Miniere di carbone
Vittime italiane

Le miniere di carbone sono sempre state fra le pecore nere nella coltivazione di minerali in cave e miniere. La storia del settore è costellata d’incidenti raramente di lieve entità; il più delle volte il numero delle vittime è sempre sconvolgente. Infatti, ogni volta che capita un incidente in miniera, raramente si deve piangere un numero limitato di vittime.

Per ricordare qualcuna delle sciagure peggiori, si può iniziare con la catastrofe avvenuta in Europa nel 1906, in Francia, nel distretto del Passo di Calais. Le vittime furono 1.999, di cui tanti furono bambini.

Altro terribile massacro capitò a Benxi in Cina nel 1946: si trattò di una tremenda esplosione che uccise 1.600 minatori.

Facendo una classifica, con riferimento al caso in cui fra le vittime vi furono molti Italiani, al terzo posto si trova il disastro procurato da un errore umano, successo nella miniera di carbone Bois du Cazier di Marcinelle in Belgio l’8 agosto 1956: i connazionali periti furono 136, su un totale di 262 morti.

Al secondo posto, si vede l’incidente minerario avvenuto in una miniera di carbone di Dawson, nel Nuovo Messico. Ora, Dawson è una città fantasma, non più interessante dal punto di vista minerario, ma agli inizi del XX secolo, esaurita la corsa all’oro, era il centro di una grande attività con la presenza di quasi 10.000 anime, di cui una buona parte era impegnata nella coltivazione della miniera di carbone, alla cui gestione il proprietario John Barkley Dawson vendette il suolo. In quel caso, le vittime furono 265, di cui 146 erano minatori italiani.

Al primo posto di questa triste classifica è la sciagura successa nella miniera di carbone di Monongah, nella Virginia Occidentale degli USA, alle ore 10 e 30 minuti del 6 dicembre 1907. Le cronache riportarono che il boato e le vibrazioni del suolo dell’esplosione che li hanno causati si sono avvertiti a ben 30 chilometri di distanza. I morti furono migliaia, pari, all’incirca, a un terzo di tutta la popolazione; di questi circa un quinto era costituito da Italiani. Fu questo uno dei maggiori contributi negativi, se così si può dire, dell’emigrazione del nostro Paese.

La miniera di carbone, denominata Fairmont Coal Company, di proprietà della Consolidated Coal Mine of Baltimore, situata nello Stato della Virginia Occidentale, era veramente molto grande, con tante gallerie che consentivano l’impegno lavorativo di molti lavoratori per ogni turno. Il disastro avvenne nelle gallerie 6 e 8, poste l’una da una parte e l’altra dalla parte opposta del fiume West Fork. Il materiale utile era in un giacimento denominato Pittsburg, posto una settantina di metri di sotto all’altura nella quale era aperto il più importante ingresso della miniera ed era una decina di metri sotto il fiume.

Quando avvenne la disgrazia, come anticipato più sopra, il rumore dello scoppio e le vibrazioni del suolo si fecero sentire fino a una trentina di chilometri di distanza, mentre una fiammata alta una trentina di metri, come hanno raccontato testimoni oculari, si alzò dal suolo e poi fu seguita da un fumo denso e da una sottile polvere, che si dispersero tutt’attorno; l’acqua del fiume fu offuscata in superficie da uno spesso strato nerastro di polvere. Fu un’enorme disgrazia, una catastrofe nel vero senso della parola. Il peggio, se così si può in un caso del genere, toccò alla galleria 8; le cronache riportano che un blocco di una cinquantina di chilogrammi del tetto in cemento del locale in cui erano sistemati i motori e un pezzo dell’aeratore furono scagliati sulla sponda opposta del fiume, a non meno di 150 metri di distanza. L’altura dove si trovava l’ingresso alla miniera fu brutalmente sconvolta, mentre una paurosa ondata si riversò sulla sponda del fiume e sulla linea ferroviaria che le scorreva di fianco. Tutti i fabbricati della zona sopra la galleria 8 furono distrutti, mentre i suoi tre ingressi furono ostruiti. Il ventilatore che serviva per fornire aria ai minatori fu ridotto a pezzi e del locale in cui era installato rimase solamente un cumulo di macerie.

Un incidente del genere scombussolò la vita quotidiana degli abitanti, che vivevano nelle casette di legno fornite dalla gestione della miniera presso le sponde del fiume. Naturalmente, i parenti furono i primi ad accorrere sul posto per rendersi conto dell’accaduto, soprattutto coloro che avevano i loro cari in turno di lavoro. La diffusione della notizia sul disastro volò rapidamente, raggiungendo la sede dell’azienda, che immediatamente inviò sul luogo un gruppo di suoi funzionari, mentre i lavoratori delle miniere aperte nelle vicinanze smisero di lavorare per accorrere nel luogo del sinistro e per prestare il loro aiuto. Con una sciagura del genere sicuramente ci sarebbero stati morti e feriti, per cui fu dato l’allarme generale, chiamando all’appello medici e infermieri per soddisfare le esigenze del caso, mentre torme di giornalisti si precipitarono nella zona incidentata per raccogliere le notizie da trasmettere ai lettori dei loro giornali. Poiché l’entrata alla galleria era ostruita, occorsero molte ore prima di poter scendere nella ormai famosa galleria 8, chiaramente a sfavore degli eventuali ma improbabili sopravvissuti. Purtroppo, la colpevole mancanza della disponibilità di respiratori adatti alla situazione in atto impediva ai soccorritori di resistere nelle cavità della miniera per più di un quarto d’ora, per cui furono istituite due squadre di soccorso formate da 30 elementi che si dessero il cambio. Durante l’intervento, fra i soccorritori ci furono tre morti, di cui non è chiarito quale sia stata la causa (asfissia o altro?), che si aggiunsero alla lista dei deceduti.

Per consentire alle squadre di soccorso di lavorare in un ambiente respirabile, e per salvare gli eventuali minatori rimasti in vita, fu installato sull’ingresso principale della miniera un ventilatore, portato dalla vicina città di Shinnston. Il franamento all’interno della galleria era stato talmente grande, che dopo più di 10 ore dallo scoppio, solo per un paio di centinaia di metri era stato riattivato il passaggio. Intanto, si tentava di aprire un condotto di aereazione verso il sottosuolo. Il tentativo di raggiungere la zona dello scoppio attraverso la galleria 6 fu un insuccesso, giacché a un centinaio di metri dall’ingresso più di 600 carrelli avevano ostruito completamente il passaggio. I molti medici che sostavano in quella parte, disgraziatamente non ebbero che poco o nulla da fare.

Quando, finalmente, si riuscì a raggiungere i minatori rimasti intrappolati, si trovarono diverse centinaia di corpi, di cui la quasi totalità era carbonizzata e orrendamente dilaniata. Per giorni, i parenti (molti attoniti, altri disperati, altri ancora istericamente ridacchianti) restarono a lungo nei dintorni dell’accesso della miniera, con la tenue speranza di vedere uscire vivo, magari in cattive condizioni, ma vivo, qualche loro familiare: speranza disgraziatamente delusa!

Logicamente, tutti si posero il quesito: ma che cos’era successo? Perché? La domanda più angosciosa riguardava le condizioni di sicurezza: era scontato che ciò potesse capitare o qualcosa che doveva funzionare non l’aveva fatto? E qui, come si dice, cade l’asino.

Quando capitò la catastrofe di Monongah, gli Stati Uniti avevano una legislazione piuttosto deficitaria in merito alla salute e alla sicurezza dei lavoratori delle attività estrattive e, finché non accadde qualcosa di grosso e di grave, nessuno ci mise mano. E invero, fino a non molti anni anteriori al disastro di cui si sta parlando, i minatori portavano con sé gabbie con canarini nelle gallerie nelle quali era possibile la formazione di sacche di grisou, cioè della micidiale miscela di gas, principalmente metano e altri omologhi, oltre che azoto, ossigeno e anidride carbonica. Infatti, questi erano l’unica fonte di allarme contro la concentrazione del grisou, essendone maggiormente sensibili. Così, non appena gli uccelletti davano i primi segnali di malessere e di soffocamento, i minatori potevano immediatamente mettersi al sicuro all’esterno. D’altra parte, il lavoro com’era organizzato a quei tempi era veramente pericoloso, se non addirittura al limite dell’umana resistenza. Chi si opponeva alla durezza del lavoro, si trovava veramente in grosse difficoltà. La storia riporta che nel 1879 a Eureka, città del Nevada degli USA, tre Italiani ebbero il coraggio di fare sciopero, per far cambiare in meglio le condizioni di lavoro, ma mal ne incolse: infatti, furono brutalmente linciati. E questo episodio dimostra quanto si fosse ancora in regime di barbarie. Insomma, solamente se fosse capitato qualcosa di grosso e di estremamente grave (e a seguito delle violente reazioni della gente), c’era qualcuno disposto a rivedere le carte in materia di sicurezza: al solito, la classica chiusura delle stalle, dopo che eccetera, eccetera. Quindi, anche nel caso in esame la regola non era stata cambiata: era rimasta allo «statu quo ante».

La commissione incaricata di compiere le indagini sulle cause che portarono al disastroso scoppio, espose chiaramente i risultati delle sue ricerche, concludendo che era successo una volta in più ciò che normalmente accadeva nelle miniere di carbone, fra cui quella di Monongah; per questo era veramente il caso di approfondire attentamente gli studi a questo proposito. Così, nel gennaio del 1908, la contea di Marion, di cui la città di Fairmont faceva parte e che aveva creato una commissione per chiarire le cause dell’incidente, rese pubblici i risultati dell’inchiesta che purtroppo furono veramente deludenti: infatti, il medico legale e il gruppo di collaboratori avevano concluso che lo scoppio avesse avuto un’origine sconosciuta e incerta. Ciò che contava, pertanto, era che nessuno era giudicato colpevole del disastro o, se lo era, non era stato identificato.

Così, fu istituito l’Ufficio delle Miniere («Bureau of Mines») al Ministero dell’Interno («Departement of the Interior»), avente lo scopo di eseguire studi che conducessero a miglioramenti sensibili in merito alla sicurezza nelle miniere. Era l’anno 1910, ma solamente nel 1941, dopo che gli interessati, limitati nelle possibilità, riuscirono a fare veramente poco e dopo il ripetersi di parecchi incidenti analoghi in miniere di carbone, finalmente fu consentito loro di fare qualcosa di più aderente alle esigenze di salute e sicurezza, invece di limitarsi esclusivamente alla ricerca. Ci furono supposizioni a questo proposito, sicuramente per confondere le idee a coloro che le avevano chiare, ma esplicitamente senza fondamento logico. L’ipotesi più accreditata era che si trattasse di scoppio da grisou. Secondo alcuni si erano formate pericolose sacche di grisou a seguito di due giorni senza che i minatori lavorassero nella galleria 8 e, per questo fatto, che la ventilazione funzionasse poco per risparmiare. I due giorni erano in corrispondenza il primo del 4 dicembre, dedicato a Santa Barbara, protettrice di minatori, vigili del fuoco, artificieri, genieri, marina militare e di tutti quelli che hanno a che fare con fuoco ed esplosivo, e il secondo del 6 dicembre (ma fu anticipato al 5 per fare una sosta unica), consacrato a San Nicola, Santo venerato nell’Italia Meridionale, famoso come Babbo Natale (Santa Klaus degli Statunitensi), e amato in Europa.

Il buon senso, quando si riprende il lavoro, particolarmente quando esistono situazioni particolari (e le miniere di carbone le rappresentano), dice che, prima di riprendere le normali attività, è obbligatorio fare un controllo per stabilire se tutto è in ordine, poi si può procedere regolarmente. Da quanto risulta, nulla di tutto questo è stato fatto e da qui a quanto è successo il passo fu breve. Che le sacche di grisou ci fossero nulla può dire sì o no ma, considerando le caratteristiche del minerale coltivato, pare che nessun’altra ipotesi possa essere suffragata. Ergo, in qualche modo qualcuno o qualcosa deve aver fatto scattare la scintilla devastatrice. Forse la causa è da attribuire a un cavo elettrico tranciato da uno dei carrelli che servivano per il trasporto del carbone uscito dai binari, anche se l’ipotesi lascia perplessi, perché i cavi elettrici devono essere posti a un’altezza non raggiungibile da uomini e attrezzi.

Qualora fosse stata riconosciuta la responsabilità di quanto successe alla ditta amministratrice della miniera, ci sarebbero stati sicuramente danni economici di ragguardevole entità a suo carico e pesanti sviluppi penali per i funzionari. Per questo, la cosa migliore restava quella di insabbiare il tutto, come del resto fu fatto, e l’incidente fu derubricato come avvenuto per cause sconosciute. Chiaramente si trattava di una soluzione di comodo.

Finalmente, quando fu possibile, si raccolsero le salme nella sede della First National Bank finché ci fu spazio, poi si disposero lungo la via principale della città di fronte al fabbricato. L’identificazione fu veramente difficoltosa a causa dello stato pietoso in cui cadaveri erano ridotti, grazie allo scoppio, al fuoco e al franamento delle volte delle gallerie, e accaddero discussioni dolorose e sgradevoli fra le famiglie che reclamavano le stesse salme, asserendo che i poveri resti fossero del padre, del fratello o di qualcun altro ancora.

Molti furono riconosciuti per i brandelli di vestiti che ricoprivano quei poveri resti o da ciò che tenevano nelle tasche. Considerato, poi, che molti tenevano i pochi soldi che possedevano cuciti all’interno delle tasche, furono istituiti turni di guardia per evitare incresciose azioni di sciacallaggio. Fra i minatori molti erano Europei (Italiani, Polacchi, Ungheresi) e questi furono seppelliti nel camposanto cattolico. Per i protestanti, si approntò un nuovo cimitero in un’area sul versante collinare, messa a disposizione dalla ditta. Inoltre, si scavò una fossa comune per seppellirle i 135 corpi che non si era riusciti a identificare. La miniera fu chiusa e molte abitazioni furono costruite sulla collina sopra la miniera.

La conta dei morti rappresentò un problema che non ebbe una soluzione definitiva. Il Direttore Generale della ditta delle gallerie 6 e 8, Leo L. Malone, alla richiesta in merito da parte di giornalisti, comunicò che il mattino del disastro all’ingresso della miniera erano presenti 478 minatori; però, poiché attorno alle attività estrattive c’era sempre personale addetto a funzioni accessorie, quali il controllo dei macchinari, la conduzione di muli eccetera, e questo non era obbligatoriamente registrato nel caso in esame, egli formulò l’ipotesi che potessero essere un centinaio circa in più. Comunque, le cifre dovevano essere aggiornate continuamente, perché si trovavano sempre altre salme, man mano si avanzava nelle gallerie. Secondo la commissione d’inchiesta, le vittime furono «attorno» a 350 ma fonti giornalistiche successive parlarono di 450 morti. Secondo la commissione della ditta i deceduti furono 362, un dato che alla fine divenne ufficiale. Sicuramente, le vittime furono di più, però non è dato sapere quante siano state nella realtà e resta pure ignota l’eventualità, ritenuta pressoché impossibile, che ci sia stato qualche superstite.

Il fatto più grave che seguì gli avvenimenti descritti è da ricercare nelle conclusioni raggiunte dalla commissione di inchiesta in merito alle cause del disastro; giacché non fu possibile (sic) risalire alle cause del disastro, la ditta fu completamente scagionata da responsabilità di qualsiasi tipo, per cui i familiari delle vittime non ebbero nessun pretesto per chiedere un risarcimento, come è corretto che si faccia in casi del genere. Pertanto i superstiti, 250 vedove e 1.000 orfani, dovettero rassegnarsi al soccorso per l’assistenza offerto dalla Monongah Mines Relief Committee. Fortunatamente, molte anime generose s’interessarono alla faccenda. Difatti, ci fu una levata di scudi da parte di oltre 1.000 giornali quotidiani statunitensi, che promossero una raccolta di fondi pro famiglie dei minatori scomparsi. Il risultato fu che la raccolta raggiunse circa 150.000 dollari, che furono loro erogati. Altro denaro fu elargito dal magnate statunitense Andrew Carnegie e pure dalla stessa ditta Fairmont Coal Company. A conclusione, ogni vedova ottenne 250 dollari, mentre ogni orfano di età inferiore ai 16 anni ne ebbe 155. Da quanto è dai documenti dell’epoca, il Governo Italiano... non contribuì a dare un aiuto alle famiglie dei deceduti.

Fra i lavoratori morti, furono individuati 171 Italiani, originari del Molise, della Calabria, dell’Abruzzo. I Comuni delle regioni che ebbero perdite nella catastrofe furono tanti. Fra loro il maggiormente colpito fu quello di Frosolone della Provincia di Isernia nel Molise con 20 periti: li ricordò con una lapide posata nella piazza principale.

Prima di terminare questa nota, sembra opportuno fare una piccola chiosa su com’erano considerati gli Italiani che emigravano negli Stati Uniti in cerca di lavoro. Diciamolo chiaramente: gli oriundi inglesi e di altri Stati Europei che avevano popolato il Nord dell’America (sloggiando dagli atavici siti i legittimi abitatori dei suoi territori, i cosiddetti Indiani) avevano il puzzo sotto il naso, come si dice di chi disprezza qualcosa o qualcuno. Era stato abolito lo schiavismo da non molto. Infatti, solamente il 22 settembre 1862, il Presidente degli USA Abramo Lincoln aveva reso pubblico il documento Proclama di Emancipazione, che consisteva di due «ordini esecutivi»: il primo riguardava la liberazione di tutti gli schiavi esistenti negli Stati Confederati d’America (Alabama, Florida, Georgia, Louisiana, Mississippi, Carolina del Sud, Texas), ai quali si aggiunsero poi Virginia, Arkansas, Carolina del Nord e Tennessee, mentre nel secondo chiariva a quali Stati si riferisse; e ciò dal 1° gennaio 1863. La decisione non piacque agli Stati nei quali gli schiavi erano di fondamentale importanza per la loro economia, fondata su lavoro non retribuito e basato sulla violenza e la vessazione. Sembra poco? Bah! E, infatti, il malcontento portò alla Guerra di Secessione, che finì con la scomparsa della stessa Confederazione.

Il commento ha lo scopo di spiegare con quale arroganza fossero trattati i lavoratori italiani emigrati, definiti più simili ai neri che ai bianchi o a un livello inferiore, in cerca di un lavoro per garantire ai propri familiari almeno di potersi sfamare e costretti ad accettare stipendi da fame per compiere quei lavori duri, pericolosi e con nessuna garanzia di protezione sia per la salute sia per la sicurezza, che altri non volevano compiere.

(marzo 2021)

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