L’ammutinamento dell’Amistad
La libertà è un diritto!

L’ammutinamento è una forma di disobbedienza nei confronti di ordini ai quali si è tenuti a obbedire dati da un superiore a un gruppo di suoi subordinati, inquadrati militarmente, oppure ribellione da parte di detenuti, per esempio. Nei periodi corrispondenti alle scoperte geografiche, poteva capitare che accadesse un’aperta ribellione nei confronti del comandante della nave, per ragioni diverse, quali cattivo trattamento, ordini non facilmente eseguibili, oppure per questioni legate a sommovimenti rivoluzionari politici e sociali o altro ancora. Un esempio noto a tutti è l’ammutinamento da cui dovette difendersi nel XVI secolo Magellano, che finì con l’uccisione di due degli ammutinati e di altri due abbandonati su un’isola sconosciuta.

I casi storicamente ricordati sono stati diversi, ma quello di cui s’intende parlare in questa nota, è assolutamente fuori da ogni norma.

Nel 1839, una goletta battente bandiera spagnola, dal nome di Amistad, in italiano Amicizia, era utilizzata per il trasporto degli schiavi. Era uno di quei vascelli che, nella prima metà del secolo XIX, fungevano da navi negriere, adattate allo scopo di trasportare schiavi, spesso catturati nell’Africa Occidentale, all’Avana, capitale dell’isola di Cuba, che allora era una colonia spagnola. Nel lungo viaggio, gli schiavi erano stipati come animali, incatenati nella stiva delle navi, in spazi ristrettissimi, con ridottissimo se non nullo ricambio d’aria, soggetti a ogni sorta di maltrattamenti, umiliazioni e scarsamente sfamati. Sull’Amistad il trattamento, se possibile, era ancora peggiore, giacché la goletta non era nata per il trasporto di persone, ma unicamente di merci destinate al commercio costiero.

All’inizio dell’estate del 1839, una nave portoghese o brasiliana, non è chiara la nazionalità, di nome Teçora, sbarcò all’Avana tra i 500 e i 700 schiavi catturati nella Sierra Leone. Di questi, 54 «mende» (appartenenti a uno dei gruppi etnici più numerosi della Sierra Leone), di cui 49 uomini, comprati da José Ruiz e quattro bambini, acquistati da Pedro Montes, furono caricati sull’Amistad al cui comando era Ramòn Ferrer; i bambini provenivano da un’altra nave. La meta era il porto di Guanaja, dove era fissato un mercato di schiavi; da qui essi dovevano poi essere trasportati nella parte centrosettentrionale dell’isola, per essere destinati a lavorare nelle piantagioni di canna da zucchero.

Durante il tragitto lungo la costa di Cuba, nella notte fra il 30 giugno e il 1° luglio, i prigionieri, che erano riusciti a sciogliersi dalle catene, sotto la guida di Sengbe Pieh, si ribellarono violentemente, presero il controllo della nave, uccidendo per primo il cuoco, un mulatto portoricano di nome Celestino, poi il capitano Ramòn Ferrer, Spagnolo di Ibiza, mentre due marinai, che riuscirono a fuggire a bordo di una lancia, raggiunsero l’Avana, dove poterono denunciare il fatto alle autorità locali. Dagli insorti furono risparmiati José Ruiz, Pedro Montes e Antonio, uno schiavo del capitano, che ricoprì il ruolo di interprete. Lo scopo dell’ammutinamento era quello di assumere il comando della nave e di attraversare l’Atlantico, per tornare a casa propria. Pertanto, Sengbe ordinò ai marinai spagnoli di fare rotta verso l’Africa Centrale. Questi lo raggirarono, fingendo di obbedire: infatti, facevano rotta verso Est di giorno, mentre di notte, volgevano la prua verso Nord-Ovest.

Per questo motivo, il 26 agosto 1839, inconsapevoli di dove fossero giunti, gli ex schiavi avevano ancorata la nave poco al largo della località Culloden Point, presso l’isola Long Island dello Stato di New York, e stavano per scendere a terra per fornirsi di cibo e acqua, quando ci fu l’abbordaggio da parte del guardacoste Washington del servizio della finanza degli Stati Uniti, al comando del tenente di vascello Thomas Gadney, e la presa in custodia della nave. Poiché esisteva una legge che prevedeva una ricompensa per coloro che «salvavano una nave», i ribelli, che erano considerati una merce, furono trasportati dove quella avesse il giusto valore; infatti, furono condotti un po’ più a Nord, nel porto di New London, nel Connecticut, dove era ancora in vigore la schiavitù, mentre a New York era stata abrogata.

Il 7 gennaio dell’anno successivo fu istruito il processo per ammutinamento, ma più che ammutinamento, non fu una ribellione contro qualcuno in modo specifico, cioè che aveva un diritto o potere sulle persone, ma semplicemente contro chi le aveva indebitamente private della libertà. La sentenza fu contro i rivoltosi, perché il giudice ritenne che fosse più grave l’aver preso con la violenza il controllo della nave che non l’essere essi fatti schiavi, cioè merce da vendere. Non tutto il pubblico accettò il verdetto senza reagire, tanto che furono costituiti movimenti a favore degli Africani, fra cui quello che ebbe il maggior consenso fu il «Comitato dell’Amistad», che durante il processo aveva fatto sentire la sua voce, non solo per fare liberare i prigionieri, ma anche per perorare la causa volta all’abolizione della schiavitù in tutti gli Stati Uniti; fra i più attivi sostenitori della libertà fu l’avvocato Roger Baldwin.

La difficoltà di comprensione fra il Comitato e i rivoltosi è stata superata quando un suo membro, il professor Josiah Willard Gibbs Senior, non sapendo come fare per mettersi in contatto con i «mende», imparò a contare fino a dieci nella loro lingua, poi andò al porto di New York e iniziò contare in «mende» ad alta voce. Fu fortunato, poiché lo udì un certo James Covey, marinaio africano «mende» della Buzzard, un brigantino battente bandiera inglese, con il quale poté intendersi; egli divenne il collegamento fra Comitato e schiavi. Il Comitato perorò la loro causa ed ebbe successo, in quanto riuscì a dimostrare davanti a un tribunale distrettuale che i prigionieri erano stati catturati, portati nel Nuovo Mondo con la nave negriera Teçora, contro la loro volontà e in violazione delle leggi e dei trattati contrari alla tratta atlantica degli Africani firmati da Gran Bretagna, Spagna e Stati Uniti d’America. Appunto per questo, la loro reazione fu dettata solo dal loro desiderio di avere la libertà di cui avevano da sempre goduto e di tornarsene alla loro terra: finendo, la loro dura reazione era dovuta al diritto di mettere in atto tutte le misure legali ritenute necessarie per assicurare la loro libertà, fra cui anche l’uso della forza, qualora quelle non bastassero. Dunque, un diritto e non un reato. Per questo motivo, ci fu una nuova sentenza, nel gennaio 1840, secondo la quale la tesi della difesa fu favorevolmente accolta, per cui gli schiavi furono dichiarati liberi. Chiaramente non tutti furono d’accordo sul risultato della sentenza: quelli che lo censurarono erano coloro che, direttamente o indirettamente, traevano o potevano continuare a trarre vantaggi dal permanere in vigore della legge sulla schiavitù. Fra chi dissentì dall’esito della sentenza, ci fu la Regina di Spagna Isabella II, che pretendeva la restituzione degli Africani come merce, pur avendo firmato, il Governo Spagnolo, i documenti contro la schiavitù: controsenso incomprensibile.

Il giovane Stato Americano desiderava mantenere buoni rapporti con la Corte Spagnola, soprattutto nel rispetto della politica del Presidente Martin van Buren; questi, non disapprovava la conservazione della schiavitù, anche e soprattutto per non incorrere nelle ire degli Stati del Sud, dove gli schiavi erano la manodopera che mandava avanti le piantagioni senza spese o quasi, e che avrebbero potuto contribuire alla sua rielezione a Presidente. Di conseguenza appoggiò la proposta di appello, di cui fu discusso il 23 febbraio 1841 davanti alla Corte Suprema. In quell’occasione, dalla parte degli schiavi si schierò l’ex Presidente John Quincy Adams, il quale il giorno successivo, e con l’appoggio dell’avvocato Baldwin, con una appassionata e coinvolgente arringa, riuscì a convincere la Corte, presieduta da William Henry Harrison, della legittimità della ribellione degli Africani, confermando la sentenza del tribunale inferiore: da ciò il decreto che ratificava lo stato di libertà degli Africani e ne autorizzava il rilascio. Unico seguito negativo fu il rifiuto di far sostenere al Governo Americano le spese da affrontare per riportare i «mende» in Africa. Pertanto, i sostenitori dell’abolizione della schiavitù, con l’aiuto degli Africani stessi, si adoperarono per raccogliere i fondi necessari per noleggiare la nave Gentleman, che salpò verso il Continente Nero nel gennaio del 1842.

Purtroppo fu un amaro ritorno in patria, giacché non solo i sopravvissuti trovarono le loro dimore distrutte, ma nemmeno incontrarono i loro parenti, scomparsi, probabilmente catturati in una delle solite razzie dei negrieri.

Amara conclusione di una tremenda avventura vissuta da poveruomini che non desideravano altro che di vivere tranquillamente e in libertà nella loro terra natia.

(giugno 2021)

Tag: Mario Zaniboni, ammutinamento dell’Amistad, Cuba colonia spagnola, Teçora, Avana, mende, Sierra Leone, José Ruiz, Pedro Montes, Ramòn Ferrer, porto di Guanaja, mercato di schiavi, Sengbe Pieh, Culloden Point, Long Island, New York, guardacoste Washington, Thomas Gadney, New London, Comitato dell’Amistad, Stati Uniti, Roger Baldwin, Josiah Willard Gibbs Senior, James Covey, Buzzard, Martin van Buren, John Quincy Adams, William Henry Harrison, Gentleman, Amistad.