La morte della poesia
Come la civiltà degli ultimi due secoli ha accantonato la poesia lirica come «inutile»

Quando Eugenio Montale ricevette il Premio Nobel per la Letteratura, il 12 dicembre 1975, pronunciò all’Accademia di Stoccolma un celebre discorso sull’avvenire della poesia, dal titolo È ancora possibile la poesia?; lui, il poeta italiano più stimato, si interrogava sulla possibilità di scrivere ancora poesia nella società di oggi.

«Ho scritto poesie e per queste sono stato premiato, ma sono stato anche bibliotecario, traduttore, critico letterario e musicale e persino disoccupato per riconosciuta insufficienza di fedeltà a un regime che non potevo amare. Pochi giorni fa è venuta a trovarmi una giornalista straniera e mi ha chiesto: come ha distribuito tante attività così diverse? Tante ore alla poesia, tante alle traduzioni, tante all’attività impiegatizia e tante alla vita? Ho cercato di spiegarle che non si può pianificare una vita come si fa con un progetto industriale. Nel mondo c’è un largo spazio per l’inutile, e anzi uno dei pericoli del nostro tempo è quella mercificazione dell’inutile alla quale sono sensibili particolarmente i giovanissimi».[1].

La «mercificazione dell’inutile»: la storia della cultura europea degli ultimi due secoli, ma anche prima, registra il pericolo costante che l’arte in generale e la poesia in particolare appaia «inutile» e, quindi, che sprofondi nell’oblio. Il bizzarro contraddittorio tra Montale e la giornalista straniera (probabilmente americana), che tendeva a immaginare l’attività poetica secondo i crismi di una pianificazione industriale fordista, rivela le idiosincrasie della nostra società contemporanea, figlia però di un percorso che l’ha portata a esautorare lentamente, ma inesorabilmente, non solo la poesia, ma, anche e soprattutto, una visione della vita tale da apprezzare la splendida inutilità della poesia.

Esclamava Shakespeare attraverso il protagonista del King Lear (2, 4, 259-263):

«O reason not the need! Our basest beggars
Are in the poorest thing superfluous.
Allow not nature more than nature needs,
Man’s life’s as cheap as beast’s».

Intendeva che persino i mendicanti più miseri hanno bisogno di qualcosa di superfluo, che li distingua dagli animali: se l’essere umano si limita alle necessità naturali, la sua vita perde valore e si livella al grado di quella della bestia. La poesia rientra in quel magnifico superfluo che ci distingue dall’esistenza piattamente animale e che ci rende umani proprio perché ci restituisce le nostre esigenze interiori e spirituali, senza le quali l’umanità non esiste.

Ma perché siamo arrivati a questo punto? Quale percorso storico ha agito in tal senso, spazzando via la poesia come la tempesta fa con i fiori? In questo breve studio proverò a rintracciare questo percorso che inizia ben prima di Montale e per cui dobbiamo risalire addirittura fino alla fine del Seicento: ma qui mi limiterò a una breve carrellata degli ultimi due secoli. Propongo un percorso a ritroso, dagli effetti all’indietro, per rendere più evidente la questione.


L’ironico scetticismo di Montale

Per inquadrare la crisi contemporanea della poesia, è indispensabile ripartire proprio dalle disilluse meditazioni di Montale, che collocava la sua lirica nel solco della grande tradizione europea, una tradizione secondo lui messa in pericolo dal consumismo del Secondo Dopoguerra. Torniamo al suo discorso tenuto in occasione della premiazione a Stoccolma:

«In ogni modo io sono qui perché ho scritto poesie, un prodotto assolutamente inutile, ma quasi mai nocivo e questo è uno dei suoi titoli di nobiltà […]. Sono qui perché ho scritto poesie: sei volumi, oltre innumerevoli traduzioni e saggi critici. Hanno detto che è una produzione scarsa, forse supponendo che il poeta sia un produttore di mercanzie; le macchine debbono essere impiegate al massimo. Per fortuna la poesia non è una merce».

In queste righe, il poeta ritorna sulla costante tentazione alla mercificazione, alle logiche tipiche della nostra società: culto della «performance», resa, produttività, sete di guadagno, strumentalizzazione, sono tante sfaccettature di una sola prospettiva, che porta l’essere umano a essere un oggetto, così come tutte le sue attività «superflue», spirituali e prive di una resa quantificabile in termini monetari o materiali, pertanto accantonate. Perciò, proseguendo, Montale cita la nostra civiltà del «benessere», un benessere che ha «i lividi connotati della disperazione», cioè che ha perso il senso della vita (e si ricordi che la poesia di Montale si interroga costantemente sul senso dell’esistenza e sulla verità); appunto perché mercificate, «sotto lo sfondo così cupo dell’attuale civiltà del benessere anche le arti tendono a confondersi, a smarrire la loro identità». La civiltà attuale dello spettacolo (che non è altro se non un prodotto industriale) sacrifica la «solitudine» e la «riflessione», di cui, per l’appunto si nutre la poesia. La vera poesia sembra così ormai condannata al silenzio a fronte dei mille tentativi vuoti dell’arte di massa. E Montale conclude, con il suo consueto tono ironico e scettico a un tempo, che stigmatizza la «torrenziale produzione» poetica dei nostri giorni, tanto più priva di sostanza, quanto più dettata dagl’imperativi dell’«audience»:

«Nella attuale civiltà consumistica che vede affacciarsi alla storia nuove nazioni e nuovi linguaggi, nella civiltà dell’uomo robot, quale può essere la sorte della poesia? Le risposte potrebbero essere molte. La poesia è l’arte tecnicamente alla portata di tutti: basta un foglio di carta e una matita e il gioco è fatto. Solo in un secondo momento sorgono i problemi della stampa e della diffusione. L’incendio della Biblioteca di Alessandria ha distrutto tre quarti della letteratura greca. Oggi nemmeno un incendio universale potrebbe far sparire la torrenziale produzione poetica dei nostri giorni. Ma si tratta appunto di produzione, cioè di manufatti soggetti alle leggi del gusto e della moda. Che l’orto delle Muse possa essere devastato da grandi tempeste è, più che probabile, certo. Ma mi pare altrettanto certo che molta carta stampata e molti libri di poesia debbano resistere al tempo».

Il paradosso del nostro tempo è che la produzione di poesia è apparentemente «torrenziale», con milioni di versi vergati sulle pagine da ignoti scribacchini: ma a ciò non fa riscontro una genuina qualità, anzi, le due cose paiono inversamente proporzionali.

«Si potrebbero moltiplicare le domande con l’unico risultato che non solo la poesia, ma tutto il mondo dell’espressione artistica o sedicente tale è entrato in una crisi che è strettamente legata alla condizione umana, al nostro esistere di esseri umani, alla nostra certezza o illusione di crederci esseri privilegiati, i soli che si credono padroni della loro sorte e depositari di un destino che nessun’altra creatura vivente può vantare»[2].

La poesia è oggi in crisi, una crisi legata a quella della nostra civiltà umana, delle nostre certezze, anche se il poeta si permette uno sprazzo di ottimismo e auspica che comunque, qualcosa di buono si possa trovare e possa resistere di tutta quella «torrenziale produzione» poetica.

In una poesia del Diario del ’72, il poeta esordisce così nella lirica Le acque alte:

«Mi sono inginocchiato con delirante amore
Sulla fonte Castalia
Ma non filo d’acqua rifletteva
La mia immagine».

Significativamente la lirica, nel dattiloscritto originale del 1° gennaio 1972, reca il titolo originale Diluviale, che allude alla catastrofe (evidentemente, della civiltà contemporanea); in seguito fu pubblicata nelle Poesie del ’72[3]. Come un moderno Narciso, il poeta tenta di rispecchiarsi, di ritrovarsi nel magico riflesso della fonte Castalia, la fonte celeberrima di Delfi che serviva per le purificazioni del culto apollineo, ma che divenne ben presto, nella poesia di età imperiale, sinonimo di sorgente della poesia: essa sgorga ancor oggi tra due rupi di ben 250 metri, le Fedriadi, da cui venivano precipitati i rei di gravi offese contro il dio. Originariamente era stata una ninfa amata da Apollo, ma questi l’aveva trasformata in una sorgente che conferiva il dono poetico a chi ne beveva[4]. Eppure, nella fonte della poesia l’«io» lirico non trova il proprio riflesso, segno di un’identità smarrita, espressione della crisi del poeta e della poesia.

Se per Montale la «tomba» della poesia era il consumismo invasivo del «boom» economico, secondo il poeta Giorgio Linguaglossa, Theodore Adorno è arrivato a negare il senso delle cose e della realtà dopo Auschwitz: e quindi, a negare il senso anche della poesia[5]. In realtà, come emerge dall’acuta disamina di Linguaglossa, ciò che è franato dopo Auschwitz è il senso inteso nei termini del pensiero liberale, tutto preso del suo progresso e delle «magnifiche sorti e progressive» che, si potrebbe aggiungere, derideva Leopardi nella Ginestra; comunque, è perfettamente vero che la poesia, oggi, si moltiplica in maniera sempre più vuota e insussistente (dalle cartine dei Baci Perugina, alle didascalie dei «social media»), divenendo un «palcoscenico vuoto», barcamenandosi tra acrobazie linguistiche difficilmente comprensibili e toni, all’opposto, sempre più «democratici», ma anche piatti e banali, che imitano in modo deteriore l’ultimo Montale di Satura, caratterizzato da uno stile prosastico.

Attualmente, esiste un’autentica inflazione della poesia nel senso più banale del termine, in un quadro però di generale sofferenza della lettura e della cultura: l’attuale pandemia sembra aver decimato ulteriormente i lettori italiani, passati, se deboli (un libro all’anno) dal 73% del 2019, al 50% dell’epoca del picco della primavera 2020, se forti (un libro al mese) da 4,4 milioni del 2019 a 3,5 nel 2020; i compratori di libri nel 2020 si sono praticamente dimezzati e gli acquisti in libreria sono crollati dal 74 al 20%, per tornare fortunatamente a crescere tra 2020 e 2021[6]. Sicuramente, se le statistiche si occupassero nello specifico di poesia, i risultati sarebbero ben più allarmanti ed essa apparirebbe sostanzialmente in via di scomparsa, anche perché di solito appare meno accessibile. In un recente bell’articolo, Lucia Brandoli[7] ha ricordato come investire nella promozione della poesia sia ben poco proficuo per le case editrici italiane, donde una proposta letteraria ripetitiva e asfittica, confinata a nomi già noti. E lancia una proposta provocatoria: «basterebbe uscire dal cerchio magico del capitalismo», cioè, dato che la poesia non vende, rischiare e coltivarla in maniera alternativa al mercato, sulla base di un desiderio genuino e gratuito, in modo libero.

«Forse, però, l’obiettivo primario della poesia non dovrebbe essere l’andare incontro ai gusti del grande pubblico per essere venduta, quanto andarli a nutrire. Forse la poesia non è affatto un “prodotto culturale”, ed è per questo che non si riesce a vendere come gli altri generi e a trasformare in maniera efficace in merce. E forse non riesce a essere ridotta a uno dei tanti bisogni indotti che ci vengono suggeriti perché non ne comprendiamo più la necessità. Forse la poesia oggi non dovrebbe essere un libro stampato, ma prima di tutto un modo di ricominciare a percepire noi stessi e il mondo che nasce dall’ascolto dell’incomprensibile, portando con sé sempre una parte di oscuro, di indecifrabile. Invece tutto viene rigorosamente e sistematicamente messo in chiaro: quando si parla di amore e quando si parla di morte, quando si parla di eros e quando si parla di malattia. Ogni cosa è illuminata, anzi, smarmellata».

Ho indugiato su questa lunga citazione perché è molto significativa; non solo parla dell’insuccesso e della morte della poesia oggi, ma cita alcuni fenomeni a cui questa morte è inesorabilmente collegata: il capitalismo, quindi la mentalità dell’utile e del profitto, col suo inevitabile sfondo materialista; il fatto (menzionato nel seguito del testo) che in Italia la cultura sia stata troppo spesso vista come forma di dominio e potere; infine, la perdita del senso del mistero, perché tutto deve essere «messo in chiaro, illuminato». Paradossalmente, si sta esprimendo in termini che ricordano l’Illuminismo. E, difatti, quella fu un’epoca di crisi della poesia, almeno nel senso della critica.

Vale allora la pena riprendere il nostro percorso a ritroso e approfondire la questione.


La crisi della poesia negli ultimi 200 anni

Quando insegno Letteratura Italiana nel triennio, abituo i miei studenti all’annoso problema del senso della poesia e del poeta nella società contemporanea. Dall’Ottocento in poi, tutti, ma proprio tutti i nostri maggiori autori si sono posti questo problema, offrendo varie soluzioni.

In generale, almeno dal Romanticismo del primo Ottocento in poi, il poeta (ma anche l’artista) percepisce se stesso e il suo rapporto con la società come inesorabilmente in crisi[8]: viene incompreso (il romantico e pre-romantico «genio incompreso», obbligato al suicidio come il Werther di Goethe o lo Jacopo Ortis di Foscolo), è considerato inutile e improduttivo, non trova il suo posto nella società (Werther, dopo gli studi universitari, agogna a un buon posto da funzionario che non arriva), si trova in dissidio con quelli che i poeti romantici tedeschi definivano i «filistei», cioè i boriosi borghesi che non capiscono un’acca di arte, ma solo di denaro. Giova anche ricordare che gli intellettuali devono ormai vivere del loro lavoro: il mecenatismo è praticamente defunto e i libri si devono sempre più «vendere». Se l’opera d’arte non è vendibile, l’artista, o poeta, marcisce in una soffitta in miseria (tra gli spifferi e gli accessi di tosse tisica, il che fa molto «bohémien», ma è anche terribilmente scomodo).

Tutto il secolo è pieno di romanzi in cui la famiglia borghese tipica, tutta concentrata sulla propria impresa, ignora il talento artistico del rampollo ben poco adatto a bilanci e partite doppie (un esempio tra tutti: I Buddenbrook di Thomas Mann); tutto il secolo è pieno di poeti «maudits» che fanno penare le loro famiglie, perché assolutamente incapaci di auto-amministrarsi, scialacquano i propri averi, fomentano scandali, ma scrivono versi straordinari (un esempio a caso: Charles Baudelaire). Sono passati i bei tempi in cui, secoli prima, Petrarca era talmente fiero della gloria sublime sprigionatasi dalla sua poesia, da essere convinto di conferire lui lustro ai suoi nobili mecenati, come i Visconti o l’aristocratica Repubblica di Venezia o i padovani Da Carrara; e la società pareva dargli ragione, moltiplicando la sua fama per tutta l’Europa. Ancora nel Seicento francese, così avido di eleganza e «politesse», il modello petrarchesco era quello cui si ispirava per gli scambi galanti in versi l’aristocratico «salon» di Madame de Rambouillet, l’iniziatrice del buon gusto francese del «Grand Siècle», quando la raffinatezza divenne un codice di vita per l’aristocrazia e giungeva al suo apogeo nei salotti della zona di Place de Vosges[9].

Nell’Ottocento, quindi, il poeta comincia ad apparire uno scioperato improduttivo, sognatore sempre, inconcludente, com’è ovvio, parassita nella peggiore delle ipotesi: così, Guido Gozzano afferma drasticamente nel suo poemetto La signorina Felicita, ovvero la felicità (versi 306-307):

«Io mi vergogno,
sì, mi vergogno d’essere un poeta!»

I poeti crepuscolari rappresentano infatti il punto più basso e malinconico raggiunto dall’autoconsapevolezza del poeta in Italia tra Ottocento e Novecento: rivolti alla cultura dei secoli precedenti, al cui «crepuscolo» si percepiscono, completamente inadeguati alla società contemporanea, essi si ripiegano su di un atteggiamento tra ironico e malinconico, come se il poeta e i versi fossero cianfrusaglie del passato, simili a quelle che riempiono i salotti piccolo-borghesi di provincia da loro descritti.

Quali soluzioni vengono prospettate dai principali scrittori italiani dell’epoca? Il Verismo, con Giovanni Verga, rifiuta nettamente la lirica e la poesia in genere: la letteratura, secondo i Naturalisti Francesi, così come per i Veristi Italiani, deve aggiornarsi, adeguarsi alla scienza, descrivere e analizzare con precisione oggettiva, documentaria, la realtà sociale; l’osservazione diventa spietata, come per l’entomologo che scruta con la lente gl’insetti sul vetrino, tanto che Verga è attraversato da un pessimismo feroce, privo di speranza. Nella famosa Lettera dedicatoria a Salvatore Farina che precede il racconto L’amante di Gramigna nella raccolta Vita dei campi, Verga parla di un racconto come «documento umano… che l’analisi moderna si studia di seguire con scrupolo scientifico».

Sul lato invece del Simbolismo, sempre di origine francese, si reagisce all’onnipresenza della cultura scientifica e si rimane convinti che il poeta riesca a risalire al lato più profondo della realtà, attingibile, si badi bene, non con la razionalità scientifica, bensì con l’intuizione e attraverso cifre e simboli, come nelle Corrispondenze di Baudelaire:

«La Nature est un temple où des vivant piliers
Laissent parfois sortir des confuses paroles;
L’homme y passe à travers des forêts de symboles
Qui l’observent avec des regards familiers»

(«La Natura è un tempio dove colonne viventi
Talvolta lasciano affiorare parole confuse;
L’uomo vi passa attraverso foreste di simboli
Che l’osservano con sguardi familiari»)[10].

In Italia, questa è anche la convinzione profonda del nostro Pascoli, che riesce così a evocare in modo quasi medianico il mistero che si spalanca oltre la morte, convinto che il poeta sia come un «fanciullino»; solo lui mantiene la purezza dello sguardo del bambino e riesce ad arrivare là dove gli altri non possono giungere:

«Egli [il fanciullino] è quello che piange e ride senza perché, di cose che sfuggono ai nostri sensi e alla nostra ragione. Egli è quello che nella morte degli esseri amati esce a dire quel particolare puerile che ci fa sciogliere in lacrime, e ci salva. Egli è quello che nella gioia pazza pronunzia, senza pensarci, la parola grave che ci frena. Egli rende tollerabile la felicità e la sventura, temperandole d’amaro e di dolce, e facendone due cose ugualmente soavi al ricordo. Egli fa umano l’amore, perché accarezza esso come sorella (oh! il bisbiglio dei due fanciulli tra un bramire di belve), accarezza e consola la bambina che è nella donna. Egli nell’interno dell’uomo serio sta ad ascoltare, ammirando, le fiabe e le leggende…»[11]

Accenti analoghi, anche se in un contesto diverso, ha Arthur Rimbaud, che destina il poeta a essere un «veggente», a tutto sperimentare e scoprire però non attraverso l’infanzia, quanto mediante la «lunga, immensa e ragionata sregolatezza di tutti i sensi»[12]. Rimbaud anticipa così l’esteta e il «dandy», che si pone al di sopra e al di là degli altri, pronto a esperienze negate ai più. Si noti però che in entrambi i casi, Verismo e Simbolismo, troviamo una reazione alla civiltà del progresso ottocentesco, fondata sulla scienza e sul capitalismo della società borghese: acquiescenza (Verismo) od opposizione (Simbolismo).

In seguito, Ungaretti si pone, a partire dalla Prima Guerra Mondiale, nel solco del Simbolismo, convinto com’è che il poeta possa pronunciare ancora una parola di verità irraggiungibile per gli altri, tanto più necessaria nel vortice distruttivo della guerra:

«Il porto sepolto

Mariano il 29 giugno 1916

Vi arriva il poeta
E poi torna alla luce con i suoi canti
E li disperde
Di questa poesia
Mi resta
quel nulla
d’inesauribile segreto».

Attingere al mistero dell’essere significa, per Ungaretti, immergersi nel profondo, immaginato come abisso acquatico, come il mare che copre il porto scomparso di Alessandria d’Egitto: dal profondo e dal suo mistero egli riporta in superficie «i suoi canti» come se tornasse dagl’inferi, ma anche come da una sorta di purificazione sacrale. Per rendere la poesia credibile, Ungaretti tendeva durate la guerra a «scarnificarla», a renderla sempre più essenziale e ridotta: lui stesso ha raccontato che in trincea scriveva sugl’incarti delle pallottole e che queste costrizioni materiali lo avevano obbligato a una poesia quanto mai ridotta al minimo, telegrafica, ma proprio per questo sempre più efficace[13]. E questo proprio mentre la civiltà borghese esplodeva e si autodistruggeva nella Grande Guerra, quasi che Ungaretti si proponesse un’estrema resistenza proprio di quei valori «gratuiti» che i suoi contemporanei comprendevano sempre meno.

Se approdiamo invece ancora a Montale, egli cerca di mantenersi nella scia della grande tradizione poetica, optando dapprima per espressioni ardue, quasi ermetiche (Ossi di Seppia, Le occasioni, la prima parte de La bufera e altro); quando poi, nel Secondo Dopoguerra, si rende conto che l’incipiente civiltà consumistica non fa altro che banalizzare l’arte, la cultura e la poesia, sommergendola sotto una montagna di spazzatura (un’immagine a lui cara per rendere questo incombere della trivialità), allora decide di volgersi a una tonalità più umile, quasi prosastica e discorsiva. Questa è visibile soprattutto nella raccolta Satura, in cui l’apparente semplicità costituisce il controcanto ironico di ogni fumosa pretesa culturale. Secondo il poeta Linguaglossa, è però proprio Montale che, col suo scetticismo, ha aperto così all’ondata di banalizzazione successiva: nella crisi generale della concezione della poesia, a livello sia estetico, formale, che esistenziale, filosofico, metafisico, i versi si sono appiattiti, hanno perso ogni ricchezza metaforica:

«Montale prende atto della fine dei Fondamenti […] e prosegue attraverso una poesia “debole”, prosaica, diaristica, cronachistica, occasionale […]. Montale ha in orrore la massificazione della comunicazione. Vicino in ciò ad alcuni filosofi esistenzialisti o di estrazione esistenzialista (come Heidegger o Husserl) i quali sostenevano che l’uomo moderno vive nella ciarla, nel mondo del “si” e quindi confinato nella inautenticità, sommerso dalla straordinaria quantità di messaggi che lo bersagliano, il poeta ligure vede in questa condizione il dissolvimento ultimo del linguaggio (e del linguaggio poetico) come strumento della comunicazione […] Di qui il pericolo incombente che la perdita di senso afferisca anche al linguaggio della poesia».

Con la poesia prosastica di Satura, aperta non solo alla vita quotidiana, ma anche alla chiacchiera della società contemporanea, Montale: «non solo compie una legittimazione indiretta e inconsapevole dei linguaggi dell’impero mediatico che erano alle porte, ma legittima una forma-poesia che inglobi la ciarla, la chiacchiera, il lapsus, la parola interrotta, la cultura dello scetticismo, la disillusione elevata a sistema, a ideologia. Autorizza il rompete le righe e il si salvi chi può. La forma-poesia andrà progressivamente a pezzi. E gli esiti ultimi di questo comportamento agnostico sono ormai sotto i nostri occhi»[14].

Col suo scetticismo, Montale segna così la sconfitta pressoché definitiva della poesia. Scettico nei confronti dei valori metafisici, del significato dell’esistenza, ma anche dubbioso nei confronti della comunicazione, il poeta si adegua al maremoto incombente e ne impiega le forme spezzate, banalizzate, per scrivere poesia. Ne finisce così per distruggere la forma e la possibilità. Montale, insomma, secondo Linguaglossa riconosce e sigilla la sconfitta e la morte della poesia.


Note

1 Confronta Eugenio Montale, Nobel Lecture. È ancora possibile la poesia?, https://www.nobelprize.org/prizes/literature/1975/montale/25109-eugenio-montale-nobel-lecture-1975/ (consultato il 6 maggio 2021).

2 Confronta Eugenio Montale, Nobel lecture. È ancora possibile la poesia?, https://www.nobelprize.org/prizes/literature/1975/montale/25109-eugenio-montale-nobel-lecture-1975/ (consultato il 6 maggio 2021).

3 Poesie del ’72. Scritti in onore di Luigi Ronga, Milano-Napoli, Ricciardi, 1973, pagine 23-25. Si veda Montale. Tutte le poesie, Milano, A. Mondadori, 1984 (I edizione Oscar Grandi Classici, 1990), pagine 475-476, 1.124 e 1.128.

4 Confronta Kastalien, Konrat Ziegler-Walther Sontheimer edd., Der kleine Pauly. Lexikon der Antike, Stuttgart, Alfred Druckenmüller, 1969, volume III, colonna 150; Delfi. Conosci te stesso, in Guido Guidorizzi-Silvia Romani, In viaggio con gli dèi, Milano, Raffaello Cortina editore, 2019, pagine 141-166; Castalia, in P. Acrosso-C. D’Alesio, Mondo mitologico, Firenze, Dante Alighieri ed., 1986, pagina 54.

5 Confronta Giorgio Linguaglossa, La grande crisi della poesia italiana, http://www.giorgiolinguaglossa.com/index.php/giorgio-linguaglossa-critica25 (consultato il 10 maggio 2021).

6 Confronta Lucrezia Greppi, La lettura in crisi. Dopo il crollo nel lockdown, segnali di ripresa, «L’osservatore», 29 luglio 2020, https://www.osservatore.ch/la-lettura-in-crisi-dopo-il-crollo-nel-lockdown-segnali-di-ripresa_32900.html#:~:text=Nei%20mesi%20di%20marzo%20e,2019%20al%2035%25%20nel%202020 (consultato il 6 maggio 2021). I dati provengono dall’AIE (Associazione Italiana Editori), in collaborazione con il Centro per il Libro e la Lettura (Cepell: https://www.cepell.it/it/) e l’Istituto Pepe Research, che fotografano la diffusione dei libri; il Rapporto Annuale INSTAT presenta dati più incoraggianti, ma non distingue tra libri e giornali. Ora è disponibile in rete il Libro bianco sulla lettura e i consumi culturali in Italia 2020-2021, https://www.cepell.it/it/pubblicazioni-left/monografie/libro-bianco-sulla-lettura-e-i-consumi-culturali-in-italia-2020-2021.html (consultato il 12 maggio 2021), che segnala una tendenza in crescita.

7 Confronta Lucia Brandoli, Dobbiamo usare la poesia per vivere, non come didascalia dei post di Instagram, https://thevision.com/cultura/leggere-poesia-instagram/ (consultato il 6 maggio 2021).

8 Questa tematica è affrontata in particolare in Romano Luperini e altri, Il nuovo La scrittura e l’interpretazione. Storia della letteratura italiana nel quadro della civiltà europea. 5. Naturalismo, Simbolismo e Avanguardie (dal 1861 al 1925), Firenze, Palumbo Ed., 2011, in special modo le pagine 17-19 (ma la tematica ritorna in continuazione); sulla «vergogna della poesia» in Gozzano, si vedano le pagine 948-950; ma si veda anche, per l’epoca precedente, il volume 4. Illuminismo, Neoclassicismo, Romanticismo (dal 1748 al 1861), Firenze, Palumbo Ed., 2011 (specie pagina 423 e seguenti).

9 Confronta Benedetta Craveri, La civiltà della conversazione, Milano, Adelphi, 2001, pagine 80-81.

10 Correspondances appartiene alla seconda sezione dei Fleurs du mal, Spleen et idéal; si veda la bella edizione online, corredata da molteplici traduzioni inglesi, in https://fleursdumal.org/poem/103 (consultato il 10 maggio 2021).

11 Confronta Giovanni Pascoli, Il fanciullino, capitolo 3, in Pensieri e discorsi (1895-1906), Bologna, Zanichelli, 1907 (pagina 9).

12 La famosa Lettera del veggente, vero manifesto della poetica di Rimbaud «ante litteram» (il poeta la scrisse nel 1871, a soli 16 anni) è pubblicata sul bel sito specializzato https://arthurrimbaud.jimdofree.com/corrispondenza/lettera-del-veggente/ (consultato il 10 maggio 2021).

13 Lo racconta Ungaretti stesso nello spezzone di video, La poesia secondo Ungaretti, in https://www.youtube.com/watch?v=4qbNPMT915A

14 Confronta Giorgio Linguaglossa, La grande crisi della poesia italiana, http://www.giorgiolinguaglossa.com/index.php/giorgio-linguaglossa-critica25 (consultato il 10 maggio 2021).

(luglio 2022)

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