Marmo: forza dell’immagine e della poesia
Caratteri esclusivi di un materiale straordinario

Charles Louis de Sècondat, barone di Montesqieu, non fu soltanto il fondatore della teoria di divisione dei poteri, alla base delle moderne democrazie. Nel corso del suo viaggio del 1728 in Italia, di cui ebbe a denunciare la decadenza in forme talvolta icastiche, non si sottrasse al fascino delle sue antichità, ed in primo luogo dei suoi marmi, affermando che a Roma «anche le pietre parlano» e precedendo di poco Johann Wolfgang Goethe, assertore del celebre assunto secondo cui il marmo dei Fori deve essere ammirato ma anche «ascoltato» in quanto testimone di antiche glorie e di valori perenni.

Non basta. Quando François René de Chateaubriand, nel 1803, venne inviato a Roma da Napoleone con l’incarico di segretario d’ambasciata, non fece mistero del fascino che i monumenti antichi esercitarono su di lui, fino al punto da «riempirsi le tasche con frammenti di porfido e di alabastro». Era la conferma di una straordinaria suggestione che la pietra esercitava su taluni spiriti particolarmente attenti al suo linguaggio simbolico ed a valori mutuati, ad un tempo, dal romanticismo e dall’illuminismo. Del resto, erano passati poco più di due secoli da quando l’Abate Agostino Del Riccio aveva affermato, non a caso da Carrara, che anche il marmo ha un’anima: quella che lo scultore è capace di immettere nella materia prima.

Qualche decennio dopo Chateaubriand, il tema della pietra come fondamento di valori destinati a trascendere il mondo sensibile sarebbe stato ripreso da Ugo Foscolo e dalla sua commozione davanti alle glorie italiane eternate nei marmi di Santa Croce, senza trascurare il busto di Venere che presiedeva «marmoreo» al tempio profano del suo ultimo amore. Poi, la parabola si sarebbe compiuta con Gabriele d’Annunzio ed il suo inno ai marmi apuani cantati come «sostanza delle forme eterne» ma nello stesso tempo come matrice di «insania» e di «dolore»: non a caso, a metà del Novecento sarebbe stato diffuso il verso di un cavatore di Carrara secondo cui gli uomini del marmo sono «creditori di anima agli occhi del mondo».

Non c’è che dire: la capacità della pietra di parlare al cuore dell’uomo si andava affinando e perfezionando ma aveva origini millenarie, se non addirittura bibliche. Il profeta Daniele aveva dormito sulla nuda terra con un sasso come cuscino, al pari di quanto fece San Francesco due millenni più tardi, ed i primi stiliti avrebbero vissuto per decenni, in odore di santità, in cima alle colonne di granito, quale esempio di pubblica e lunghissima penitenza. E poi, non erano forse di pietra le Tavole della Legge che Mosè aveva ricevuto sulla vetta del Monte Sinai? Non era di marmo ed onice il primo altare della storia, di cui al Libro dell’Esodo? Non era «pietra angolare» quella su cui Pietro avrebbe dovuto costruire la Chiesa Cristiana?

Al di là delle metafore, non c’è dubbio che la pietra abbia una marcia in più, non solo sul piano tecnologico e funzionale, e su quello estetico e decorativo, ma anche in chiave simbolica. A ben vedere, non esistono materiali alternativi che abbiano la stessa valenza, e nello stesso tempo la stessa versatilità d’impiego. Ecco un buon motivo in più per sottolinearne il ruolo a tutto campo, obiettivamente unico, che trascende latitudini e longitudini e si colloca nell’ottica universale.

(settembre 2015)

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