect American. Quest’ultima è stata composta nel 2012, su commissione del Teatro Reale di Madrid, dove è stata rappresentata l’anno successivo. Tratta della figura di Walt Disney (1901-1966), uomo simbolo della nostra epoca e considerato tuttora l’uomo ideale, perfetto, ritraendolo nel suo genio ma anche – o soprattutto? – nei suoi limiti e difetti: Walt (grande inventore di un mondo fiabesco positivo e poetico) era ambizioso fino ad arrivare alla slealtà nei confronti dei concorrenti, severo con i suoi collaboratori fin quasi alla «tortura», e (in accordo con la società statunitense dell’epoca) era molto razzista, non sopportava i negri né gli Ebrei.

Attraverso la vicenda di Walt Disney, Philip Glass fa una riflessione su che cosa sia l’uomo contemporaneo, e su quali siano i suoi limiti.

L’opera descrive gli ultimi mesi di vita di Disney, costretto all’ospedale da un tumore ormai incurabile, che lo porterà alla tomba. Uomo dalla fantasia illimitata, creatore di personaggi che sono ancora ben vivi, Walt non vuole morire: «Mai pronunciare la parola “morte”», è il suo motto. Dà quindi disposizioni per essere sottoposto a un processo di criogenica (ibernazione sotto azoto liquido) per essere scongelato solo quando la scienza avrà definitivamente sconfitto la morte. Non accetta il proprio limite, e di conseguenza non riesce neppure a cogliere i valori reali della vita. Il suo sogno è di creare l’uomo ideale: quando lo impone ai suoi tecnici, questi costruiscono un robot con le fattezze di Abramo Lincoln, che dispensa le sue perle di saggezza ma che presto finisce per sgonfiarsi, in una scena che ha del ridicolo.

I rapporti di Walt Disney con la moglie, la segretaria, i dipendenti, gli amici mostrano un uomo che non riesce ormai più a distinguere la fantasia dalla realtà, che crede di essere un personaggio del mondo da lui stesso creato.

Il messaggio finale dell’opera è un invito a riprendere il contatto con quella che è la dimensione vera dell’uomo, in particolare con i suoi limiti (il tema della malattia, del progresso, del riflettere su quale sia la propria sorte e su dove si giunga una volta superata la soglia della morte…).

Così, l’opera lirica, lungi dal parlare dell’uomo di ieri con il linguaggio di ieri, parla dell’uomo di oggi con il linguaggio proprio di oggi, rinnovato e che si rinnova di continuo.

(giugno 2019)

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