Storia del bikini
Simbolo di libertà e di seduzione, per molte donne è diventato un compagno inseparabile

Con il sopraggiungere dei torridi mesi estivi è inevitabile imbattersi, sulle spiagge della Riviera così come tra i prati delle Dolomiti e persino nei parchi delle grandi città della pianura, in veri e propri sciami di donne intente a godersi il sole con indosso solo un succinto costume da bagno: il bikini, appunto.

Lo spettacolo, oggi, è talmente comune che nessuno ci fa più caso. Ci si meraviglierebbe a pensare che, ancora all’inizio del secolo scorso, la gente andava in spiaggia con canottiere e costumoni che erano, in pratica, dei veri e propri calzoni: un abbigliamento che, a vederlo oggi, susciterebbe l’ilarità generale.

Eppure, anche se l’imporsi del bikini appartiene, metaforicamente parlando, alla «storia dell’altro ieri», urne, affreschi e mosaici di epoca greca e romana (i più antichi risalgono addirittura al 1400 avanti Cristo) ci mostrano giovani donne che indossano curiosi costumi a due pezzi con una grazia e un’eleganza che nulla avrebbe da invidiare alle modelle dei nostri giorni. Dovevano essere utilizzati, a giudicare dalle pitture, per l’attività atletica e per la danza accompagnata da strumenti musicali (i Romani amavano recarsi alle terme, mentre i bagni in mare erano considerati pericolosi e nocivi alla salute).

Mosaico nella Villa del Casale

Mosaico nella Villa del Casale, Piazza Armerina (Italia)

Il bikini moderno vide la luce a Parigi nel 1946, ideato dall’ingegnere Louis Reard: la sua trovata avrebbe dovuto sollevare il morale degli Europei, duramente provati dalla Seconda Guerra Mondiale, ed esaltare la ritrovata libertà dopo i cupi anni della dittatura. Il nome del nuovo indumento richiamava l’atollo di Bikini nelle Isole Marshall, nel quale negli stessi anni gli Stati Uniti stavano conducendo test nucleari: Reard riteneva che l’introduzione del nuovo tipo di costume avrebbe avuto effetti esplosivi e dirompenti.

Molti trovano inappropriata l’etimologia del nome bikini, dato che i test nucleari provocarono una seria crisi umanitaria e decenni di guerra fredda: si preferisce parlare talvolta di «due pezzi», e in effetti il bikini si compone di un pezzo superiore di forma simile ad un reggiseno e un pezzo inferiore che copre il pube oltre ad una parte più o meno ampia dei glutei, lasciando la pancia scoperta.

Già due mesi prima di Reard, Jacques Heim aveva introdotto l’Atome (così chiamato a causa delle sue dimensioni ridotte), pubblicizzato come il costume da bagno più piccolo al mondo; Reard rese l’Atome ancora più piccolo, ma non riuscì inizialmente a trovare una modella che osasse indossarlo; finì per ingaggiare come modella Micheline Bernardini, spogliarellista del Casino de Paris.

Uno dei primissimi bikini era indossato nel 1949 da una giovanissima Marilyn Monroe in spiaggia al mare, e da Brigitte Bardot sulla spiaggia di Nizza nel 1956. Ma ci vollero quindici anni perché il bikini negli Stati Uniti fosse ritenuto accettabile per il pubblico pudore. Nel 1958, il bikini di Brigitte Bardot nel film E Dio creò la donna diede origine ad un mercato per il costume negli Stati Uniti, e nel 1960 la canzone di Brian Hyland Itsy Bitsy Teenie Weenie Yellow Polka Dot Bikini diede l’avvio ad una corsa all’acquisto del costume. E come non ricordare Ursula Andress nei panni della «Bond girl» Honey Ryder in Agente 007 – Licenza di uccidere del 1962? La bellissima Ursula emerge dalle acque dell’oceano con il celebre bikini bianco e un pugnale.

Ursula Andress

Ursula Andress in Agente 007 - Licenza di uccidere

Infine il bikini divenne popolare, e nel 1963 il film Beach Party, con Annette Funicello (enfaticamente non in bikini, dietro espressa richiesta di Walt Disney) e Frankie Avalon fu il primo di una serie di film che resero il costume un’icona della cultura popolare. I bikini furono indossati anche da Raquel Welch, eroina preistorica nel film Un milione di anni fa del 1966, e da Phoebe Cates in Fuori di testa del 1982. Più recentemente, il bikini fu un ingrediente di successo di «surf movies» degli anni Sessanta, o di serie televisive come Baywatch con Pamela Anderson. Una variante del bikini che ha una certa popolarità nella letteratura fantasy è costituita di metallo, per assolvere la funzione di armatura. Spesso il costume di diverse eroine dei fumetti assume la foggia del bikini, per esempio quello di Elektra o di Emma Frost.

Col passar del tempo, il bikini assunse dimensioni sempre più ridotte, mettendo in luce una parte sempre maggiore del corpo della donna che lo indossava e lasciando ben poco spazio all’immaginazione di un eventuale spettatore. Un’evoluzione estrema si ebbe nel corso degli anni Settanta con l’introduzione del tanga brasiliano, la cui parte posteriore è così ridotta da scomparire tra le natiche (un «filo interdentale», lo definì il comico Panariello).

Negli ultimi anni, si è tornati all’uso di un bikini un poco più coprente di quelli passati, che quanto a dimensioni erano arrivati ai minimi termini. Non si tratta di un (tardivo) recupero del pudore, quanto della consapevolezza che il bikini è stato creato per sottolineare la bellezza femminile e per sedurre: un corpo nudo, o quasi, che mostri tutto, in modo sfacciato, può essere bello quanto si vuole, ma non appare per niente seducente. Al contrario, un corpo che mostri un po’, ma non troppo, che inviti a fissarvi lo sguardo per scoprire fin dove lo si può spingere, che sottolinei dei particolari senza farli vedere apertamente, che – si potrebbe dire con un’espressione poetica – «sussurri» anziché «gridare», quel corpo appare seducente anche se la sua bellezza non è eccelsa. È, in fondo, l’antico gioco del velare/svelare, un gioco nel quale ogni donna si può cimentare, sulle passerelle delle sfilate di moda così come in un qualsiasi stabilimento balneare, soprattutto durante i mesi della torrida estate.

(luglio 2011)

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