Breve storia dell’abbigliamento e della moda
Dalle foglie di fico agli abiti d’«annata»

Forse non ci pensiamo ma anche l’abbigliamento, come il cibo, è uno dei bisogni primari dell’uomo. Esso non ha, a differenza di quel che si potrebbe presumere, un carattere esclusivamente «utilitario»: non ci limitiamo a coprirci se fa freddo, ma passiamo molto tempo a scegliere che cosa indossare, sia per vanità sia per la necessità di seguire una serie di regole, pratiche (un costume da bagno per la piscina non può essere indossato per andare al lavoro) e sociali (vestirsi è un mezzo per farsi riconoscere dagli altri, per indicare l’appartenenza ad un gruppo: basti pensare, per esempio, al saio dei monaci, alle divise di una squadra di calcio, ai tutù delle ballerine o alle uniformi dei soldati). L’abbigliamento è legato anche al senso del pudore: mostrarsi con il capo velato indica modestia e sottomissione; nei Paesi Islamici molte donne coprono l’intera figura con grandi veli come il burqa e il chador, mentre le suore della religione cristiana usano coprirsi il capo con un velo. Queste regole riguardano tutti: una Regina come un calciatore, il Papa come un’infermiera; in tutto il mondo, abiti e accessori formano un linguaggio.

L’uso di indossare vesti nacque in epoche remotissime: già 200.000 anni fa, i nostri «cugini» neanderthaliani si coprivano con foglie, erbe e pezzi di corteccia d’albero, ma sapevano anche cucirsi addosso abiti di pelle (avevano cioè l’idea della simmetria del corpo umano) e confezionavano cuffie con gusci di conchiglie uniti fra loro. Battendo fogli di corteccia d’albero con delle pietre, li si rendeva flessibili e morbidi, trasformandoli in un «tessuto» chiamato «tapa»; mentre le pelli degli animali venivano essiccate al sole e poi lavorate per ricavarne pellicce o trattate in modo da averne cuoio.

La prima fibra tessile usata dall’uomo fu la lana: la pecora veniva tosata, poi si premeva con una pietra sopra uno strato di lana inumidita; in questo modo si otteneva una stoffa tipo «feltro», cioè fatta con lana pressata, non tessuta. Fu questo il primo metodo di lavorazione della lana.

Nei villaggi palafitticoli di 8.000 o 11.000 anni avanti Cristo, venivano intrecciate reti di lino. Il lino è stata la prima fibra tessile che gli uomini abbiano tessuto: esso, a differenza della lana o del cotone, presenta infatti fibre lunghe che si prestano ad essere subito tessute (senza cioè dover essere prima filate, come succede per la lana ed il cotone).

Il tipo di abbigliamento, ovviamente, dipendeva dalla regione in cui si abitava: nei Paesi a clima caldo, uomini e donne indossavano braghette corte o vesti leggere, strette alla vita da una cintura di cuoio; se indossavano il mantello, esso veniva trattenuto sulla spalla da grosse spille in metallo. Quelli che vivevano in Paesi dal clima freddo portavano abitualmente indumenti di lana, o confezionati con le pelli degli animali, ampi mantelli e berretti di tessuto o di pelliccia; vestivano anche un indumento rassomigliante ai pantaloni e robuste calzature in cuoio; i guanti erano pezzi rozzamente circolari di pelle con il pelo all’interno, stretti ai polsi delle mani da due stringhe. Amavano agghindarsi, uomini e donne: portavano pesanti bracciali, vistose collane e, ai lobi degli orecchi, applicavano ciondoli di vario tipo; erano affascinati dall’oro, ma poiché questo metallo era raro i loro monili erano per lo più in osso, in rame, in bronzo; per specchiarsi, usavano piccole lamine di metallo così ben lisciate e lucidate da riflettere il loro viso. Curavano in modo particolare la capigliatura e si facevano acconciature piuttosto complicate: trecce più o meno lunghe e crocchie tenute in ordine da spille lavorate finemente. Insomma, allora come oggi, abbigliarsi non era solo una necessità per proteggersi dal freddo, ma anche un modo per accrescere il proprio fascino.

Abiti alpini nella Preistoria

Figurante con abiti alpini di 10.000 anni fa in una mostra a Desio (Italia); fotografia di Simone Valtorta, 2016

In Asia e in America gli uomini coltivavano e tessevano il cotone più di 5.000 anni fa: gli archeologi ne hanno trovato traccia nelle antiche tombe, in Messico e in Pakistan. Nella valle dell’Indo, la coltivazione del cotone era la principale ricchezza degli abitanti; avevano anche già inventato dei macchinari per separare i semi dalle fibre. La raccolta del cotone, però, sia nel passato remoto che in quello prossimo, è sempre stata un esercizio estenuante: dall’alba fino al tramonto i braccianti dovevano trascinarsi sulle ginocchia o stare piegati per riuscire a lavorare; i soffici fiocchi del cotone erano circondati da rametti acuminati che graffiavano le mani; il cotone raccolto veniva infilato in sacchi da 35 chili che venivano portati a tracolla.

Lino, canapa e cotone sono le tre fibre vegetali maggiormente usate dall’uomo. Nelle antiche civiltà il lino venne prevalentemente lavorato in Occidente, la canapa in Cina mentre il cotone in India, Africa e America Settentrionale. Altri vegetali di secondaria importanza vennero e sono tutt’ora sfruttati per uso tessile, come ad esempio la ginestra e lo sparto (usati specialmente in Spagna), le foglie dell’agave (lavorate per ottenere lunghe fibre resistenti, in Messico), diverse palme...

Già gli Assiri mostrarono le prime distinzioni tra abiti da cerimonia, da guerra e per la caccia; i Persiani modellarono pelli e tessuti in brache e giacche aderenti, vi applicarono ricami e gioielli; la raffinata cultura minoica vestì donne dal seno scoperto di gonne svasate al fondo. Greci e Romani usarono spesso vesti drappeggiate, ossia ampi pezzi di stoffa da avvolgere intorno al corpo; i Romani dell’età imperiale e i Bizantini si conformarono invece al fasto orientale.

I generi teatrali dell’antica Roma prendevano nome da capi d’abbigliamento: la palliata era la commedia di ambientazione greca («pallium» era il termine latino che designava il mantello greco indossato dagli attori), mentre la commedia di ambientazione romana era la togata, così chiamata dalla toga, la veste romana che indossavano gli attori; la coturnata era la tragedia di ambientazione greca e derivava il suo nome dal coturno, l’alto calzare a forma di stivaletto con spessa suola, tipico degli attori greci; la pretesta era invece la tragedia di ambientazione romana, di carattere patriottico e nazionale, che esaltava avvenimenti importanti o eminenti figure politiche e veniva chiamata così dal nome dell’abito («toga praetexta») indossato dai magistrati romani e orlato da una striscia di porpora.

A quei tempi remoti risale l’uso del telaio. Vasi greci ci mostrano Penelope dinanzi al telaio su cui tesseva la famosa tela: il tipo è molto semplice, coi fili dell’ordito tenuti tesi da piccoli pesi e la trama inserita a mano dalla donna. Per secoli l’unica maniera di filare (che perdura tutt’oggi in alcune contrade) fu a mano, col fuso e con la rocca: la filatura a mano permetteva di compiere contemporaneamente le due operazioni fondamentali della filatura, cioè stirare e torcere. Dal fuso e dalla rocca, attraverso invenzioni e perfezionamenti continui, si è infine giunti alle moderne macchine di filatura: sui banchi di filatura delle filande girano oggi centinaia di fusi, controllati da una sola operaia, e in un solo giorno uno stabilimento moderno può produrre centinaia e centinaia di metri di tessuti.

Penelope al telaio

La più antica delle due raffigurazioni di Penelope su ceramica, su un vaso del IV secolo avanti Cristo ritrovato nel 1871 nella campagna di Chiusi (Italia)

L’Alto Medioevo in Europa, col crollo dell’Impero Romano, segnò il passaggio al costume germanico, con tessuti semplici ma che precisavano bene le distinzioni per ceto e per sesso. Nel periodo romanico, pur nella generale sobrietà, sono documentati l’uso della biancheria e la presenza di laboratori di tessitura, ricamo e confezione. Nel periodo gotico la figura si allungò e assottigliò – in parallelo con l’architettura, pensiamo allo slancio delle cattedrali – per mezzo di strascichi maestosi, ampie scollature, vesti dalle maniche allargate al polso e pendenti fino a terra, scarpe dalle punte smisurate e «hennin» (altissimi cappelli a cono, arricchiti da lunghi veli trasparenti): tutti elementi che davano toni fiabeschi alla donna. L’uomo indossava abiti con stoffe dai colori e disegni diversi, arricchiti da bordi frastagliati o di pelliccia, muniti di spacchi per agevolare le cavalcate; i giovani portavano ghirlande sul capo.

Nel Quattrocento dominò la moda italiana. Le donne portavano il corpetto che appiattiva le forme del corpo e la sottana, quasi a forma di campana e dotata di strascico, che si allargava a dismisura sul fondo con l’aiuto di vere e proprie gabbie appoggiate al punto vita; spesso comparivano stoffe preziose con grandi disegni a fiorami e di colori intensi. L’uomo adottava farsetti più corti e larghi, attillate calzebrache ed enfatizzava gli attributi sessuali con una particolare brachetta (adatta anche per riporvi il denaro).

Dalla fine del secolo, la scoperta del Nuovo Mondo ed i sempre più frequenti scambi commerciali, oltre a mettere in contatto culture diverse, ebbero il loro influsso sulla moda. Così, se la comparsa in Europa di kaftan, turbanti e babbucce a punta rialzata era il retaggio delle passate invasioni arabe, la diffusione dei «libri di moda» aprì le porte ad un nuovo modo di considerare la vita non solo degli altri popoli, ma anche dei propri concittadini, e principesse ed intriganti cortigiane non esitavano ad inviare le proprie spie fuori dai loro domini per «rubare» qualche novità alle rivali.

Un libro di costumi raffigura i quattro continenti allora conosciuti impersonati da quattro uomini, ognuno identificato dal nome e dall’abbigliamento: è curioso il fatto che la personificazione di Europa sia più nuda della non ancora civilizzata America, e tenga in mano un rotolo di stoffa e un paio di forbici; il sarto era esempio di chi, abile nel proprio mestiere, sa primeggiare anche in altre circostanze, e in molte fiabe è proprio lui a impalmare la principessa, con scorno dei blasonati rivali.

Le nuove mode potevano nascere anche dalla fantasia di un artista: la divisa che ancora oggi indossano le guardie del Papa fu disegnata nientepopodimeno che da Michelangelo.

Tra il 1510 e il 1550 circa dominò la moda svizzero-tedesca, che usava colori forti, cappelli piatti e piumati. L’avvento di Carlo V segnò il dominio della moda spagnola fino alla fine del secolo con una maggiore sobrietà di fogge e colori, ma con gorgiere al collo, anche di pizzo e smisurate, e gioielli cuciti agli abiti (portarli indosso era un mezzo per avere sempre con sé una valida merce di scambio; inoltre le pietre e i metalli preziosi erano legati a credenze di carattere magico, e indossare certe gemme significava beneficiare dei loro positivi influssi). L’Inghilterra di Elisabetta I esagererà al massimo la dimensione delle gorgiere.

Nel Seicento, l’Olanda del benessere mercantile proponeva opulente forme a botte, dove tutto – le enormi gorgiere «a mola di mulino», i calzoni larghi, gli stivali flosci che alteravano l’andatura con il loro impaccio alle gambe – offriva un’immagine di affettata negligenza. La donna usava cuffie, ampi colli a ventaglio e sopravvesti dalle maniche enormi sollevate sui fianchi. La Parigi di Luigi XIV si connotava per lo sfarzo di trine e accessori e per l’intento di monopolizzare le manifatture legate alla moda: la Francia diffondeva le sue mode con l’uso delle «Poupées de France», manichini talvolta a grandezza naturale, vestiti all’ultima moda; a Venezia i mercanti più scaltri spacciavano per bambole prodotte in Francia bambole fatte in casa loro. Dalla metà del secolo, la donna usava corpetti rigidi con la vita a punta e allacciati su pettorine ricamate, mentre l’uomo adottava ricchi giubbotti di pizzo al posto della gorgiera.

Nel periodo della Reggenza (dal 1715 al 1730 circa) e nel periodo Rococò (fino circa al 1780), tra maestosità e capricci, dominarono i colori chiari, gli ariosi volant di pizzo, i pregiati cotoni indiani; per certi abiti femminili, servivano metri e metri di seta. Il «panier», una gabbia di giunco o metallo da portare sotto la gonna, aveva dimensioni esagerate, costringendo le dame a varcare le porte mettendosi di fianco; il busto, fatto con stecche di balena, ebbe per conseguenza una spietata caccia a questi cetacei e inoltre era scomodissimo, un vero e proprio strumento di tortura! I cosmetici erano spesso a base di sostanze nocive per la pelle: eppure, per essere belli, donne e uomini li usavano senza precauzione, mettendo a rischio la propria salute. Non è un caso che Parini abbia ironicamente dedicato il suo capolavoro, Il Giorno, proprio «alla moda», divinità vezzosa e capricciosa, l’unica che si «riverisca ed onori, poiché in sì breve tempo se’ giunta a debellar la ghiacciata Ragione, il pedante Buon Senso, e l’Ordine seccaginoso, tuoi capitali nemici».

Abiti del Settecento Napoletano

Figuranti con vestiti del Settecento Napoletano, all'Expo di Milano (Italia); fotografia di Simone Valtorta, 2015

Fu Maria Antonietta a lanciare la moda di semplici abiti camicia, ma portati con sciarpe, fisciù e pettinature esagerate.

A lungo l’uomo adottò giustacuori con falde sporgenti, aperti sul panciotto, con tasche e ampi paramani, calzoni aderenti al ginocchio e tricorno. Tuttavia non era meno frivolo della donna: indossava giacche ricamate, guarnizioni di pizzo e solo per un paio di guanti o una tabacchiera era capace di spendere cifre enormi; usava parrucche bianche, metteva molta cipria e dipingeva nei sul volto. Ancora prima della metà del secolo però, l’uomo elegante cominciò ad adottare la più pratica moda inglese, vestendo capi che si avvicinavano alle giacche ed ai pantaloni odierni e adottando la redingote (da «riding-coat», ossia soprabito adatto per cavalcare) con risvolti e bottoni. (Una curiosità: l’uso dell’uomo, a differenza della donna, di abbottonare giacche, camicie e cappotti sulla destra, ha origini militari: i soldati portavano normalmente le armi a sinistra e, per estrarle dal fodero, la sovrapposizione dei lembi della giacca a destra dava minore impaccio).

Al tragico chiudersi del Settecento con la Rivoluzione Francese, la moda in pochi anni rispose con la trasandatezza dei «sanculottes», con il ritorno all’eleganza «Ancien Régime» di Robespierre e dei «codini», o con le esagerazioni degli «incroyables», che amavano colori stridenti e redingote foderate di pelo, e delle «merveilleuses», con tuniche a vita alta, trasparenti e leggerissime.

Intanto si sviluppava l’industria tessile, ed in particolare quella dell’abbigliamento, principalmente per l’invenzione ed il perfezionamento di quattro macchine: la macchina per filare e la macchina per tessere (seconda metà del XVIII secolo), la macchina per maglieria e la macchina per cucire (prima metà del XIX secolo). Grazie ai telai meccanici di Jacquard e alle macchine per cucire, dalla metà dell’Ottocento Parigi inaugurò la produzione di modelli in serie, ossia la moda anche come «prodotto di massa», mentre con gli abiti di Worth, creativo prima che sarto, nacque l’elitaria «alta moda», soggetta presto a rigide regole (fra cui l’obbligo per le «maisons» iscritte di presentare a Parigi, all’interno di calendari ufficiali, collezioni semestrali di almeno 75 modelli).

Si cominciò a studiare la storia del costume e si stamparono le prime riviste dedicate alla moda, subito apprezzate, che descrivevano i mutevoli filoni di ispirazione del periodo: linee ampollose, pudichi abiti vittoriani o fogge esotizzanti, eco dell’epopea coloniale, elaborate commistioni di tessuti, crinoline, enormi maniche a prosciutto, busti che evidenziavano seno e glutei. Secondo un gusto opposto, si affermarono il tailleur per donna, gli abiti adatti alle pratiche sportive e, sull’onda delle critiche ai danni causati dal busto, il cosiddetto vestire «igienico», ispirato alla cultura giapponese che l’Occidente andava scoprendo. L’uomo usava giacche modellate con spalle ampie e fianchi tondi, oppure seguiva le discrete eleganze di Lord Brummell, puntando verso il vestire moderno e funzionale.

Spesso anche le fiabe mettevano in primo piano l’abito: in Pelle d’asino, la principessa ottiene vestiti ricamati con gioielli preziosi, perché li vuole colore del Tempo, della Luna e del Sole; ma il sacrificio maggiore per il padre è donargliene uno fatto con la pelle di un asino magico, al quale egli era particolarmente affezionato. In Cappuccetto Rosso, la protagonista è identificata attraverso il suo vistoso mantello con cappuccio. Nella popolarissima fiaba di Cenerentola, il riconoscimento avviene attraverso un capo di vestiario, una scarpetta di cristallo. In molte fiabe, per sposare la principessa bisogna portarle in dono un tessuto così sottile da passare all’interno dell’anellino che lei porta al dito della minuscola mano; l’immagine è molto affascinante, ma si basa su dati concreti: l’uso che avevano le Corti di scambiarsi in dono anche tessuti pregiati e capi d’abbigliamento fatti con fibre rare; così, per esempio, una sciarpa fatta con la «pashmina», anche se di non piccole dimensioni, poteva realmente passare attraverso un anello, ma… non necessariamente adatto a mani minuscole!

In un veloce mutare dallo stile Borghese (1815-1835 circa) al Neorococò (1845-1870 circa), la donna preferì la vanità alla praticità e tornò alle ampollose fogge del passato: ornamento del raggiunto benessere del marito, passeggiava con romantici cappellini annodati al mento che le nascondevano il viso e il corpo prigioniero di minuscoli corpetti e di gonne con crinolina. Nel 1870 in Italia nacquero i tessuti impermeabili, inizialmente riservati agli Alpini, agli esploratori ed ai militari, poi, nel Novecento, utilizzati anche per il campeggio.

Il passaggio dall’Ottocento al Novecento non apportò cambiamenti radicali alle fogge degli abiti, mentre dopo la Prima Guerra Mondiale il modo di vestirsi di ambo i sessi in quasi tutti i Paesi evolse in un fenomeno culturale diverso, legato alle trasformazioni sociali e alle grandi correnti intellettuali ed estetiche, portando uomini e donne a ricercare abiti che fossero al contempo belli, eleganti e funzionali.

Fu in quest’epoca che cominciarono a divenire di uso comune, oltre alle fibre tessili naturali (cotone, juta, lana, canapa, lino...) anche fibre tessili create dall’uomo: dapprima le fibre artificiali, come il rayon, ricavato dalla cellulosa, poi le fibre sintetiche, quali il nylon, l’orlon, il terital, ed altre. Le fibre artificiali e quelle sintetiche, a differenza di quelle naturali, possono essere costantemente migliorate attraverso sempre nuovi ritrovati e nuovi accorgimenti tecnici: una fibra di rayon può essere migliorata in finezza, resistenza ed acquistare numerosissimi altri requisiti. Con le nuove fibre si realizzavano stoffe più leggere e robuste, spesso più pratiche, come quelle impermeabili e antimacchia; le pellicce sintetiche scaldano altrettanto bene che quelle di pelo animale. Le nuove fibre, inoltre, avevano anche un valore «ecologico», poiché permettevano di evitare lo sfruttamento intensivo del suolo per coltivare le piante da cui ricavare le fibre vegetali. La «macchina tessitrice» del rayon e di tutte le fibre artificiali e sintetiche è la filiera: presenta una serie di piccolissimi fori attraverso i quali viene obbligata a passare la «pasta» tessile. Questa pasta esce sotto forma di sottili fili che, dopo essere stati resi solidi per mezzo di un apposito bagno, vengono raccolti su bobine.

Dagli anni Sessanta, lo stilista (colui che disegna abiti e collezioni nuove ad ogni stagione) coordina le collezioni già dalla scelta di tessuti e colori, mentre la contestazione giovanile orientava fortemente verso una moda più pratica e finto povera: dall’America si importavano jeans ed abiti usati. In Italia la nuova moda assunse i volti diversi di Max Mara, delle modelle colorate di Fiorucci, della solare «moda spettacolo».

Gli anni Settanta videro il trionfo dell’«italian style» con i nomi di Armani (che applicò alla donna i codici della moda maschile), Ferré e Versace con le loro donne iper-femminili, Missoni, Krizia, Coveri, Moschino, Prada, Gucci e le ispirazioni mediterranee di Dolce & Gabbana. Comparivano intanto i sistemi CAD (Computer Aided Design) e CAM (Computer Aided Manufactoring), che consentirono di ottenere notevoli riduzioni nei tempi, nell’impiego del tessuto e nei costi di produzione. Memorizzando in forma digitale i modelli, queste applicazioni consentono la costruzione di un archivio facilmente consultabile e moltiplicabile: inoltre, permettono una realistica vestizione del figurino e forniscono, anche grazie alla tridimensionalità, l’idea del prodotto finito. Tali prerogative, unite ai costi notevolmente diminuiti e alla grande semplicità di utilizzo dei programmi, hanno fatto sì che negli ultimi anni la maggior parte delle imprese abbiano adottato questi sistemi. L’abbigliamento si viene così a connettere sempre più strettamente a tecnologie sviluppatesi nell’ambito della chimica, della scienza computeristica, dell’ingegneria aerospaziale, dell’industria tessile, dell’architettura e del «vestire sportivo»: una delle ultime novità è la multisensorialità che ha contribuito ad una diffusione sempre maggiore di indumenti e accessori che stimolano sensazioni diverse, olfattive, tattili, sonore.

Nell’ultimo scorcio del Novecento, per soddisfare da un lato il crescente bisogno di libertà e di autonomia in contrapposizione alla globalizzazione e dall’altro i desideri di stabilità e tradizione, si diffuse quel fenomeno culturale noto come «vintage», termine inglese che significa «annata», «produzione» ed è passato nella moda a indicare l’usato «d’autore»: oggi, sull’onda del grande successo del «vintage», molti stilisti propongono capi d’annata o riedizioni di classici. Così, nella moltitudine di tendenze, l’omogeneità della moda è progressivamente sostituita da una quantità di stili diversi: essa non si impone più rigidamente, ma diventa «facoltativa», una molteplicità di «mode» che lasciano più spazio alla personalità e la possibilità per ognuno di identificarsi con questa o quella firma; l’abito viene scelto e chi lo indossa gli attribuisce un senso in base al proprio stato d’animo. (Vi sono anche invenzioni astruse, come il recentissimo «burkini», ovvero il bikini per le donne musulmane, una specie di scafandro che lascia liberi solo i piedi, le mani e il viso, e che permette loro di frequentare le piscine riservate alle donne senza arrossire per... l’imbarazzo!). L’estetica della maggior parte delle firme (da Armani a Gucci, da Ralph Lauren a Dior) è ormai applicata ad ogni dettaglio: dall’arredamento ai profumi, dalle forme pubblicitarie all’architettura. Quest’ultimo ambito sta acquisendo una rilevanza sempre maggiore: ne sono espressione stilisti che, sempre più spesso, affidano il progetto dei propri punti vendita ad architetti di fama internazionale.

(settembre 2016)

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