La questione dei riti cinesi
Ovvero come una disputa teologica contribuì alla diffusione del libero pensiero

La questione dei riti cinesi, nota anche come controversia dei riti cinesi, è una famosa diatriba religiosa, sorta agli inizi del XVII secolo, che infiammò il dibattito nella società colta europea fino alla metà del Settecento, ed ebbe definitiva soluzione solo negli anni ’30 del secolo scorso.

Questa controversia è legata all’evangelizzazione dei luoghi più lontani dalla Cristianità, un risveglio dell’attività missionaria che ebbe la sua spinta ideologica nella Controriforma e la sua spinta pratica nella ripresa delle relazioni commerciali: missionari e mercanti viaggiavano sulle stesse navi, interessi della fede e interessi economici s’intrecciavano in una solida alleanza. Tra gli ordini religiosi quello più attivo nelle missioni predicatrici fu l’Ordine di Sant’Ignazio: nato nel fervore controriformista e nell’epoca delle scoperte geografiche, fece dello zelo evangelico una sua caratteristica priorità. Erigendo il sapere a strumento di predicazione, i Padri Gesuiti divennero uomini di cultura, esperti scienziati ed artisti, pronti a conoscere tutto ciò che serviva su un Paese per utilizzarlo nella loro attività missionaria.

La penetrazione missionaria in Cina iniziò con efficacia ad opera proprio dell’Ordine gesuitico, in particolare la si deve all’opera dell’Italiano Matteo Ricci (1552-1610), che nel 1582 sbarcò nella colonia portoghese di Macao, avvalendosi della relazione tra commercio e religione, la molla decisiva per la conquista di nuovi fedeli. Seguendo le istruzioni ricevute dal suo maestro Alessandro Valignano (1539-1606), Visitatore generale delle missioni delle Indie Orientali, Ricci comprese che per il successo del Cristianesimo era di fondamentale importanza il rispetto delle culture locali, e si adattò il più possibile alle usanze e ai costumi dei Paesi dove era in missione. La strategia gesuitica mirava ad assumere importanza e influenza all’interno delle classi più potenti e della Corte, nella convinzione che se si fosse riusciti a convertirle, il popolo avrebbe seguito la fede dei propri regnanti. Ricci così vestì i panni e i modi del letterato cinese del tempo, classe sociale stimata e in diretto contatto gli ambienti di Corte. Nel giro di vent’anni il gesuita italiano divenne un intellettuale rispettato dalle élite colte cinesi, al punto che negli ultimi anni della sua vita gli fu concesso il trasferimento nella capitale Pechino. Sfruttando le correnti religiose del momento, ostili alla tradizione buddhista, Ricci riuscì a presentare e a far accettare il Cristianesimo come continuazione e perfezione delle dottrine confuciane, in quel momento al centro di un recupero da parte degli intellettuali cinesi. Ricci vedeva nel Confucianesimo lo sviluppo degenerato ma recuperabile di un antico monoteismo naturale. Accanto a ciò, legò il Cristianesimo all’insegnamento scientifico, sfruttando le sue conoscenze matematiche e astronomiche per conquistare l’interesse degli ambienti colti, e farsi riconoscere così prestigio e autorevolezza. Una tale strategia sincretica poteva funzionare a scapito di trascurare alcuni contenuti dottrinali della fede cristiana: Ricci, dopo aver attratto con la sua dottrina, che richiamava apparentemente ad elementi della tradizione cinese con novità scientifiche, si riservava di educare a una più corretta istruzione cattolica a uno stadio più avanzato di conversione. Convinto del carattere universale del Cristianesimo, Ricci credeva che gli antichi cinesi avessero avuto una qualche conoscenza del vero Dio, e la presenza nei testi cinesi si espressioni come «shangdi» (Signore dell’Alto), «tian» (Cielo) o «tianzhu» (Signore del Cielo) non fece che confermare le sue teorie. Per tutti questi motivi, i culti che in Cina venivano resi a Confucio, per Ricci avevano solo il valore civile di rendere onore a un uomo che rappresentava sempre un esempio di virtù; in nessun modo Ricci vedeva Confucio come un rivale di Gesù. Anche i culti per gli antenati defunti erano visti senza implicazione religiosa, come tributi resi ai parenti in osservanza della pietà filiale, la continuazione di una tradizione sociale e culturale[1]. Il Gesuita non impediva quindi ai neofiti di celebrare i culti stabiliti dalla cultura cinese; queste concessioni iniziali sarebbero state gradualmente corrette una volta che il processo di evangelizzazione avrebbe condotto i fedeli verso i misteri della Rivelazione. Nell’opera missionaria di Ricci sono presenti così i temi principali che segneranno la controversia dei Riti: i riti in onore di Confucio e dei defunti possono essere svolti dai Cattolici? e come traduzione del nome di Dio si possono usare «shangdi», «tian» o «tianzhu»? Dagli avversari dei Gesuiti sarà lo stesso metodo dell’accomodazione gesuitico a essere messo sotto accusa.

Critiche al metodo dell’adattamento di Ricci in realtà si presentarono sin dall’inizio, all’interno stesso dell’Ordine di Sant’Ignazio; Padre Niccolò Longobardo (1565-1655), arrivato a Macao nel 1612, mostrò subito delle perplessità sulle troppe concessioni che il suo predecessore aveva accordato e sull’interpretazione delle tradizioni cinesi. Avviò dunque un’inchiesta, interrogando i nuovi convertiti e cercando di capire quali erano le concezioni religiose dominanti in Cina; il risultato di questo lavoro, il De Confucio eiusque doctrina tractatus, fu completato nel 1613 e mostra quanto poco il Cristianesimo fosse penetrato in profondità nelle nuove comunità di letterati convertiti. Questo testo però vide la luce in Europa solo nel 1701, pubblicato dagli oppositori del metodo gesuitico nel momento più acceso della controversia; quelli che lessero le élite europee nella prima metà del XVII secolo erano lavori gesuitici che continuavano la tradizione di Padre Ricci.

La decisione di mettere a tacere il dissenso interno era dovuta al fatto che a partire dagli anni ’30 del Seicento, i Gesuiti non avevano più il monopolio esclusivo delle missioni in Cina: Papa Urbano VIII consentì anche agli altri Ordini di prendere parte alle attività missionarie in Estremo Oriente e nel 1633 i primi frati domenicani e francescani misero piede su suolo cinese. I nuovi venuti contestarono subito il metodo dell’adattamento gesuitico, criticando le eccessive concessioni ai neofiti a praticare riti considerati superstiziosi e idolatri, l’atteggiamento conciliativo verso i classici della letteratura cinese e l’uso dei termini «shangdi» (Signore dell’Alto), «tian» (Cielo) o «tianzhu» (Signore del Cielo) per designare il Dio Cristiano. A differenza dei Gesuiti, attivi negli ambienti intellettuali dei letterati e a Corte, i Francescani e i Domenicani praticavano attività missionarie nelle province, lontani da Pechino, soprattutto tra gli strati più poveri e umili della popolazione, combattendo ogni giorno con fenomeni di superstizione e pratiche giudicate idolatre.

Il 1645 è l’anno che segna ufficialmente l’inizio della controversia: Papa Innocenzo X condannava con un decreto i riti cinesi in onore di Confucio e degli antenati, dopo una denuncia arrivata al Sant’Uffizio dal Domenicano Spagnolo Juan Bautista Morales. Con l’arrivo del decreto papale in Cina, l’Ordine di Sant’Ignazio si adoperò per cercare di riportare la situazione a proprio vantaggio; Padre Martino Martini (1614-1661) fu scelto per questa missione. Forte del prestigio ottenuto con la pubblicazione di opere monumentali sull’Impero Cinese (come De Bello Tartarico Historia – 1654 –, Novus Atlas Sinensis – 1655 –, e successivamente il capolavoro Sinicae Historiae Decas Prima – 1658 –), nel 1656 Padre Martini riuscì nel suo intento persuasorio, e convinse il Papa della giustezza delle posizioni del suo Ordine, tanto che nel 1656 Alessandro VII accordò l’unico decreto pro-gesuita nella storia della controversia dei riti, ritirando la condanna fatta dal suo predecessore.

Il successo del Gesuita Martini fu però effimero: dopo pochi anni dal decreto favorevole di Alessandro VII, il nuovo Papa Clemente IX, dopo una richiesta domenicana, nel 1669 dichiarò che l’atto di Innocenzo X del 1645 non veniva annullato da quello pro-gesuita di Alessandro VII; dovevano essere i missionari a decidere i comportamenti da seguire a seconda dei casi. Sempre da parte domenicana venne un duro attacco alla strategia missionaria gesuitica, importante perché portava la controversia da un ambito interno alla Chiesa, al pubblico colto europeo; nel 1676 venne pubblicato a Madrid il Tratados históricos, éthicos, políticos y religiosos de la Monarchía de China, seguito tre anni dopo dalle Controversias antiguas y modernas de la misión de la gran China. L’autore, Domingo Navarrette (1618-1686), era un monaco domenicano che aveva risieduto in Cina dal 1658 al 1670; nel 1673, tornato in Europa, riferì al Papa circa i riti cinesi e negli anni successivi compose le sue opere per attaccare duramente l’accomodazione gesuitica. L’opera di Navarrette, frutto della sua decennale esperienza in Cina, è molto critica sull’interpretazione che i Gesuiti danno del Confucianesimo; Navarrette non è colpito dal pensiero e della morale confuciana, tanto da pensare che i suoi seguaci siano atei, e riserva molte più attenzioni alla religione buddhista.

La decadenza del Portogallo, da sempre detentore delle rotte commerciali e quindi anche religiose verso le Indie Orientali, e l’interesse crescente di Luigi XIV a prendere parte a una fetta del mercato dell’Estremo Oriente, portarono la Francia ad avvicinarsi alla questione cinese anche da un punto di vista religioso. Il Governo Francese cominciò a partire dagli anni ’80 del Seicento a cercare delle soluzioni per mandare missionari in Cina che fossero però sotto la giurisdizione del Re e l’occasione si presentò con l’arrivo a Parigi nel 1684 di Padre Philippe Couplet (1622-1692), Gesuita Fiammingo, missionario in Cina, che espose a Luigi XIV la richiesta dell’Imperatore Kangxi (1654-1722) di avere nuovi missionari a Corte, esperti di matematica. Il Re concesse la partenza di cinque missionari, tutti matematici e astronomi legati all’Accadémie des Sciences, che avevano la condizione particolare di essere sotto la giurisdizione papale in ambito spirituale e sotto quella del Re in ambito temporale. Da questo momento i Gesuiti Francesi presero il sopravvento sulla missione in Cina e furono i principali punti di riferimento nella difesa della strategia di Ricci e di conseguenza il nuovo bersaglio polemico dei loro avversari: non è un caso che proprio in Francia la controversia sui riti cinesi toccò il suo apice.

Il 1693 fu l’anno in cui il vicario apostolico in Cina Charles Maigrot (1652-1730) condannò duramente l’operato dei Gesuiti: i riti in onore di Confucio e degli antenati sono superstiziosi e l’interpretazione dei testi confuciani fatta dai Gesuiti è sbagliata in quanto gli antichi Cinesi non hanno mai creduto nell’unico Dio. Per rispondere alle accuse di Maigrot, la Compagnia assegnò ai Padri Louis-Daniel Le Comte (1655-1728) e Charles Le Gobien (1653-1708) la sua difesa.

In Francia in particolare la vicenda stava assumendo dei caratteri sempre più forti, passando da controversia teologica interna alla Chiesa a disputa pubblica: in questi anni di aspro confronto sulla questione dei riti cinesi si pubblicavano nella sola Francia circa 30 libri l’anno sulla Cina.

Finché i Gesuiti furono nelle grazie del Re (come dimostra anche la nomina di Le Compte a Padre confessore della giovane duchessa di Borgogna, promessa sposa del Delfino), riuscirono a passare indenni dai vari attacchi, anche se essi provenivano da uomini di rilievo come il Vescovo Bossuet.

Nel 1700 la Società delle missioni straniere, feroce avversaria dei Gesuiti, con l’appoggio di alcuni membri vicini alla Corte, pubblicò un testo anti-gesuita e sottopose all’attenzione della Sorbona le opere di Le Compte e di Le Gobien, che contenevano a suo avviso preposizioni pericolose che testimoniavano come la Compagnia di Sant’Ignazio avesse tollerato l’idolatria e la superstizione in Cina, arrivando ad affermazioni eretiche. La Sorbona accolse le istanze della Società delle missioni straniere e condannò nei due testi sei preposizioni da censurare, in quanto false, temerarie ed eretiche per la dottrina cristiana[2].

La condanna della Sorbona fu amplificata da quella che arrivò dalla Santa Sede nel 1704; Clemente XI confermò le disposizioni di Maigrot: non si possono usare i termini cinesi «tian» e «tianzhu» per designare Dio e i Cristiani non possono partecipare alle cerimonie dei riti cinesi, considerate superstiziose. L’anno seguente il legato pontificio Carlo Tommaso Maillard de Tournon (1668-1710) arrivò in Cina per far applicare la decisione papale ai missionari (il Papa voleva che le nuove disposizioni fossero conosciute prima in Cina che in Europa). Accolto inizialmente con benevolenza dall’Imperatore, dopo alcune udienze, questi si rese conto che Tournon era venuto per nominare o divenire egli stesso superiore dei missionari in Cina. Non tollerando che un ambasciatore di un piccolo e lontano Stato potesse imporre regole a coloro che considerava ai suoi servigi, Kangxi emise un decreto nel 1706 per obbligare tutti i missionari ad avere un’autorizzazione imperiale per poter rimanere in Cina e praticare la religione cristiana, pena l’espulsione immediata. La missione di Tournon si mostrò un fallimento anche a causa dei numerosi ostacoli introdotti dai Gesuiti a Corte, che si opponevano alla nomina di un controllore esterno. Tournon, come risposta all’editto di Kangxi, emise nel 1707 una disposizione che dava indicazioni ai missionari di non attenersi al decreto imperiale sotto pena di scomunica, e imponeva loro di non praticare i riti cinesi. Dietro richiesta dei Gesuiti, l’Imperatore ordinò la definitiva espulsione di Tournon a Macao, dove questi morì nel 1710 in stato detentivo; gli avversari dei Gesuiti attribuirono a loro la morte del legato pontificio, che venne eretto a martire contro la crudeltà gesuitica.

Il Papa rafforzò la decisione del 1704, approvando il decreto di Tournon e promulgando la bolla Ex Illa Die (1715). I Gesuiti in Cina non accettarono la nuova disposizione papale e decisero di sospendere l’amministrazione dei sacramenti, ritenendo impossibile svolgere attività missionaria seguendo i divieti di Roma. Anche questa volta la Santa Sede inviò in Cina un legato pontificio, Carlo Ambrogio Mezzabarba (1685-1741), che giunse a Pechino nel 1720, col compito di far rispettare le decisioni pontificie. Questa seconda legazione fu condotta con maggiore diplomazia e sembrò che Kangxi e Mezzabarba avessero trovato un’intesa, con l’Imperatore quasi pronto ad accogliere le richieste del Papa. Ma anche stavolta la situazione precipitò, nonostante il tentativo in extremis del legato pontificio di concedere delle permissioni che venivano incontro alle richieste gesuitiche.

Impossibilitati ad avere l’esclusiva sulle missioni in Cina, in Europa i Gesuiti reagirono agli attacchi che venivano dalla Santa Sede e dagli avversari degli altri Ordini, cercando di convincere l’opinione pubblica europea, ma soprattutto francese, della giustezza della loro interpretazione dei riti cinesi. Forti del monopolio delle pubblicazioni sulla Cina, lo strumento che utilizzarono furono le Lettres édifiantes et curieuses, raccolte periodiche sulle missioni orientali[3] che iniziarono ad essere pubblicate a partire dal 1702. Nonostante il grande successo delle pubblicazioni gesuitiche sulla Cina, tra le quali spicca la Description de la Chine di Du Halde (1735), il Papa Benedetto IV nel 1742 decise che era arrivato il momento di porre fine alla questione dei riti cinesi con la promulgazione della bolla Ex Quo Singulari, con la quale venivano annullate le concessioni di Mezzabarba e inasprito il decreto di Clemente XI, esigendo un giuramento d’obbedienza da tutti i missionari in Cina. Domenicani, Francescani e missionari francesi della Società delle missioni avevano vinto la loro battaglia teologica, ma entrambe le parti in causa non avevano previsto quali potessero essere gli esiti della discussione una volta che questa si fosse aperta al grande pubblico.

Con l’arrivo delle prime notizie sulla Cina, teologi e uomini di cultura cominciano a porsi il problema della religiosità cinese; sono spiritualisti e deisti come sostengono i Gesuiti, o materialisti e atei come sostengono i loro avversari? Hanno conosciuto davvero l’Unico Dio e l’hanno dimenticato per la corruzione buddhista, o hanno costruito una filosofia religiosa che non prende in considerazione Dio? Queste domande sono importanti in un periodo di profonda revisione dei valori morali e religiosi; la controversia dei riti cinesi che esplose all’inizio del Settecento interruppe quello che era iniziato come un esame imparziale della religione cinese, portando la questione all’estremizzazione e dividendo gli animi in due visioni opposte e contrarie: i Cinesi erano o atei o spiritualisti. Il dibattito sulla religione cinese scaturito nel clima della querelle dei riti influenzò profondamente i filosofi nella seconda metà del Settecento.

I primi libertini, come La Mothe Le Vayer (1588-1672), approfittarono delle ambiguità della strategia gesuitica, per affermare la possibilità della salvezza di popoli infedeli: il popolo cinese, stando alle testimonianze dei Gesuiti, era virtuoso grazie all’opera di Confucio e poteva aspirare al Regno dei Cieli anche senza aver ricevuto il mistero della Rivelazione. Affermazioni del genere, conseguenza dell’interpretazione gesuitica dei Cinesi come popolo deista, offrivano così le argomentazioni e le giustificazioni per lo sviluppo dell’idea di religione naturale, che portò alla nascita del deismo illuminista, che vide Voltaire tra i principali sostenitori (anche lui si avvalse largamente dell’esempio cinese per giustificare il deismo). Gli avversari dei Gesuiti colsero subito la pericolosità della deriva di una simile interpretazione e si prodigarono a dimostrare, contro Gesuiti e libertini, l’ateismo dei Cinesi. Alla fine questa idea prevalse ma con esiti ben diversi da quelli sperati da chi la diffuse: Pierre Bayle (1647-1706) leggendo le testimonianze gesuitiche, si convinse che tutto il popolo cinese fosse ateo, ma possedeva anche una solida morale e una invidiabile virtù. La conseguenza del suo ragionamento ha una portata enorme per la storia del pensiero moderno: religione e moralità sono indipendenti l’una dall’altra, è possibile che un ateo sia virtuoso perché abbiamo sotto gli occhi l’esempio di un intero popolo.

La scoperta della Cina portò inoltre l’Europa alla consapevolezza progressiva che il Mediterraneo non era la culla delle civiltà più antiche del mondo; le civiltà egiziana e greco-romana sembravano non poter competere con l’antichità della civiltà cinese. Nello spirito seicentesco, l’antichità di una Nazione era motivo di gloria e quella cinese seduceva e affascinava. La presenza di annali cinesi, se se ne accettava l’attendibilità, rendeva la cronologia e l’antichità cinese pericolosa per la tradizione storica fondata sulla Bibbia. La veridicità degli annali non fu data per scontata e occorse del tempo prima che l’antichità della storia cinese fosse largamente diffusa e condivisa: è solo dopo la seconda metà del Seicento, con l’opera di Martini (il capolavoro prima ricordato Sinicae Historiae Decas Prima) che per la prima volta gli annali appaiono all’attenzione dell’Europa, introducendo il dubbio che la civiltà cinese fosse nata prima del Diluvio Universale. Furono fatti tentativi per cercare di accordare la cronologia biblica e quella cinese, ma i libertini approfittarono degli annali cinesi per dimostrare che la Bibbia non racconta la storia dell’umanità ma di un solo popolo, perché le cronache cinesi evidenziano che non fu Noè il capostipite di tutti i popoli.

La pericolosità di queste affermazioni portò la parte più intransigente, avversaria dei Gesuiti, a confutare la veridicità stessa degli annali cinesi, denigrando le conoscenze scientifiche di Cinesi e Gesuiti: le cronache erano infatti ritenute veritiere dalla presenza di osservazioni astronomiche (come ad esempio eclissi) che potevano essere verificate. Nonostante questi attacchi, la storia cinese aveva ottenuto il diritto di entrare a far parte della storia dell’umanità; se nel Discours sur l’Histoire universelle del 1681, il Vescovo Bossuet poteva far iniziare la storia umana con il Genesi, sessant’anni dopo nell’Essai sur les mœurs Voltaire pone l’inizio della storia umana in Cina, culla dell’umanità.

La cronologia cinese mise fortemente in dubbio la validità storica della Bibbia e spinse a cercare un’età più esatta della Terra, che gli annali cinesi datavano più vecchia di quella presentata nelle Sacre Scritture, incoraggiando gli studi geologici.

Come abbiamo visto, quella che sembra una disputa teologica, ai nostri occhi cavillosa e sterile, in realtà metteva in gioco problematiche che hanno influito fortemente nello sviluppo dello spirito filosofico e del libero pensiero moderno: se oggi consideriamo la moralità separata dalla religione e non accettiamo più il valore della Bibbia come testo di storia universale, lo dobbiamo anche alla discussione scaturita dalla controversia dei riti cinesi, che ha permesso al pubblico europeo di conoscere, seppur limitatamente, una civiltà prima sconosciuta.

La parola definita alla controversia dei riti in realtà sarà emessa solo nel 1939: in seguito a consultazioni avviate fin dal 1935 con il Governo fantoccio del Manchukuo, Pio XI emanò una Costituzione Apostolica che tollera i riti cinesi, affermandone il ruolo solo civile, una rivincita tardiva quanto vana per i Gesuiti.


Bibliografia critica

Duteil, Jean-Pierre, Le mandat du ciel. Le rôle des jésuites en Chine, de la mort de François-Xavier à la dissolution de la Compagnie de Jésus (1552-1774), Paris, éditions Arguments, 1994

Étiemble, René, Les jésuites en Chine: 1552-1773, la querelle des rites, Paris, Julliard, 1966

Gernet, Jacques, Cina e Cristianesimo. Azione e reazione, Casale Monferrato, Marietti, 1984

Mungello, David E., Curiuos Land: jesuit accommodation and the origins of sinology, Honolulu, University of Hawaii Press, 1989

Pinot, Virgile, La Chine et la formation de l’esprit philosophique en France 1640-1740, Genève, Slatkine Reprints, 1971.


Note

1 Il bisogno di precisare la natura dei riti cinesi appartiene allo spirito occidentale, che separa in due categorie distinte religione e filosofia; nella cultura cinese invece la linea che separa religione, filosofia e sapere è praticamente assente (i letterati cinesi non distinguevano gli insegnamenti di Ricci tra religiosi e scientifici).

2 In sintesi le preposizioni incriminate sono: 1) la Cina ha conservato per più di duemila anni, prima della nascita di Gesù Cristo, la conoscenza del vero Dio; 2) essa [la Cina] ha avuto la gloria di fare sacrifici a Dio nel Tempio più antico del mondo; 3) essa l’ha onorato [Dio] in un modo che può essere da esempio per gli stessi Cristiani; 4) essa ha praticato una morale pura come la Religione; 5) essa ha avuto la fede, l’umiltà, il culto interno ed esterno, il sacerdozio, i sacrifici, la santità, i miracoli, lo Spirito di Dio, e la più pura carità, che è il carattere e la perfezione stessa della vera Religione; 6) di tutte le Nazioni del mondo, la Cina è stata la più costantemente favorita dalla grazia di Dio.

3 Le Lettres édifiantes et curieuses raccoglievano lettere, resoconti, dissertazioni di tutte le missioni gesuitiche dall’India all’America; quelle provenienti dalla Cina e dall’Indocina erano quasi la metà del totale, a sottolineare come la controversia dei riti abbia influenzato le scelte di pubblicazione degli editori.

(novembre 2014)

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