Il Seicento in Italia
Un secolo segnato dal declino economico della Penisola, che però continua ad essere guida culturale ed artistica d’Europa

Nei primi anni del Cinquecento, mentre in Europa si affermano la Francia e la Spagna come grandi potenze, l’Italia rimane divisa in molti staterelli che non solo si combattono fra loro, ma spesso chiamano in aiuto eserciti stranieri. Campagne abbandonate, commerci trascurati, traffici interrotti e molta miseria offrono un ben triste spettacolo; eppure la Penisola presenta ancora molte attrattive, perché le sue terre sono fertili e le sue città colme di meravigliose opere d’arte, e inoltre la sua posizione permette il dominio del Mediterraneo. La guerra tra Francia e Spagna per il dominio sull’Italia inizia nel 1525 con la vittoria dell’esercito iberico sulla cavalleria francese a Pavia e termina nel 1559: la Spagna occupa quasi metà del territorio italiano, suoi sono il Regno di Napoli, il Regno di Sicilia, il Regno di Sardegna, il Ducato di Milano ed alcuni porti militari del Tirreno. Anche altri stati della Penisola, nominalmente indipendenti, subiscono l’influsso spagnolo. Da quell’anno fino al 1714, gli Spagnoli governeranno l’Italia.


La vita quotidiana

Nel Seicento, la popolazione italiana ha un calo. Le carestie e le pesti che a ondate scorrono sulla Penisola decimano gli abitanti di città e campagne: le più gravi epidemie sono quelle del 1630 (magistralmente descritta dal Manzoni nei Promessi sposi) e del 1656. La povertà dilaga, i mendicanti abbondano dappertutto, anche il livello morale si abbassa. Il dominio spagnolo si fa via via più duro: le tasse martellano la popolazione, finché a Napoli, nel 1647, scoppia la rivoluzione; ma, dopo un anno, gli Spagnoli ritornano. Nel 1680, in Sardegna, un quarto della popolazione è spazzato via dalla miseria. Nel 1693, un terremoto distrugge la parte orientale della Sicilia.

Le città sono molto diverse da quelle di oggi. In caso di guerra, l’abitato può essere assediato dagli eserciti nemici, perciò tutti i centri dell’epoca vengono cinti da alte mura, chiamate bastioni: ancora oggi tratti di queste fortificazioni – spesso percorsi da viali alberati, come nel caso di Lucca – rimangono in alcune città italiane e conservano il nome di bastioni. Spesso le mura sono circondate da un fossato che ha lo scopo di ostacolare maggiormente l’assalto alla città.

Per entrare nell’abitato si passa da alcune porte sorvegliate da guardie che hanno il compito di chiuderle al tramonto. Spesso ci sono anche i gabellieri, così chiamati per il loro incarico di far pagare le gabelle, cioè i dazi, per le merci in entrata. In moltissime città italiane ci sono ancora le porte, che ovviamente non segnano più il limite esterno della città: anzi, ora sono vicine al centro!

Porta Garibaldi

Bastioni ed ingresso di Porta Garibaldi con sullo sfondo il nuovo quartiere, Milano (Italia); fotografia di Simone Valtorta, 2013

Oggi, nel centro delle nostre città troviamo di solito gli edifici più belli, la Cattedrale, palazzi eleganti, negozi di lusso, corsi e vie ben tenuti. Nel Seicento, invece, non esiste una grande differenza tra la periferia e il centro. È normale che le vie siano strette, ingombre delle baracche dei venditori ambulanti, di modesti artigiani, di ciarlatani; a Milano e a Napoli, le strade principali sono larghe 12 braccia, cioè circa 7 metri... tutte le altre sono molto più strette. Le piazze sono ridotte a mercati rumorosi e sudici, perché all’igiene non si pensa neppure: a Milano, per esempio, Piazza del Duomo è piccola, acciottolata e circondata da catapecchie, con il Duomo ancora in costruzione. Le case d’abitazione sono piuttosto misere: spesso si tratta di catapecchie, una addossata all’altra, con scarsissimi balconi e finestre quasi sempre senza vetri per il loro alto costo; mancano del tutto i servizi igienici, la luce e l’acqua nell’abitazione: si attinge l’acqua da pozzi situati nel cortile, oppure alle fontane. Le case non hanno negozi: sui cortili si aprono le botteghe degli artigiani. Quando scende la sera, sulle vie disordinate e sporche si posa come un nero sudario il buio più fitto, perché l’unica illuminazione è data dai miseri lucignoli accesi davanti alle sacre immagini murali.

Naturalmente, nel centro delle grandi città come Milano, Napoli, Palermo vengono talvolta costruiti palazzi grandiosi, di solito quadrati e massicci: nell’interno v’è un ampio cortile, circondato da porticati, dal quale parte un grande scalone che conduce agli eleganti appartamenti dei proprietari le cui pareti sono coperte di affreschi, stucchi, dorature e damaschi. Nello scalone sovrabbondano elementi decorativi di ogni genere: fregi, lesene, riquadri, conchiglie, volute, festoni, busti di marmo nelle nicchie, statue. Nonostante tutto questo ostentato lusso, non esiste una sola stanza da bagno.

Nelle città del Seicento non ci sono stabilimenti o grandi magazzini: la popolazione si dedica a lavori spiccioli, modesti e che raramente procurano un buon guadagno. Sono numerose le botteghe degli artigiani, cioè orefici, armaioli, cappellai, vasai, bottai, fabbri, cenciaioli, maniscalchi. Gli operai lavorano presso queste botteghe dalle 12 alle 15 ore al giorno con modestissimi compensi. Queste condizioni non certo floride del popolo sono aggravate dal fatto che il Governo Spagnolo, per mantenere l’esercito, la flotta e un numero esorbitante di funzionari, è costretto ad imporre molte tasse. C’è chi ha la fortuna o la scaltrezza di collaborare in molti modi con l’amministrazione spagnola: ciò gli dà la possibilità di vivere un poco meglio degli altri.

La dominazione spagnola in Italia non si può certo definire buona né vantaggiosa per il nostro Paese, ma sarebbe sbagliato pensarvi come ad un’epoca fatta solo di oppressione e terrore: è stata, né più né meno, uno dei tanti periodi poco felici della storia della Penisola.


La situazione economica

L’economia italiana nei primi anni del Seicento, sulla scia dell’espansione economica favorita dai cinquant’anni di pace pressoché ininterrotta grazie al trattato di Cateau-Cambrésis del 1559, è ancora florida. A partire, però, dal primo o secondo decennio, comincia un vero declino della Penisola, che in molti campi assume l’aspetto di un tracollo; la regressione economica interessa soprattutto le arti tessili. Milano, che conta 70 aziende laniere nel 1610, nel 1682 ne ha solo 5; i 900 telai da seta che possiede nel 1570 scendono a 809 nel 1607 ed a 203 nel 1711. A Verona nel 1502 ci sono 272 tessitori, nel 1616 solo 165; nello stesso periodo i garzatori scendono da 38 a 33, i pettinatori da 183 a 103, i cimatori da 27 a 17, i tintori da 90 a 75; alla metà del secolo, l’industria della seta, un tempo fiorente, è completamente estinta. Venezia produce, nel 1602, 29.000 pezze di lana all’anno, mentre alla fine del secolo ne produce solo 2.000. A Roma nel 1571 sono 93 gli iscritti all’Arte della lana, mentre nel 1582 non si arriva a 30. Stessa situazione nelle poche manifatture che si sono sviluppate nel Mezzogiorno prevalentemente agricolo: mentre nel 1580 il setificio a Napoli occupa 20.000 lavoratori ed un’esportazione indirizzata per la maggior parte verso la Spagna, dopo la rivolta del 1647 e l’epidemia del 1656 non esiste praticamente più.

Ma anche le altre attività economiche sono in regresso. A Cremona nel 1615 ci sono 187 mercanti e nel 1648 soltanto 28. In trent’anni, Genova riduce il movimento del porto da 9 a 3 milioni di tonnellate, e Venezia dal 1600 al 1620 vede dimezzarsi il numero di navi mercantili in arrivo nella laguna. A Firenze nel 1561 i cambiatori sono un quarto di quelli del 1339. A Roma i mercanti dei fondachi sono 40 nel 1553, 39 nel 1628, 28 nel 1657.

Si sono cercate delle spiegazioni per questo smantellamento di centri industriali e commerciali che avevano un tempo rappresentato l’orgoglio dell’Italia e ne avevano assicurato il primato nell’economia europea.

In passato, si è puntato l’indice contro l’occupazione spagnola che avrebbe soffocato la libertà; ma l’economia italiana rimane fiorente fino all’inizio del Seicento a dispetto del fatto che la dominazione spagnola duri ormai da mezzo secolo, e la decadenza economica coinvolge stati come la Repubblica di Venezia e lo Stato Pontificio che non sono sottoposti al governo straniero.

Si è anche accusato il ceto mercantile di aver investito i capitali non più nei commerci ma in terre e titoli, dissipando le ricchezze nei possedimenti nobiliari, nel lusso e nei piaceri bucolici della villa, poiché per gli Spagnoli il mettersi a traffico è una vergogna e un contaminare il sangue; ma questa metamorfosi da mercanti a proprietari terrieri non è una peculiarità dell’Italia, ma una caratteristica comune alla società dell’Europa della prima età moderna. In più, molto spesso aristocratici di antica o recente data fanno grossi investimenti non solo acquistando terreni agricoli, ma anche impegnandosi in ambiziosi progetti di bonifica e in migliorie fondiarie, avendo di mira futuri profitti.

Uno studioso contemporaneo, Geminello Alvi, analizza brevemente le due grandi decadenze economiche della Penisola: la prima è quella dell’Impero Romano, rovinato da una crisi fiscale, quando le conquiste e le estorsioni delle guerre non bastano più a nutrire le plebi di nullafacenti di Roma e nel contempo a mantenere le legioni. La seconda è quella che rovina le produzioni anzitutto tessili nel Seicento, provocata dai veti di stagnanti corporazioni (i «sindacati» dell’epoca): esse bloccano il mutamento, elevano i salari, aprono ai panni inglesi il futuro.

In questo c’è sicuramente del vero: la decadenza economica è dovuta ad una serie di fattori diversi, come le guerre e le rivolte che riducono la clientela dei mercati stranieri o le politiche mercantilistiche che hanno lo scopo di promuovere le manifatture locali (pensiamo alle misure protezionistiche adottate dalla Francia a sostegno delle industrie della seta e degli specchi), ma soprattutto alla concorrenza sui mercati internazionali, dove l’Italia ha per lungo tempo occupato una posizione di supremazia, che nel corso del secolo si fa più accanita. I marinai inglesi ed olandesi offrono servizi più rapidi e noli meno cari degli Italiani grazie alla maggiore efficienza dei loro mercantili, al minor costo di costruzione e alle paghe più basse degli equipaggi; i manufatti ed i prodotti dell’industria tessile che portano nel Levante sono imitazioni a minor prezzo di articoli italiani e perciò – nonostante la qualità scadente e meno durevole delle merci italiane che vanno soppiantando – possono attirare una clientela alle prese con un decrescente potere d’acquisto. Ai produttori italiani si pongono tre alternative: abbassare la qualità delle loro merci, oppure ridurre i costi di produzione, o adottare una soluzione intermedia tra le due precedenti. Ma le corporazioni continuano a rimanere fedeli agli alti standard di lavorazione sui quali si è costruita la loro fama in passato, e le tasse sempre più alte non permettono certo la riduzione dei costi di produzione; oltretutto, le corporazioni impediscono l’adozione di macchine – che potrebbero abbassare l’alto costo della manodopera – per non mettere in pericolo posti di lavoro: nel 1674, ad esempio, il Governo Genovese nega il permesso di costruire un mulino idraulico per la torcitura della seta perché porrebbe a rischio la fonte di guadagno dei filatori a mano della città, e non si tratta di un caso isolato. L’ostruzionismo delle corporazioni, unito alla loro riluttanza a modificare la qualità o l’aspetto dei prodotti conformandosi ai mutati gusti del consumatore, contribuisce a rendere molte merci italiane sempre meno competitive.

Vi sono comunque industrie che sopravvivono o addirittura prosperano: sono in primo luogo quelle che si fondano su un’abilità artigianale raffinata e ancora insuperata per produrre oggetti artistici o di lusso nei quali la qualità conta più del costo – pensiamo alla liuteria cremonese, o alle sete milanesi di maggior pregio, ricamate in oro e argento, che un visitatore inglese dell’epoca ha definito «le migliori del mondo». Altre industrie reagiscono alla perdita dei mercati tradizionali con l’apertura di nuovi sbocchi – i vetrai di Murano esportano coppe, piccoli specchi e perline di vetro colorato nel Centro-Europa e nell’Africa Settentrionale, mentre i setaioli pisani dopo il 1650 trovano nuovi sbocchi per i loro articoli di alta qualità nelle colonie spagnole ed in Brasile. Ma gli esempi più salienti di recupero e di crescita sono quelli delle industrie rurali (ignorate dagli storici fino a tempi recenti), poiché esse, impiegando manodopera contadina a basso prezzo e non essendo sottoposte alla giurisdizione delle corporazioni, non devono lottare, come le industrie urbane, con l’alto costo del lavoro, i rigidi controlli di qualità e il conservatorismo tecnologico – per esempio, i fabbricanti d’armi di Gardone Valtrompia, nel Bresciano, godono di fama internazionale e più e più volte riforniscono di armi da fuoco la Repubblica di Venezia, la Spagna, il Regno di Napoli e vari Stati Tedeschi, cosicché il numero degli altoforni funzionanti non registra per tutto il secolo alcuna flessione. Né bisogna dimenticare l’introduzione di nuove industrie, come quella della fabbricazione di panni di lana di tipo ordinario introdotta nei paesi del Biellese, in piccole comunità rurali sulle rive del lago di Como, nella Terraferma Veneziana, in Toscana e negli Abruzzi, per quanto in questo senso la documentazione sia piuttosto scarsa. Da ciò che è stato appena detto emerge un quadro complessivo non troppo felice, ma molto meno fosco di quello delineato solo pochi decenni fa: l’Italia non avrà il primato nella nuova economia che da europea sta diventando mondiale, ma occuperà comunque un posto di tutto rispetto.


Società ed arte nell’Italia barocca

Nel Seicento palazzi, monumenti, chiese, dipinti, sculture, poesie sono molto diversi da quelli dei secoli precedenti, rispecchiando lo sfarzo e la smania di decorazioni proprie del gusto spagnolo, portato alle cerimonie fastose ed alle cose eccentriche e teatrali. Dagli Spagnoli gli Italiani apprendono il gusto degli abiti ricchi e complicati e del parlare ampolloso; viene di moda possedere decine di titoli nobiliari, salutarsi con le espressioni più cerimoniose (che oggi avrebbero sapore di ipocrisia e falsità), scrivere usando frasi contorte e roboanti. La poesia, la musica, il teatro, l’arredamento, l’abbigliamento, tutte le arti e le manifestazioni pubbliche e private della vita sono contagiate da una smania di rinnovare, di far cose più ricche e stupefacenti che mai, col risultato che – è stato fatto notare – non potendo esser nuovi, gli uomini del Seicento furono solo strani.

Nasce così dall’Italia, principalmente da Roma, fiorisce e si diffonde nel Vecchio e nel Nuovo Mondo quello stile delle arti, quel costume di vita che viene chiamato «barocco».

Le feste sono uno degli aspetti più appariscenti di questa ricerca di lusso e bizzarrie: nei palazzi dei signori, durante i ricevimenti, i poeti leggono le loro ultime composizioni, gli artisti suonano al clavicembalo le arie dei primi melodrammi e si sorseggiano il caffè e la cioccolata, le squisite novità che la Spagna importa dalle sue colonie del Nuovo Mondo. Immaginiamo di osservare gli invitati, le dame e i gentiluomini, i «monsignori» (titolo nobiliare di origine spagnolesca che viene dato ai potenti), i nobili e tutti coloro che hanno raggiunto posizioni importanti: girano in portantina o su ricche carrozze, indossano vesti sfarzose, di un’eleganza quasi sempre esagerata, persino gli uomini portano cappelli ornati di lunghe piume e dei pizzi candidi al collo, ai polsi, persino al risvolto degli alti stivali; anche le divise militari sono sgargianti e poco adatte ad un soldato, riflettendo la predilezione degli Spagnoli per un modo di vivere tanto sfarzoso da divenire ridicolo. Questa moda prende il nome di «spagnolismo». È comunque ovvio che non tutti vestano in questo modo: le persone di media condizione e i popolani indossano abiti molto più modesti.

Abiti del Seicento

Figuranti in abiti seicenteschi a Villa Taverna, Canonica (Italia); fotografia di Simone Valtorta, 2008

Neppure la poesia, s’è ricordato più sopra, rimane estranea a questa passione per le forme bizzarre. Per mostrare la ricchezza della loro immaginazione e per stupire a tutti i costi gli ascoltatori, i poeti si dedicano ad infiorare i loro scritti con le più strane immagini e coi paragoni più astrusi, e quanto più un poeta sa escogitare similitudini audaci ed impreviste, tanto più è considerato grande. C’è chi, nei suoi versi, chiama le nuvole «materassi del cielo», chi definisce il cielo «padellone» e la luna «gran frittata», chi per indicare le stelle dice «del celeste cruschel [setaccio] buchi d’argento»; per descrivere una donna intenta a pettinarsi si scrive «col rastrello d’avorio ara e coltiva», per esaltare le imprese guerresche di un principe si versifica «ai bronzi [cannoni] tuoi serva di palla il mondo»; trascinato dall’enfasi, un poeta ha preteso persino che «sudassero i fuochi» e un altro è arrivato a definire l’Etna «arciprete delle montagne, che con la cotta di neve incensa le stelle». È assai difficile che in queste composizioni si trovi un briciolo di vera poesia: tuttavia esse lasciano incantati d’ammirazione gli uomini del tempo. Il maggiore dei poeti seicenteschi è il Napoletano Gianbattista Marino (1569-1625): tale è la venerazione che i suoi contemporanei hanno per lui, che lo definiscono «il maggior poeta di quanti ne uscissero o tra i Latini, o tra i Greci o tra i Caldei o tra gli Ebrei...».

La Chiesa Cattolica, uscita forte e vittoriosa dalle lotte della Controriforma, innalza altissimi templi per celebrare il suo trionfo; gli artisti si prodigano per farne delle opere grandiose e stupefacenti: ne ornano le facciate con decorazioni massicce, ne arricchiscono gli interni con ogni genere di artifizio. Entrando in una delle famose chiese seicentesche di Roma ci si trova subito immersi in una marea, quasi opprimente, di immagini e di ornamenti; i motivi decorativi si susseguono e si sovrappongono fino a non lasciare un palmo di parete vuoto e tranquillo. Vi sono marmi policromi, bronzi, ori, legni scuri, colonne tortili dorate o brunite, stucchi, statue nelle nicchie, sui cornicioni, sui davanzali; sulle volte, poi, si stendono affreschi enormi con figure d’angeli e di Santi.

Il maggior rappresentante dello stile barocco è Gian Lorenzo Bernini, uno scultore ed architetto che fa scuola in tutta Europa. Nasce a Napoli da Pietro Bernini, uno scultore fiorentino, il 7 dicembre 1598. Dal 1605 fino alla morte, avvenuta il 28 novembre 1680, risiede a Roma, dove sono tutti i suoi lavori; la sua attività maggiore si svolge in vent’anni, dal 1650 al 1670. È onorato da Papi e Sovrani, e riceve tutta la gloria e la ricchezza che un artista possa mai desiderare. Costruisce Sant’Andrea al Quirinale, Palazzo Odescalchi, Montecitorio, chiese, altari, mausolei, statue, ed alcune fra le più belle fontane di Roma, quella del Tritone e quella di Piazza Navona; ma le sue opere più celebri restano Piazza San Pietro col meraviglioso colonnato (eseguito dal 1656 al 1663) che richiama due braccia tese a stringere a sé i fedeli provenienti da tutto il mondo e l’altrettanto famoso «baldacchino» di San Pietro. Nella statua equestre di Costantino, ottiene un mirabile effetto «pittorico» dando forte rilievo alle pieghe del mantello dell’Imperatore ed ai crini del cavallo.

Piazza San Pietro

Piazza San Pietro con la Basilica e il colonnato del Bernini, Roma (Italia)

Con Francesco Castelli, detto il Borromini, il Barocco Italiano tocca la sua punta più alta e diviene una moda. Nato a Bissone, sul lago di Lugano, il 25 settembre 1599, Borromini ha una vita oscura ed una fine tragica. Lavora principalmente a Roma, dove costruisce San Carlino alle Quattro Fontane, Sant’Ivo alla Sapienza e – negli anni dal 1636 al 1650 – l’Oratorio dei Filippini; la sua chiesa di Sant’Agnese è un edificio dalle forme ricche e movimentate con le quali si vuole stupire l’osservatore, ma ottenute ricorrendo solo a trovate belle e geniali, come l’eleganza di due campanili, uno a sinistra ed uno a destra della facciata. La sua arte invita alla contemplazione, crea giochi di luce nelle navate, permea gli interni di un certo vago misticismo, preferisce le penombre, ama uno stile austero ed interiore. Dotato di un temperamento violento e focoso, Borromini è amareggiato dai successi del più fortunato rivale Bernini. In una crisi di ipocondria, si ferisce gravemente con una spada: muore qualche giorno dopo, il 3 agosto 1667, dopo aver ripreso coscienza e aver ricevuto i sacramenti.

Chiesa di Sant’Agnese

La facciata della chiesa di Sant’Agnese, Roma (Italia)

Tra i numerosissimi begli esempi d’architettura possiamo citare, a Venezia, la chiesa di Santa Maria della Salute, di Baldassarre Longhena, iniziata nel 1631 e mirabile per la ricchezza e la varietà delle decorazioni, l’imponente cupola e l’abbondanza di statue e di colonne.

A Milano abbiamo Palazzo Marino, in Piazza della Scala, fatto costruire da Tomaso Marino, un uomo d’affari genovese arricchitosi nella città meneghina con le tasse sul sale; i bastioni, progettati verso il 1550 dall’ingegnere Giovanni Maria Olgiati per ordine del Governatore Don Ferrante Gonzaga; la chiesa di San Fedele, nella piazza omonima, iniziata nel 1569 per ordine di San Carlo Borromeo; il Palazzo del Senato, in Via Senato, costruito per ordine del Cardinale Federico Borromeo. Per disposizione dei Viceré Spagnoli, a Milano sono costruiti anche il Palazzo di Brera nell’omonima via; la chiesa di Sant’Alessandro, nella piazza che porta lo stesso nome; Palazzo Litta, in Via Magenta, costruito da Bartolomeo Arese, uomo che ha ricoperto alte cariche alla Corte di Spagna ed è stato Presidente del Senato nel capoluogo lombardo.

Palazzo Litta

Palazzo Litta, Milano (Italia); fotografia di Simone Valtorta, 2007

A Roma, è mirabile l’interno della chiesa di Santa Maria della Vittoria.

A Napoli segnaliamo la Via Roma, chiamata dai Napoletani ancora Via Toledo, fatta aprire nel 1536 dal Viceré Don Pedro de Toledo; in Piazza del Municipio, nel Palazzo Municipale è compresa la chiesa di San Giacomo degli Spagnoli, eretta da Don Pietro di Toledo nel 1540; l’Ospedale di Santa Maria del Popolo degli Incurabili in Via Armanni, fondato nel 1559 dalla Spagnola Maria Longo, vedova del reggente Longo; il porto militare, iniziato nel 1596 dal Viceré Enrico de Gusman; il Palazzo Reale, eretto nel 1600-1602; Porta Alba, aperta nel 1625, al tempo del Viceré Alvarez de Toledo, duca d’Alba; la guglia di San Domenico, in Piazza San Domenico Maggiore, voluta per voto popolare durante la peste del 1656 ed iniziata nel 1658.

A Palermo possiamo ammirare Porta Nuova, eretta nel 1535 per ricordare l’ingresso in città dell’Imperatore di Spagna Carlo V; Piazza Vigliena, detta «i Quattro Canti», fatta aprire nel 1608 dal Viceré il marchese di Vigliena; la fontana Pretoria, nella piazza omonima, ideata per una villa del Viceré Don Pietro di Toledo, e poi venduta da suo figlio alla città di Palermo. Per disposizione del Viceré Spagnolo, a Palermo sono erette la chiesa di San Giuseppe dei Teatini, in Corso Vittorio Emanuele, nel 1612; la chiesa del Carmine, nella piazza omonima, nel 1626; e la chiesa di San Matteo, nel 1633.

(ottobre 2016)

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