La Battaglia di Shiloh
Guaritori impensabili

La Battaglia di Shiloh, avvenuta tra il 6 e il 7 aprile 1862, è stata una delle più sanguinose della Guerra di Secessione Americana, di quella guerra che vide di fronte i fratelli degli Stati del Nord e del Sud del continente americano settentrionale. Ma, a parte l’interesse storico che una battaglia così cruenta possa destare, con le varie situazioni che si sono alternate ora a favore di una delle fazioni e ora a favore dell’altra, un qualcosa che è successo a seguito della stessa ha dato molto da pensare. Il combattimento causò un numero altissimo di morti, circa 3.000, e non meno di 16.000 feriti: questi ultimi, per carenza di personale sanitario (medici e infermieri) al seguito degli eserciti, oltretutto impreparato a una tale carneficina, rimasero all’addiaccio e indifesi contro la bassa temperatura e la pioggia per un paio di giorni. Chiaramente, ogni ferita aveva una sua storia: esse erano diverse fra loro, sia per ciò che le aveva procurate (armi da fuoco, armi da taglio, esplosivi), sia per la parte colpita e l’entità del danno. Oltretutto, si era in un periodo storico nel quale i mezzi a disposizione dei sanitari per impedire la formazione di pericolose infezioni erano nei loro sogni e molto spesso l’amputazione di arti era l’unica soluzione per salvare il ferito.

E i germi ringraziavano per la libertà loro concessa di penetrare nelle ferite e, da lì, spingersi tranquillamente all’interno degli organi vitali dei soldati, dove si installavano indisturbati e banchettavano fino alla fine dei padroni di casa. Allora, non era ancora giunto il tempo per parlare della così nominata «teoria dei germi», che giunse più tardi, e tanto meno di antibiotici, arrivati più tardi ancora.

I soldati feriti rimasero in compagnia dei compagni morti per oltre due giorni di pioggia, in un ambiente che più dannoso di quello era difficile incontrare. Durante la prima notte, i soldati sofferenti si aspettavano che qualcuno pensasse di dare loro un po’ di aiuto e, nel dormiveglia fra un po’ di sonno e di dolori atroci, notarono nelle ferite di qualcuno un qualcosa di strano e inspiegabile: si erano accorti che esse luccicavano, dando un accenno di luminosità, ben visibile nell’oscurità incombente. E la sorpresa non finì lì, giacché quando i soldati feriti furono raccolti e sistemati negli ospedali da campo, quelli che avevano notato nelle loro ferite fenomeni di luminescenza avevano una speranza di sopravvivenza superiore a quella di coloro le cui ferite si erano dimostrate normali.

Il fatto fu spiegato, o meglio, narrato nei libri di storia dicendo che il fenomeno era stato tale da produrre un effetto protettivo contro la cancrena (ma senza spiegare né come, né perché); e, proprio a dimostrazione che la scienza era impreparata sul fatto, quella luce fu denominata «Aura dell’Angelo» («Angel’s Glow»).

Il fatto rimase sotto silenzio fino al 2001, a 139 anni di distanza nel tempo, quando qualcuno, venutone a conoscenza, ne fu incuriosito e provò a capirne di più. Questo qualcuno era un giovane diciassettenne, di nome Bill Martin, che durante una visita con i suoi famigliari al luogo dove avvenne la battaglia, fu colpito dal racconto delle ferite luminescenti dei soldati e chiese chiarimenti alla madre, che era una microbiologa del Servizio delle Ricerche di Agricoltura e che conosceva l’esistenza dei batteri «photorhabdus luminescens», ponendosi l’interrogativo se il fenomeno non dipendesse proprio da loro. La madre non seppe rispondere in modo esauriente alla domanda, però, considerato il quesito interessante, gli consigliò di approfondirlo. Questi non se lo fece ripetere due volte e, insieme con l’amico Jon Curtis, cominciò a studiare, partendo dall’ambiente in cui i feriti si erano trovati, chiedendosi se là vi potessero vivere quei batteri.

Il «photorhabdus luminescens» vive nelle viscere di certi parassiti detti «nematodi» e, vivendo in simbiosi, la sua attività va a vantaggio di entrambe le specie. I nematodi, che sono vermi di terra, vanno a caccia sul suolo e fra le foglie e, quando incontrano insetti, entrano nel loro corpo come parassiti e liberano i loro simbionti nel sistema sanguigno. A quel punto, i batteri luminescenti diffondono nel corpo dei malaugurati ospiti delle tossine che li uccidono, però nello stesso tempo uccidono pure gli altri microrganismi presenti nel loro corpo; così, i «soci» possono tranquillamente divorare gli insetti.

Come detto più sopra, i due ragazzi studiarono a fondo l’ambiente in cui avevano sofferto i soldati e si resero conto che esso era confacente alla vita e alla simbiosi di entrambe le specie, sia per le condizioni meteorologiche in cui si trovarono i feriti, sia per le condizioni del suolo. Il corpo umano non era come quello degli insetti, essendo la temperatura troppo elevata, per cui l’ambiente delle ferite non era adatto per i nematodi, ma la notte e il cattivo tempo portarono i soldati in uno stato d’ipotermia, rendendo le ferite un ambiente ospitale per i simbionti. Pertanto – questa è la conclusione cui sono giunti i due giovani ricercatori –, i nematodi con i batteri entrarono nei corpi dei militari attraverso le ferite, uccidendo i microrganismi che avrebbero potuto infettarle. L’aumento della temperatura corporea dei feriti, una volta giunti nell’ospedale, fu fatale ai simbionti, consentendo rapide guarigioni.

Insomma, si può finire dicendo che, se molti soldati guarirono, fu grazie all’intervento di esseri molto piccoli che, con gli Angeli, non hanno proprio nulla in comune.

(settembre 2021)

Tag: Mario Zaniboni, Battaglia di Shiloh, Guerra di Secessione Americana, teoria dei germi, antibiotici, Aura dell’Angelo, Angel’s Glow, Bill Martin, photorhabdus luminescens, Jon Curtis, nematodi, batteri utili all’uomo.