I cavalli che fecero l’America
Forse non ci pensiamo, ma a volte gli animali che ci portiamo appresso sono fondamentali non solo per la nostra esistenza personale, ma anche per la nostra stessa civiltà. Come dimostra questo breve articolo di storia statunitense

Si sente spesso parlare, e non solo in ambito storiografico, dei «grandi uomini che fecero la Storia» (la Storia in senso universale, ma anche la storia di uno Stato, di una Nazione): sono i grandi capi, i condottieri di popoli, i Padri della Patria. Persone che si elevano di molto al di sopra della «massa», che viene così dimenticata e negletta senza pensare che essa è artefice e protagonista tanto quanto i suoi comandanti: che cosa farebbe mai, un Generale, senza i soldati che combattono ai suoi ordini?

Questo è tanto più vero, quando dagli uomini si passa a parlare... degli animali. Quelli che hanno affiancato il genere umano nelle sue peripezie, nei suoi trionfi e nelle sue sconfitte. Spesso anche gli animali sono diventati protagonisti della Storia, non semplici comparse, ma comprimari. Basti pensare che gli Stati Uniti non sarebbero divenuti ciò che sono ora, se non avessero avuto... dei cavalli. E non cavalli comuni, ma cavalli con andatura comoda e scatto felino, e calmi per natura.

Facciamo un po’ di ordine. Quando Cristoforo Colombo e i primi Spagnoli sbarcarono in America, nel Cinquecento, le popolazioni locali non avevano mai visto un cavallo in vita loro: gli ultimi cavalli si erano estinti in America del Sud diverse migliaia di anni fa, probabilmente prima che vi arrivassero gli uomini. Gli Aztechi erano terrorizzati dalle cariche della cavalleria, e in alcuni casi, vedendo i «conquistadores» cavalcare i loro animali, si arresero senza opporre resistenza, ritenendoli esseri divini. Nel Nord, invece, gli Indiani – più «curiosi» e forse più intraprendenti degli abitanti del Sud – compresero subito che il cavallo poteva essere un aiuto prezioso, anche al di fuori dell’ambito strettamente bellico: nonostante l’iniziale mancanza di esperienza in materia, gli Indiani stabilirono ben presto un legame indissolubile con queste magnifiche creature, che cominciarono ad allevare. Partendo dai primi esemplari giunti nel Nuovo Continente, principalmente Arabi e Andalusi, diedero vita a una nuova razza, chiamata col nome della tribù che si dedicò con maggiore impegno alla selezione: i Chickasaw.

Le caratteristiche che contraddistinguevano i Chickasaw Horse erano la resistenza, la comodità e la velocità sulla breve distanza: insomma, tutto quello che serve quando devi passare ore e ore in sella a caccia di bisonti. Proprio il loro scatto bruciante sulle piste corte attirò l’interesse dei coloni britannici che, intorno alla metà del Settecento, cominciarono a organizzare gare sul «quarter of mile», il «quarto di miglio» (ovvero 400 metri). Gli Inglesi incrociarono il cavallino degli Indiani con il loro Purosangue in modo da ottenere un esemplare un po’ più alto, che chiamarono Quarter Horse. Da lì ebbe inizio la storia di questa razza, che non si limitò a intrattenere le folle durante le corse della domenica nei villaggi della Virginia, ma accompagnò l’uomo bianco alla conquista del West: una razza di cavalli robusti e versatili, adatti a svolgere un gran numero di mansioni, e di muoversi con sicurezza in territori che passavano dalla prateria d’erba rada alla foresta di sequoie, dalla pietraia disseminata di torrenti al deserto più arido. Quarter Horse erano i cavalli con cui i cowboy radunavano il bestiame, con cui i Pony Express consegnavano i messaggi urgenti, con cui i banditi rapinavano le banche e gli sceriffi li inseguivano.

Un Quarter Horse

Un Quarter Horse Americano

Sono passati secoli da allora, ma il Quarter Horse, nonostante alcuni clamorosi insuccessi (come la «sconfitta» subita da Buffalo Bill e dai suoi cowboy in singolar tenzone contro un gruppo di anonimi butteri della Maremma) non ha mai perso il suo posto d’onore nel cuore degli Statunitensi, che infatti lo hanno dichiarato monumento nazionale attribuendogli il titolo, forse un po’ altisonante, di «Horse which built America», il «Cavallo che costruì l’America». Del resto, il suo prezioso contributo è stato fondamentale nei ranch prima che arrivassero le macchine, e anche dopo: tanto che ancora oggi vengono allevati esemplari rustici e frugali, utilizzati nel duro lavoro con le mandrie. Infatti, alcune delle specialità in cui il Quarter Horse viene impiegato a livello agonistico altro non sono che fasi del lavoro quotidiano con i vitelli nei ranch: come separarli dalla mandria e catturarli col lazo in modo da poterli marchiare, per esempio; e i giudici premiano i cavalieri che si affidano maggiormente al «cow sense» («senso per le mucche») dei loro amici, cioè a quell’istinto naturale che permette loro di prevenire le mosse del bestiame senza bisogno che si tirino le redini o si usino gli speroni.

A differenza della maggior parte delle razze equine, il Quarter Horse non ha un vero e proprio standard a cui tutti gli esemplari devono uniformarsi. Questo perché è talmente volenteroso che si presta a moltissime discipline diverse, per ciascuna delle quali si ricercano caratteristiche morfologiche precise. Nonostante i posteriori muscolosi e le ganasce prominenti non manchino mai, un soggetto da lavoro è più basso e tarchiato rispetto a uno da competizione, e anche all’interno di questa seconda categoria ci sono enormi differenze fra gli specialisti nelle gare con i vitelli, quelli usati nel «dressage a stelle e strisce», cioè il «reining», e quelli che si dedicano alle corse su brevi distanze o alle gimcane intorno ai barili. Ciò che non cambia mai è la cosiddetta «good mind» («mente buona»), una sorta di intelligenza mista ad affidabilità, disponibilità a imparare e tranquillità, che ne fanno il compagno ideale per ogni tipo di cavaliere, anche per quelli con poca esperienza. Non solo negli Stati Uniti.

(gennaio 2020)

Tag: Simone Valtorta, Chickasaw Horse, Buffalo Bill, Pony Express, cavalli, razze equine, Stati Uniti, Quarter Horse, cavalli dei cowboy.