I fiammiferi
Un’invenzione storica

Si ritiene che il fiammifero sia stato inventato dai Cinesi, verso l’anno 557, ma ciò è vero solamente in parte. Ciò che fu inventato dai Cinesi, in effetti, non furono i fiammiferi, giacché le loro capocchie non potevano incendiarsi grattandole su un materiale ruvido e duro, dato che lo zolfo da solo non è in grado di farlo; nondimeno, consentivano di rubare una fiammella a un fuoco esistente per trasportarla su un materiale infiammabile. Dunque, i cosiddetti fiammiferi cinesi servivano solo per avviare una seconda fiamma (anche a Ferrara si usavano, al tempo della guerra, quando c’era carenza di fiammiferi, e si chiamavano «sùlfan»). In Cina erano bastoncini di legno di pino impregnati di zolfo. Come già detto, naturalmente non potevano accendersi da soli, però bastava una scintilla per farlo, per cui servivano per esportare il fuoco.

Il vero fiammifero (definito a sfregamento) era un legnetto che portava su un’estremità una capocchia ricoperta di una sostanza infiammabile costituita dalla miscela di solfuro di antimonio (Sb2 S3) e clorato di potassio (KClO3). Questa, se strusciata su una superficie ruvida, s’incendiava, attivando una fiammella di corta durata ma sufficiente per appiccare il fuoco a ciò che si desiderava. Il nome deriva direttamente dal latino, composto dal sostantivo «flamma» («fiamma») e dal verbo «fĕro» («generare», «produrre», «portare») dal significato chiarissimo: sostanza che genera fiamma.

Erano già stati fatti tentativi di inventare qualcosa di utile per le famiglie, l’industria e tantissime altre applicazioni, cercando di eliminare l’unica maniera possibile per accendere il fuoco che era quella dello scomodo uso di esca e acciarino.

Nel 1680, l’Inglese Robert Boyle aveva trovato la strada per isolare il fosforo e G. Haukwitz, che lavorava alle sue dipendenze, ebbe l’idea di strofinarne pezzetti che, incendiandosi, potevano accendere legnetti spalmati di zolfo. Da qui, il «fiammifero chimico» che, però, non ebbe successo vuoi per l’alto costo del fosforo, vuoi per la pericolosità che ne comportava l’uso. Insomma, l’associazione di fosforo e zolfo era una buona idea, ma non sfociò in nulla di concreto realizzabile, per cui fu accantonata. Nel 1805, a Parigi, Chancel propose il seguente tipo di fiammifero chimico: la capocchia del bastoncino impregnato di zolfo era composta di clorato di potassio e zucchero e s’incendiava se immersa in acido solforico. Qualcosa di analogo fu la «lampada di Döbereiner» di J. U. Döbereiner del 1823 e il «Promethean» di S. Jones del 1832, ma la gente continuò a preferire i fiammiferi a strofinamento denominati «Congreves» in onore dell’inventore dei razzi, che erano stati fabbricati e messi in commercio in Inghilterra dal chimico John Walker, già a partire dal 1827, per giungere in alcuni altri Paesi Europei qualche anno dopo. Erano formati da un bastoncino impregnato di zolfo con una capocchia di solfuro di antimonio, clorato di potassio, gomma e amido, e si accendevano strofinandoli su carta vetrata. Attorno al 1830, furono proposti diversi tipi di fiammiferi chimici, della cui invenzione i vari autori rivendicavano la paternità: così, s’incontrano il Francese Ch. Sauria, i Tedeschi J. F. Kammerer e F. Moldenhauer, gli Austriaci J. Preschel e S. Röhmer, l’Italiano S. Valobra. Il dubbio è che questi signori offrissero i fiammiferi detti «alla Congreves», eventualmente con qualche modificazione, come propri, nei loro Paesi. In ogni modo, è quella l’epoca nella quale iniziò la produzione a carattere. Si narra che l’invenzione sia stata casuale: infatti, Walker stava lavorando attorno a un nuovo tipo di esplosivo. Sporcò per caso un bastoncino con la miscela di cui sopra, che gli cadde a terra; raccogliendolo, lo strofinò per pulirlo sul pavimento e – sorpresa! – la miscela prese fuoco. Ecco l’origine dell’invenzione dei «fiammiferi a strofinamento», che egli mise immediatamente a profitto. Fu sicuramente un successo, ma, come capita sempre, la prima soluzione non è mai quella definitiva, giacché c’è sempre qualcosa da rivedere e da aggiustare. E i fiammiferi di Walker non furono l’eccezione che confermi la regola: l’accensione della miscela avveniva in maniera troppo violenta, accompagnata dal lancio anche lontano di scintille, la fiamma non era delle migliori e, a completare l’opera, l’odore che si sprigionava era abbastanza fastidioso. In mancanza di scelte, comunque, la produzione continuava e gli affari andavano bene.

Nel 1831, il chimico francese Charles Sauria prese a cuore la faccenda e tentò di togliere il cattivo odore dai fiammiferi di Walker, aggiungendo fosforo bianco alla miscela. Il risultato fu buono e i nuovi fiammiferi ebbero un buon consenso, anche se si dovevano tenere sigillati, per impedire che la miscela non fosse per troppo tempo a contatto con l’aria. Ci fu un altro guaio, però: il fosforo che si sprigionava dalla combustione era tossico e a soffrirne gli effetti furono per primi proprio gli operai che erano addetti alla produzione. Da ciò, quei fiammiferi furono soggetti a una pressante campagna che ne chiedeva il ritiro dal mercato.

Pochi anni più tardi, nel 1836, uno studente ungherese di chimica, Jànos Irinyi, sostituì il clorato di potassio con ossido di piombo: il risultato fu sorprendente, ottenendo un’accensione morbida. Bisognoso di soldi, l’Ungherese vendette l’invenzione e i diritti di produzione a un ricco farmacista connazionale, Istvan Ròmer, trapiantato a Vienna, che immediatamente si dedicò alla fabbricazione e alla vendita dei fiammiferi, arricchendosi sempre di più, mentre il povero Jànos morì solo e a tasche vuote.

I fiammiferi di Ròmer ebbero un grande successo, però restava sempre la tossicità del fosforo bianco, che metteva in pericolo la salute sia dei fabbricanti sia dei consumatori. Pertanto, furono diversi i ricercatori che cercarono le soluzioni giuste per eliminarlo.

Nel 1844, Gustaf Erik Pash riuscì nel suo intento di produrre i «fiammiferi di sicurezza» o «svedesi», essendo lui svedese, ulteriormente migliorati una decina di anni dopo da J. Edvard Lundström, pure lui svedese; i miglioramenti riguardarono la prevenzione del pericolo che può derivare dall’uso di fiammiferi che possono accendersi anche quando non lo si voglia, mentre non ci fu nessuna novità per quanto concernesse il rispetto della salute. Se si vuole, l’idea fu geniale: consisteva nel tenere separate le sostanze costitutive della miscela combustibile, mettendo una parte degli ingredienti sulla capocchia dei fiammiferi (solfuro di antimonio, clorato di potassio, colla e sostanze che liberino ossigeno) e sulla superficie separata il resto (fosforo rosso e vetro polverizzato). Quando si sfregava la capocchia sulla superficie, il fosforo rosso diventava bianco grazie al calore sviluppato dall’attrito e s’infiammava, appiccando il fuoco alla capocchia. I fiammiferi in vendita avevano la superficie da sfregare applicata alla scatola che fungeva da contenitore. L’accensione poteva aversi solamente in questa maniera, pertanto la definizione di fiammiferi di sicurezza era veramente azzeccata. Infatti, l’industria che nacque a Jönköping ebbe un rapido, florido sviluppo ed ebbe pure successo la macchina per preparare i fiammiferi, dovuta ad A. Lagerman, che tuttora è utilizzata, pur con alcuni miglioramenti.

Nel 1898, i chimici francesi Savene e Cahen idearono e brevettarono un altro tipo di fiammiferi, che chiamarono «di sicurezza», ma questa volta perché non velenosi, usando sesquisolfuro di fosforo (P4S3) (per l’esattezza, il nome corretto è trisolfuro di tetra fosforo) e clorato di potassio, che potevano essere accesi sfregandoli sopra una qualsiasi superficie ruvida; naturalmente, come i precedenti, potevano accendersi accidentalmente e facilmente, diversamente dagli svedesi.

La differenza dei costi nella produzione dei nuovi tipi di fiammiferi, tuttavia, remò a favore di quello vecchio, tanto che quelli al fosforo bianco continuarono a essere prodotti e venduti, finché le autorità, considerato il diffondersi di fosforismo e necrosi fosforica, per por fine alla vendita di sostanze pericolose per la salute, ne proibirono l’uso. E ciò avvenne in tempi notevolmente diversi fra loro nei vari Stati, finché nel 1906 in Svizzera, con la Convenzione di Berna, si decise di toglierli definitivamente dal mercato europeo. A causa della guerra, però, ciò fu soddisfatto solamente nel 1921.

Un tipo di fiammiferi speciali è quello dei cosiddetti «controvento», cioè fiammiferi studiati per poter restare accesi anche in mezzo a vento forte. Erano i soliti, solo che il bastoncino era ricoperto per due terzi di solfuro di antimonio e clorato di potassio, e la fiamma poteva restare accesa anche in condizioni ventose abbastanza aggressive. Questi fiammiferi, insieme alle scatole che li contenevano, erano ricoperti di una cera impermeabilizzante per rendere il tutto resistente all’umidità.

Oggi, i fiammiferi in circolazione sono di due tipi: ci sono i «fiammiferi a capocchia fosforica», che si accendono sfregandoli su ogni superficie ruvida, e i «fiammiferi a capocchia senza fosforo», che per accenderli bisogna avere una superficie spalmata di miscela con fosforo. Per quanto riguarda lo stelo, i tipi sono vari, come vari sono i materiali utilizzati.

Chiaramente, il progresso segue il suo corso, per cui, in alternativa ai fiammiferi ci sono gli accendini, comodi in tasca e sempre pronti all’uso, gli accendigas dal becco lungo, che impedisce di scottarsi e altro ancora; però i fiammiferi sono sempre attuali e forse difficilmente usciranno dall’uso comune.

(luglio 2021)

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