Lucca e la sua «Monaca di Monza»: Lucrezia Buonvisi
Alessandro Manzoni si è liberamente ispirato alla sua vicenda umana?

Alessandro Manzoni frequentò assiduamente, sin da ragazzo, la città di Lucca, molto prima dunque che sua figlia Vittoria sposasse Giovan Battista Giorgini e qui si trasferisse.

Il nonno materno di Alessandro Manzoni, Cesare Beccaria, in Lucca pubblicò in anteprima il suo celebre Dei delitti e delle pene perché in campo editoriale la città, essendo città-Stato e Repubblica, mantenne sempre una certa «indipendenza». Beccaria conosceva le abitudini, i costumi, le storie della cittadina toscana.

Inoltre egli, e soprattutto la figlia Giulia Beccaria[1] frequentarono assiduamente i fratelli Verri di Milano, che in Lucca avevano diversi congiunti, fra i quali alcuni Castiglioni di Olona, loro cugini.[2] Tutti abbiamo letto, grazie a I promessi sposi dello stesso Manzoni, la storia della Monaca di Monza, suor Virginia, al secolo Marianna di Leyva, discendente di don Antonio de Leyva, gran capitano di Carlo V.

Nel celebre romanzo ha il nome di Gertrude. Pochi sanno, forse, che questa donna, nata probabilmente tra il 1575 e i primi del 1576 e morta nel 1650 era quasi coetanea di Lucrezia Buonvisi, la nobile lucchese che negli stessi anni ebbe a Lucca una storia d’amore e di delitti ancora più terribile.

Oggi che le donne subiscono violenze domestiche di ogni genere, e talune volte le producono, può essere interessante notare come anche nel «secolo di ferro» persino le aristocratiche si «appropriassero» di una violenza tipicamente «maschile», quasi ad esorcizzare la stessa violenza che veniva loro imposta, obbligandole a unioni indesiderate e modelli di vita non conformi alle proprie aspettative.

La fantasia di Manzoni non dovette essere insensibile, viste anche le frequentazioni familiari, a questo genere di richiami. Il Dei delitti e delle pene del nonno Cesare dovrebbe ancor più far riflettere, vista la vicenda che mi accingo a descrivere.

Lucrezia era figlia di Vincenzo Malpigli, appartenente ad una delle famiglie più ricche della città, il quale trascorreva molto del suo tempo a Ferrara.[3] I Malpigli furono in corrispondenza nientemeno che con Torquato Tasso e, secondo quanto si apprende da Salvatore Bongi[4], nel suo libro Storia di Lucrezia Buonvisi[5] «sovvennero il povero Torquato con doni e cortesie d’ogni modo e, colla ospitalità nelle proprie case, anche nei tempi dei suoi maggiori infortuni».

Vincenzo Malpigli era sposato con Luisa Buonvisi, figlia di Benedetto, appartenente ad una famiglia ancora più ricca e prestigiosa. Va ricordato infatti che Martino Buonvisi (anche Bonvisi) con i suoi armigeri debellò la Congiura degli Straccioni in Lucca nel maggio del 1531, congiura che tenne in agitazione la città per ben undici mesi.

Dal matrimonio nacquero tre femmine e un maschio. Lucrezia fu l’ultima dei figli, nata a Lucca nel 1572 (tre, quattro anni prima, dunque, della Monaca di Monza). Visse la sua infanzia a Ferrara e «appena potea dirsi donna» fece ritorno a Lucca, «messa in ischiera tra le più belle». Il suo destino era quello di sposare un Buonvisi, famiglia da cui discendeva la madre.

«Se non che la provvidenza pareva che si opponesse a questo parentado», poiché il primo dei prescelti morì «poco dopo fissato il matrimonio»; si scelse allora uno dei fratelli e accadde la stessa cosa. Ma le due famiglie, «non sgomentate da siffatti presagi stabilirono che Lucrezia andasse in moglie al terzo di quei fratelli, di nome Lelio e le nozze infauste si celebrarono in Lucca nell’agosto del 1591». Lelio aveva 26 anni e Lucrezia 19.

Non era passato ancora un anno da quel matrimonio che si rivelava sterile, e al quale Lucrezia non aveva portato il suo cuore, che la giovane sposa cominciò a coltivare una vecchia passione, quella che, a Ferrara, l’aveva vista amoreggiare con Massimiliano Arnolfini, discendente pure lui di una illustre famiglia lucchese, la stessa ritratta nel celebre quadro di Van Eyck del 1434, conservato alla National Gallery di Londra.

Così avvenne che una sera, il 1° giugno del 1593, mentre Lelio passeggiava con la moglie, giunti nella piazza di San Lorenzo in Lucca[6] fu assalito da un gruppo di uomini e «cadde trafitto da diciannove ferite». La notizia si sparse rapida per la città. Molta folla accorse a vedere il cadavere esposto nella chiesa de’ Servi, sita nella medesima piazza dove era avvenuto il delitto. Non mancarono da parte della famiglia minacce di vendetta. Il giorno successivo fu emesso un bando «che ingiungeva ad ogni persona, che per qualunque via o modo avesse notizia o indizio degli omicidi, di farne denunzia al Gonfaloniere dentro ventiquattro ore, pena il taglio della testa e la confisca a chi non ubbidisse».

Si sospettò subito di Massimiliano Arnolfini. Il primo ad additarlo fu un parente dell’ucciso, Lorenzo figlio di Giovanni Buonvisi, «forse l’uomo di maggiore autorità che fosse allora fra i cittadini di Lucca». Si seppe che il sospettato, insieme con «i suoi scellerati» aveva valicato il confine lucchese «dalla parte della Garfagnana», finché uno di questi, Vincenzo di Coreglia,[7] confessò di «essere stato avvisato come veramente dovesse ammazzarsi il Buonvisi per ordine di Massimiliano, e che al fatto sarebbero stati Pietro da Castelnuovo[8], Ottavio da Trapani[9] e Nicolao da Pariana».[10] Massimiliano fu condannato «ad aver mozza la testa e nella confisca dei beni; i tre assassini dover essere posti in un luogo eminente, ivi tanagliati con tanaglie infuocate, poi appiccati; più la confisca senza detrazione di legittima ed il bando dei figli e fratelli germani e con essi abitanti, secondo quanto disponeva lo Statuto».

Anche per Lucrezia fu ordinata la cattura, che non potette avvenire «per esser costei rifuggita nel convento di Santa Chiara, ivi tonsurata e vestita monaca», assumendo il nome di suor Umilia Malpigli. Consigliata dalla famiglia, era entrata in convento il 5 giugno 1593. La Repubblica di Lucca inviò, allora, un cancelliere a Roma «per impetrare dal Papa di catturare Lucrezia, la quale dicevano indiziatissima d’aver tenuto mano all’assassinio del marito, poi rifuggita in frode della legge nel convento». Il processo si concluse «dopo otto giorni di esami e di ricerche, e undici dal commesso delitto».[11] Ma Papa Clemente VIII trovò molti appigli per non consegnare la suora. Prima dell’arrivo a Roma dell’ambasciatore lucchese, infatti, «si seppe che un corriere privato, partito lo stesso giorno dell’ambasciatore, ma con qualche ora di anticipo, lo aveva prevenuto. E questo fu il primo prognostico che i protettori di Lucrezia lo avrebbero vinto nel gioco». Cosicché l’inviato della Repubblica, il 13 agosto prese congedo dal Papa. Continuò nel frattempo la caccia a Massimiliano che «s’era ridotto, coi suoi bravi, e con altri simili che aveva raccolto per la via, nei paesi di Valdimagra tra Castelnuovo e Sarzana». Da un tal Giovanni da Fano si apprese che Massimiliano non solo «non negava di aver ammazzato Lelio Buonvisi, ma liberissimamente lo confessava». Di lì a poco tuttavia doveva raggiungerlo la notizia che la donna per la quale aveva commesso il delitto «niente fedele alla prima passione, benché monaca, andava moltiplicando gli amori ed i delitti». Fu per lui un duro colpo che fiaccò «all’audace le forze del corpo e la serenità della mente, tantoché fu detto addirittura da alcuni cronisti che “il rimorso di sì atroce delitto l’avea reso stolido e mentecatto”. Arrestato proprio davanti ai cancelli di Villa Buonvisi, fu per questa ragione che la Repubblica decretò che “trovandosi Massimiliano Arnolfini fuor di cervello” gli fosse permutata la pena col murarlo a vita nella torre di Viareggio».

Quella torre, costruita nel 1534 e attorno alla quale si costituì il primo nucleo cittadino, è ancora presente in Viareggio e conosciuta come torre Matilde. A lungo è stata carcere di quel capoluogo.

Scrive in proposito Salvatore Bongi: «Era a quei tempi Viareggio uno squallido villaggio di povere capanne, quasi inabitabile per le nefande e pestifere esalazioni delle vicine paludi». Chiuso nella torre e con quel clima l’Arnolfini resistette per circa dieci anni, quando si seppe, nel maggio del 1625, «che da tre giorni non aveva tocco il cibo e che per una gran perdita di sangue pareva in procinto di morte». Andarono per assisterlo, «ma quel disperato, cui forse era in odio l’aspetto degli uomini più che la morte, non consentì di essere vistato». Riuscì a guarire con le sole sue forze, finché, quattro anni dopo, il Commissario che lo aveva in custodia scrisse «che il carcerato era moribondo, e che questa volta da per sé avea dimandato di un sacerdote». Da quel momento non sappiamo più nulla di lui, e soprattutto se sia morto in quella circostanza. Il Bongi scrive: «Ma il non averne trovato più il nome in niuno de’ pubblici documenti ce ne dà molto probabile congettura. Se ciò fosse, Massimiliano Arnolfini sarebbe morto nell’anno sessantesimo dell’età sua, dopo averne passati ventidue ramingo, e quattordici stretto in quella crudelissima prigione».

Lucrezia continuava, intanto, a coltivare in convento le sue passioni: «Si era ugualmente saputo che Tommaso Samminiati[12] era preso particolarmente di suora Umilia Malpigli. Costei toccava ormai i trentacinque anni d’età; ma tanto avea conservato di bellezza e di fuoco, da affascinare del tutto esso Samminiati, benché di dieci anni più giovane». Nell’Archivo di Lucca sono conservate alcune lettere facenti parte del carteggio intercorso tra gli amanti. Anche un certo Pietro Pittore figura tra gli amanti della donna, e il Samminiati l’aveva talmente in odio che voleva ucciderlo per «levarsi questa peste d’attorno». Al modo della più celebre Monaca di Monza, anche suor Umilia «dovea col veleno spengere una povera monaca. Era costei suor Calidonia Burlamacchi, che ritiratasi dalla sua compagnia, temeva potesse palesarne le colpe». Fu il Samminiati a procurarle il veleno. Quel convento fu presto in preda a scelleratezze e, oltre suor Umilia, altre suore furono implicate in scandali: «Orizia Orsucci, Cherubina Mei, Pula Altogradi, Dionea Martini, e Massimilla Ludovici».[13] Fu informato il nuovo Papa Paolo V che autorizzò il processo. Suor Umilia godeva di protezioni altolocate, soprattutto da parte del fratello Giovanni Lorenzo Malpigli, «gentiluomo molto accetto e favorito nelle Corti Italiane, il quale avea amato svisceratamente la sorella e sempre difesala e sostenuta nei suoi molti travagli», al punto che suor Umilia «non solo persisteva nei soliti costumi, ma che, altera e superba, scorreva il convento minacciando le compagne se mai avessero palesato i suoi mancamenti; di che tutte le monache vivevano inquiete, ed alla tavola comune mangiavano con sospetto e paura di veleno. Fu riferito ancora che, sperperati i vecchi amanti, suor Umilia ne avesse trovato uno nuovo nello spettabile Simo Menocchi, col quale, a dispetto della badessa, si diceva avesse trattenimenti frequenti; e che fino seguitassero sotto le finestre della sua cella le serenate ed i canti». Le protezioni di cui godeva Lucrezia si infransero, tuttavia, di fronte all’ostinazione di Papa Paolo V; fu quindi concluso il processo e gli atti inviati a Roma «dove era riserbata la sentenza», che fu pronunciata dal Papa, nei confronti delle monache implicate negli scandali del convento. Riguardo a suor Umilia la sentenza dispose una punizione più tenue rispetto alle altre, in forza delle sue protezioni, e cioè che fosse «condannata pure al carcere come sopra; ma solamente per sette anni e alla privazione per sempre dello scapolare, del velo e della voce attiva e passiva». In realtà trascorse nove anni imprigionata nella cella, non volendo sottomettersi, scaduti i sette anni della pena, all’umiliazione di non poter più indossare l’abito e il velo, finché, il 6 marzo 1618, «le fecero grazia del carcere, restituendole l’abito e la voce attiva; a condizione però che mai potesse accostarsi ai parlatorii, ruote e porte del convento, senza una licenza riservata alla stessa Congregazione».

Di lei non si parlerà più se non nel testamento della madre Luisa Buonvisi scritto il 17 settembre 1618, ossia pochi mesi dopo la sua scarcerazione. «Avea allora raggiunto l’anno quarantesimo sesto di età. Quando poi cessasse di vivere non ci fu dato di ritrovarlo, mancando i registri mortuari del convento, dispersi col maggior numero delle sue carte allorché fu soppresso.

Così scompariva senza lasciar traccia della sua fine colei che tanto avea fatto parlare di sé nell’età più fiorita».

Forse visse tra i rimorsi «pensando a coloro che per causa sua avevano perduto la vita, la libertà e la patria. E più di tutto dovette stringerle il cuore il sapere dal fondo della prigione in che misero stato fosse ridotto per lei quel suo primo amante Massimiliano Arnolfini, che pure per uno strano gioco della fortuna sembra che sopravvisse a tutti i personaggi di questa odiosa tragedia».

La leggenda ha, contrariamente alla realtà dei fatti, continuato a prodursi volendo Lucrezia e l’Arnolfini incontrarsi segretamente a Villa Buonvisi (oggi Villa Torrigiani, una delle più celebri della Lucchesia), dove la credenza popolare vuole tutt’ora che dimorino i fantasmi dei due amanti.

Così come accade ai nostri giorni, una vicenda di costume talvolta può rappresentare meglio di fatti ed eventi politici un’epoca ed un contesto sociale.

Alessandro Manzoni docet.


Note

1 Giulia Beccaria è la madre di Alessandro Manzoni.

2 Maria Angela Castiglioni, dei Castiglioni di Olona era ad esempio la madre di un sacerdote aristocratico, padre Gioacchino Prosperi, di cui mi sono occupata nella mia tesi di laurea.

3 In precedenti mie pubblicazioni ho ricordato come i legami tra Ferrara e Lucca fossero consistenti. Vedi Tra Lucca e Ferrara del professor Paolo Zanardi Prosperi.

4 Salvatore Bongi, noto erudito e storico lucchese vissuto nel XIX secolo.

5 Riedito in copia anastatica da Maria Pacini Fazzi in Lucca nel 1978. L’originale è del 1864.

6 Piazza cittadina dove sorge la chiesa de’ Servi.

7 Località sita in Media Valle.

8 Castelnuovo Garfagnana.

9 Peraltro documentabili sono i rapporti della città con molte città del Sud.

10 Paesino delle colline lucchesi.

11 Una fretta tutt’altro che giustificata.

12 Nobile cittadino.

13 Si tratta prioritariamente di donne appartenenti all’aristocrazia cittadina.

(maggio 2014)

Tag: Elena Pierotti, Italia, Seicento, monaca di Monza, Lucca, Lucrezia Buonvisi, Alessandro Manzoni, veleno, avvelenatrice, Giovan Battista Giorgini, Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene, Giulia Beccaria, fratelli Verri, Castiglioni di Olona, I promessi sposi, suor Virginia, Marianna di Leyva, Gertrude, Vincenzo Malpighi, Torquato Tasso, Salvatore Bongi, Luisa Buonvisi, Martino Buonvisi, Congiura degli Straccioni, Ferrara, Massimiliano Arnolfini, Vincenzo di Coreglia, Pietro da Castelnuovo, Ottavio da Trapani, Nicolao da Pariana, convento di Santa Chiara, Umilia Malpigli, Roma, Papa Clemente VIII, Valdimagra, Castelnuovo, Sarzana, Giovanni da Fano, Lelio Buonvisi, Villa Buonvisi, Viareggio, Tommaso Samminiati, Pietro Pittore, Calidonia Burlamacchi, Orizia Orsucci, Cherubina Mei, Pula Altogradi, Dionea Martini, Massimilla Ludovici, Papa Paolo V, Lorenzo Malpigli, Simo Menocchi, Villa Torrigiani.