Jorge Mario Bergoglio, il Gesuita che divenne Papa
La vita di un «normale» uomo straordinario

«Annuntio vobis gaudium magnum: habemus Papam».

La voce si perde, quasi fosse incerta o rotta dall’emozione, nel brusio di trepidazione che aleggia tra la folla da quando, alle 19.06, dal comignolo della Cappella Sistina la fumata bianca ha annunciato l’elezione del nuovo Pontefice e le campane hanno cominciato a suonare. È ormai l’imbrunire, la pioggia batte su una Piazza San Pietro gremita come non mai; molti gli ombrelli aperti, moltissime le bandiere che, nella varietà dei loro colori, confermano la Città Eterna come il cuore pulsante del mondo, non solo cattolico. 13 marzo 2013: una data che verrà consegnata alla Storia!

La gente si muove inquieta, le ovazioni si susseguono alle ovazioni quasi senza sosta; tutti sanno chi sarà il Papa: il Cardinale Angelo Scola, a cui la Conferenza Episcopale Italiana ha già inviato un comunicato che esprimeva «la gioia e la riconoscenza dell’episcopato e dell’intera Chiesa Italiana» per la sua elezione a Successore di Pietro. Si sa, una scelta scontata.

Ma, quando c’è di mezzo lo Spirito Santo, non ci sono scelte scontate. Pochi minuti dopo – minuti che paiono dilatarsi quasi all’infinito – viene finalmente pronunciato il nome, ed è una doppia sorpresa: «Georgium Marium Bergoglio… qui sibi nomen imposuit Franciscum». Sorpresa doppia, dicevo: perché, tra le migliaia di pellegrini assiepati sotto la loggia della Basilica di San Pietro, quasi nessuno sembra conoscere quel nome; e perché il nuovo Pontefice ha scelto, primo caso nella bimillenaria storia della Chiesa, il nome del Santo «italianissimo» che ha deciso di vivere alla lettera la povertà evangelica: «Non procuratevi oro, né argento, né moneta di rame nelle vostre cinture, né bisaccia da viaggio, né due tuniche, né sandali, né bastone» (Vangelo secondo Matteo, 10, 9-10). Si affaccia alla loggia un uomo dallo sguardo umile, quasi schivo, dal sorriso pacato e sincero, che per molti versi ricorda Giovanni XXIII; indossa la talare bianca ma senza la mozzetta rossa e un crocifisso di volgare ferro, non d’oro, al collo – vi è incisa la raffigurazione del buon pastore che porta sulle spalle la pecorella smarrita e, sullo sfondo, il suo gregge; in alto, è raffigurata una colomba. In cinque minuti conquista i fedeli: non si definisce mai Papa ma Vescovo di Roma, si inchina ai presenti, chiede di pregare per sé («Vi chiedo che voi preghiate Dio di benedire il vostro Vescovo»); le note dell’Inno di Mameli si spargono per l’aria. È un’autentica rivoluzione. La sua apparizione suscita nuove ovazioni, ma in molti non sopprime la domanda: chi è, dunque, questo Bergoglio?

Papa Francesco

Elezione di Papa Francesco

Jorge Mario Bergoglio nasce a Buenos Aires, capitale dell’Argentina[1], il 17 dicembre 1936, ma la sua storia inizia molto prima, in una terra molto lontana, quando il padre Mario lascia la natia Portacomaro, in provincia di Asti, e a vent’anni sbarca nel nuovo continente per cercar fortuna. Impiegato nelle ferrovie, fa il ragioniere, lasciando alla moglie Regina Sivori (nata a Buenos Aires, ma con sangue piemontese e genovese) la direzione della casa e l’educazione dei cinque figli. Da piccolo, Jorge viene spesso affidato alla nonna paterna, e così la prima lingua che impara è il piemontese. È la nonna ad insegnare al futuro Papa Rassa nostrana, «libera e testarda», il canto degli emigranti piemontesi, che il Pontefice conosce ancora a memoria. Molti sono gli episodi che legano il Pontefice «venuto dalla fine del mondo» al Piemonte. Ricorda Giuseppina Ravedone, vedova del pittore Franco Martinengo, cugino primo di Bergoglio: «Una volta che si era fatto accompagnare a Portacomaro, dove sono sepolti i nonni e dove è tornato diverse volte in questi anni, “Giorgio” si è chinato in un campo, ha raccolto un sacchetto di terra che ha poi portato con sé a Buenos Aires». Le sue visite a Torino, il futuro Successore di Pietro le ha sempre dedicate ai parenti. Sembra di vederlo, seduto al tavolo rotondo della cucina della signora Giuseppina: «Ha sempre preferito stare in cucina, in salotto non è mai entrato. Quando era ancora vivo mio marito, passava il pomeriggio nello studio a chiacchierare, mentre Franco dipingeva». Di fronte, in lontananza, la collina con Superga. L’ultima volta che il futuro Papa ha salito la rampa coperta di moquette rossa del palazzo alle spalle del Politecnico è stato il giorno delle Ceneri di due anni fa. «Siamo andati a pranzo alla trattoria “Mombercelli”, in Via San Paolo. Io avevo detto: “Forse non dobbiamo mangiare oggi”, lui ha risposto: “Ma per noi quell’età è passata”. Abbiamo mangiato pesce».

La vita di Jorge, è una vita in ascesa: si diploma come tecnico chimico, entra in seminario, nel 1958 passa al noviziato della Compagnia di Gesù[2]; si laurea in Filosofia e poi in Teologia, è professore di letteratura e psicologia; il 13 dicembre 1969 è ordinato sacerdote, a trentasette anni è già «provinciale» e quindi superiore dei Gesuiti in Argentina. Nel frattempo compie una tesi di dottorato in Germania e pubblica i libri Meditaciones para religiosos (1982), Reflexiones sobre la vida apostólica (1986) e Reflexiones de esperanza (1992). Il 28 febbraio del 1998, è Arcivescovo, Primate di Argentina e Ordinario per i fedeli di rito orientale residenti nel Paese e sprovvisti di ordinario del proprio rito; il 21 febbraio 2001 è creato Cardinale; il 13 marzo 2013, è eletto Papa!

Ma la vita non è stata tutta rose e fiori, con lui, e nemmeno all’insegna della straordinarietà, come se Jorge fosse una specie di supereroe invulnerabile. Al contrario. Povero tra i poveri, da ragazzo si è dovuto adattare a fare le pulizie in fabbrica per racimolare qualche spicciolo; a ventun anni, per una polmonite, gli hanno asportato la parte superiore del polmone destro, ma è un uomo forte. La sua infanzia non ha avuto nulla di sorprendente: come ogni Argentino, era (ed è) tifoso di calcio (del San Lorenzo, squadra di Buenos Aires), ha imparato a ballare il tango, a dodici anni ha avuto una «fidanzatina» che faceva parte del gruppo di amici con i quali andava a ballare: le ha detto che o avrebbe sposato lei, o avrebbe fatto il prete. Ha mantenuto la promessa.

Se dovessimo descrivere la sua vita con una parola, potremmo usare il termine «semplicità» (qualcuno parla di «sobrietà», od anche di «austerità»): a Buenos Aires gira in autobus, non vive nell’episcopato ma in un piccolo appartamento, si prepara la cena da sé e di sera mangia poco o niente, un tè, della frutta. Se proprio deve usare l’aereo, sceglie solo voli «low cost». Quando viene eletto Cardinale, scopre che i fedeli hanno fatto una colletta per far festa ed accompagnarlo in viaggio a Roma: chiede loro di rimanere in Argentina e dare i soldi raccolti ai poveri; a Roma festeggia la porpora quasi da solo.

L’attenzione verso i poveri, gli ultimi, gli emarginati è sempre stata una costante della sua vita. Gli esempi si potrebbero moltiplicare. Ne basterà uno solo. «Qualche giorno fa» raccontava nel 2009, durante un’intervista, «ho battezzato sette figli di una donna sola, una vedova povera, che fa la donna di servizio e li aveva avuti da due uomini differenti. Lei l’avevo incontrata l’anno scorso alla festa di San Cayetano. Mi aveva detto: “Padre, sono in peccato mortale, ho sette figli e non li ho mai fatti battezzare”. Era successo perché non aveva i soldi per far venire i padrini da lontano, o per pagare la festa, perché doveva sempre lavorare… Le ho proposto di vederci, per parlare di questa cosa. Ci siamo sentiti per telefono, è venuta a trovarmi, mi diceva che non riusciva mai a trovare tutti i padrini e a radunarli insieme… Alla fine le ho detto: “Facciamo tutto con due padrini soli, in rappresentanza degli altri”. Sono venuti tutti qui e dopo una piccola catechesi li ho battezzati nella cappella dell’Arcivescovado. Dopo la cerimonia abbiamo fatto un piccolo rinfresco. Una Coca-Cola e dei panini. Lei mi ha detto: “Padre, non posso crederlo, lei mi fa sentire importante…”. Le ho risposto: “Ma signora, che cosa c’entro io? È Gesù che a lei la fa importante”».

Quest’attenzione agli umili, ai semplici, ai poveri ci riporta alla vicenda biblica di Giona. Il Papa la spiega con un linguaggio chiaro, evocativo ma non per nulla popolare o trasandato (ha studiato dai Gesuiti, non dimentichiamolo, e i Gesuiti hanno sempre dato grande importanza alla capacità di comunicare): «Giona aveva tutto chiaro. Aveva idee chiare su Dio, idee molto chiare sul bene e sul male. Su quello che Dio fa e su quello che vuole, su quali erano i fedeli all’Alleanza e quali erano invece fuori dall’Alleanza. Aveva la ricetta per essere un buon profeta. Dio irrompe nella sua vita come un torrente. Lo invia a Ninive. Ninive è il simbolo di tutti i separati, i perduti, di tutte le periferie dell’umanità. Di tutti quelli che stanno fuori, lontano. Giona vide che il compito che gli si affidava era solo dire a tutti quegli uomini che le braccia di Dio erano ancora aperte, che la pazienza di Dio era lì e attendeva, per guarirli con il Suo perdono e nutrirli con la Sua tenerezza. Solo per questo Dio lo aveva inviato. Lo mandava a Ninive, ma lui invece scappa dalla parte opposta, verso Tarsis. Quello da cui fuggiva non era tanto Ninive, ma proprio l’amore senza misura di Dio per quegli uomini». Guardo il Papa: lui non è fuggito, mai. Ha donato il suo amore a tutti quelli che lo chiedevano, che ne avevano bisogno senza avere il coraggio di chiederlo, proprio quelli che il mondo evita, schifa, ripudia. Mai come ora il colonnato del Bernini che cinge Piazza San Pietro mi appare come due braccia pronte a stringere gli uomini – tutti, indistintamente – in un unico abbraccio d’amore.

Jorge è sempre stato molto attento alle questioni sociali. Tra il 1976 e il 1983, negli anni della dittatura militare, si muove sottotraccia per salvare sacerdoti e cittadini dai torturatori guadagnandosi il rispetto delle madri di Plaza de Mayo, che non hanno certo risparmiato condanne alle connivenze della gerarchia cattolica col regime. Conosce anche la sconfitta, come quando si oppone inutilmente ai matrimoni tra omosessuali, voluti dal governo del suo Paese. In seguito, denunciando lo sfruttamento dei lavoratori nelle officine clandestine, il rapimento di donne e bambine per avviarle alla prostituzione, dichiara che «in questa città [Buenos Aires] la schiavitù non è abolita, è all’ordine del giorno sotto diverse forme». E poi c’è la povertà, il debito sociale: «Per coloro che hanno abbastanza i più poveri non contano, c’è una immorale, ingiusta e illegittima violazione al diritto di sviluppare una vita piena». La sua ricetta per sistemare le cose, l’ha confidata a «La Stampa» il 31 dicembre 2001: «Per contrastare l’effetto della globalizzazione che ha portato alla chiusura di tante fabbriche e la conseguente miseria, bisogna promuovere anche una crescita economica dal basso verso l’alto, con la creazione di micro, piccole e medie imprese. Gli aiuti che possono venire dall’estero non devono essere solo di fondi ma tendere a rafforzare la cultura del lavoro della cultura politica».

Solido nella dottrina e insieme riformatore, coltissimo ed umile (conosce cinque lingue: oltre all’italiano ed allo spagnolo, parla inglese, francese e tedesco; ama Dante, Manzoni, le poesie di Hölderlin; il film preferito è Il pranzo di Babette, il quadro è la Crocefissione Bianca di Chagall, pittore ebreo), sa essere duro contro quei preti che «non battezzano i bambini delle madri non sposate perché non sono stati concepiti nella santità del matrimonio», allontanando così «il popolo di Dio dalla salvezza» («magari una ragazza che non ha voluto abortire si trova a pellegrinare di parrocchia in parrocchia, chiedendo che qualcuno le battezzi il bimbo»); e spiega: «Gesù non fece proselitismo: Lui accompagnò. E le conversioni che provocava avvenivano precisamente per questa Sua sollecitudine ad accompagnare che ci rende fratelli, che ci rende figli, e non soci di una Organizzazione non-governativa o proseliti di una multinazionale». Si è sempre opposto ad una Chiesa mondana ed autoreferenziale, destinata a divenire paranoica ed autistica, una Chiesa in cui le certezze diventano un muro, un carcere che imprigiona lo Spirito Santo, facendo diventar le persone ancor più autoccupati e autoreferenziali. Nel 2007 ricorda che «ai miei sacerdoti ho detto: “Fate tutto quello che dovete, i vostri doveri ministeriali li sapete, prendetevi le vostre responsabilità e poi lasciate aperta la porta”. I nostri sociologi religiosi ci dicono che l’influsso di una parrocchia è di seicento metri intorno a questa. A Buenos Aires ci sono circa duemila metri tra una parrocchia e l’altra. Ho detto allora ai sacerdoti: “Se potete, affittate un garage e, se trovate qualche laico disposto, che vada! Stia un po’ con quella gente, faccia un po’ di catechesi e dia pure la Comunione se glielo chiedono”. Un parroco mi ha detto: “Ma padre, se facciamo questo la gente poi non viene più in chiesa”. “Ma perché”, gli ho chiesto, “adesso vengono a Messa?”. “No”, ha risposto. E allora! Uscire da se stessi è uscire anche dal recinto dell’orto dei propri convincimenti considerati inamovibili se questi rischiano di diventare un ostacolo, se chiudono l’orizzonte che è di Dio».

Vorrei terminare questo breve, e per nulla esaustivo, ritratto citando un’ultima volta le sue parole, pronunciate alla fine del 2007: parlando dei cosiddetti «tradizionalisti», ammoniva che «paradossalmente […] proprio se si è fedeli si cambia. Non si rimane fedeli, come i tradizionalisti o i fondamentalisti, alla lettera. La fedeltà è sempre un cambiamento, un fiorire, una crescita. Il Signore opera un cambiamento in colui che gli è fedele».

E possiamo star certi che di cambiamenti il Signore ne opererà, grazie a questo Papa, a quest’uomo che forse è diventato Papa proprio per questo, ma anche per aiutare i Cristiani a riscoprire la bellezza della loro Fede!


Note

1 Qualcuno ha parlato di scelta «geopolitica», come fu per Karol Wojtyla: uno dei migliori pontificati del secolo, il suo, e che ha gettato nel panico la Nomenklatura dell’Unione Sovietica e di tutto l’Est; grazie a Wojtyla, che sorvegliava e consigliava dal Vaticano, sono potuti venire Walesa, Solidarnosc, i cantieri Lenin di Danzica, gli scioperi operai che per la prima volta un regime comunista non osò reprimere nel sangue e, infine, il crollo dell’Impero.
Si era vagheggiata l’idea di un Papa Cinese: nella «superpotenza» del futuro il governo non ha potuto estirpare i Cattolici, coriacei alle persecuzioni, ma ha tentato di creare una «Chiesa» nazionale, staccata da Roma, nominando persino i Vescovi, e costringendo alla clandestinità ed ai campi di concentramento i credenti fedeli al Papa.
La scelta è invece caduta su un Papa Sudamericano, il continente cattolico per eccellenza: mentre all’inizio del secolo scorso il maggior numero di Cattolici si trovava in Italia e in Francia, ora si trova in Brasile (circa 160 milioni) e in Messico (circa 100 milioni). Nelle Americhe, il 64% della popolazione è Cattolica (il 35% dei Cattolici di tutto il mondo). Ma la Chiesa, dall’inizio degli anni Ottanta, sta perdendo migliaia di uomini e donne ogni giorno, soprattutto in Brasile e nell’America delle Ande: entrano nelle comunità, sette, chiesuole degli «evangelicals», i pentecostali che, inviati e sostenuti dai grandi finanziatori nordamericani (che non esitano a compiere anche attentati dinamitardi ai danni di comunità cattoliche, come mi ha confidato un mio amico che è missionario in Brasile), sognano di realizzare il vecchio sogno del protestantesimo, di strappare al Papa il «Continente della speranza». I grandi mezzi economici di cui quei missionari dispongono attirano i molti diseredati di quelle terre e li inducono ad entrare in comunità dove tutti sono sorretti anche economicamente. Complici anche le teologie politiche degli ultimi decenni, predicate da preti e frati divenuti attivisti ideologici, che hanno allontanato dal Cattolicesimo quelle folle, desiderose di una religiosità viva, colorata, cantata, danzata.
Forse serviva proprio un uomo che – oltre all’alta qualità, la preparazione teologica, l’esperienza – fosse di quelle terre, ma che al contempo sapesse fronteggiare certe situazioni vaticane e provvedere ad un riordino energico della Curia Romana.

2 La «Societas Jesu», la Compagnia di Gesù, è fondata nel 1534 da Sant’Ignazio di Loyola, un ex soldato di nobile famiglia basca, che ritrova la fede dopo essere rimasto ferito durante la battaglia di Pamplona nel 1521. «Fui uomo dedito alle vanità del mondo» dice di sé, «e il cui piacere maggiore era quello di esercizi marziali, con un grande e vano desiderio di acquistarsi celebrità». Povertà, obbedienza, castità e speciale obbedienza al Papa sono i voti che vincolano i Gesuiti, il cui fine è operare «ad maiorem Dei gloriam», per la maggior gloria di Dio, e il servizio del prossimo. I Gesuiti si caratterizzano fin da subito per la loro vocazione missionaria e nello stesso tempo pedagogico-culturale: riversano i loro studi umanistici e scientifici nelle scuole e nei collegi che aprono in tutto il mondo, come il prestigiosissimo Collegio Romano, che per secoli istruisce i figli delle famiglie nobili della Roma Papale; educano i rampolli dei regnanti cattolici, sono apprezzati confessori di regnanti illustri e contemporaneamente fondano missioni avanguardistiche (le «riduzioni») in Sudamerica. Il Papa Clemente XIV scioglie la Compagnia nel 1773 (ma Caterina II di Russia permette ai Gesuiti di formare nuovi allievi nelle sue terre); cinquant’anni dopo i Gesuiti rinascono grazie a Pio VII e riprendono nel mondo il loro ruolo. Molti sono i Santi gesuiti, da Roberto Bellarmino a Luigi Gonzaga, molti gli ex alunni famosi, da Mario Draghi a Mario Monti, da Luca di Montezemolo a Giuseppe De Rita. Oggi i Gesuiti nel mondo sono 21.000, e continuano a perseguire i loro compiti educativi (tredici Università solo in America Latina, ed è appena un esempio) e culturali, come testimonia il peso che ha tuttora la storica rivista «Civiltà cattolica».

(maggio 2013)

Tag: Simone Valtorta, Jorge Mario Bergoglio, Papa, Francesco, Gesuiti, Argentina, Italia, Piemonte, Cristianesimo, Papato.