La ghigliottina
Lo strumento di morte venne inventato nel periodo della Rivoluzione Francese, e trovò ampia attuazione negli anni del Terrore

Per chi non conoscesse questo strumento di morte, basta descriverlo come una lama di metallo che viene fatta cadere da una determinata altezza sul collo del condannato, comportandone la fulminea decapitazione.

Il suo «inventore», un dottore di nome Joseph Ignace Guillotin (nato a Saintes il 28 maggio 1738) non sembra proprio lui l’ideatore ma colui che propose solo all’Assemblea di adottare un metodo meno barbaro per i condannati a morte e forse contribuì solo a perfezionare questo strumento di morte istantanea quasi indolore.

Joseph Ignace Guillotin

Ignoto di scuola francese, Ritratto di Joseph-Ignace Guillotin (1738-1814), XVIII secolo, Museo Carnavalet

Prima si usavano varie tecniche: i nobili dovevano appoggiare il capo su un ceppo e il boia con una scure lo decapitava, ma non sempre al primo colpo. Per i plebei c’era invece la forca. Il rogo veniva usato per i nemici della Chiesa. In uso in particolari circostanze la ancora più barbara ruota con i condannati che morivano fra strazianti grida mentre gambe e braccia si spezzavano. Infine c’era lo spettacolare squartamento che era riservato ai regicidi o agli stessi attentatori del Re o dei suoi successori. Si legavano gli arti del condannato a quattro cavalli e si spronavano a farli galoppare in quattro direzioni diverse e il condannato veniva squartato in quattro pezzi in una scena rivoltante.

Tuttavia e con tanta sua amarezza, rimase a Guillotin la fama dell’invenzione, mentre questo dottore fu un laborioso organizzatore della professione medica a Parigi; membro di commissioni scientifiche, fu anche uno dei primi ad adottare il metodo della vaccinazione preventiva. Morì a Parigi il 26 marzo 1814.

La proposta che forse fece Guillotin fu quella di trasformare le esecuzioni non in uno spettacolo pubblico incivile ma in qualcosa di più privato per la vittima. Purtroppo divenne un «pubblico spettacolo» che affascinava la plebe.

Da qualcuno questo arnese era già stato inventato, anche se non ancora utilizzato e questo congegno Guillotin decise di adottare.

Luigi XVI in persona che si dilettava spesso a passare il tempo nelle officine e nelle falegnamerie, incontrandolo consigliò il dottore di apportare una modifica alla lama: propose che questa fosse obliqua e non perpendicolare al terreno; ed infatti fu in questa versione aggiornata che la ghigliottina tagliò la testa del sovrano il 21 gennaio 1793.

Il battesimo della ghigliottina fu tenuto nell’aprile del 1792 per decapitare Nicolas Jacques Pelletier. I critici dissero che la ghigliottina meccanizzava e disumanizzava la morte; alla fine il dottore raggiunse ben pochi dei suoi scopi e amareggiato, passò inutilmente una gran parte della sua vita nel negare la paternità di questo strumento di morte chiamato con il suo nome, mentre dopo il successo del falegname tedesco Schmidt, che realmente costruì l’attrezzo, passò gran tempo per cercare di riscuotere i diritti della sua invenzione. Comunque i due, insieme, avevano sperimentato il prototipo nella Cour de Rohan, uno dei quartieri parigini più frequentato dai turisti; le prime vittime furono alcune pecore, in seguito si passò ai cadaveri umani e poi ai malcapitati vivi.

Le vittime fatte inginocchiare davanti al marchingegno, nell’apposito incavo posavano il collo, questo veniva bloccato da una centina con una scanalatura e dentro questa da un’altra scanalatura posta ai lati scorreva e piombava dall’alto, in un istante, l’affilata lama che decapitava il condannato. Un’apposita cesta raccoglieva la testa. Quando le esecuzioni erano fatte in serie, la cesta era sempre quella e di teste ne raccoglieva più di una. Con una rapidità impressionante si arrivò anche a tredici in mezz’ora.

Ma la procedura richiedeva questa velocità proprio per evitare al condannato delle sofferenze; tutto doveva avvenire nell’arco di due minuti. E questa era la «professionalità».

La procedura che avveniva in parte nel carcere e quando saliva i gradini del patibolo era la seguente: dopo la sentenza, spogliazione della persona, esclusi pantaloni e camicia; legatura dei polsi dietro la schiena; taglio dei capelli per coloro che li hanno lunghi; taglio del colletto della camicia; caricamento sulla carretta e percorso verso il patibolo in mezzo alla folla urlante e sghignazzante: giunto a destinazione il condannato viene rapidamente issato sul palco e legato, pancia in giù, sulla slitta; il capo viene immobilizzato con un traversino appositamente sagomato e scanalato; il boia rilascia la mannaia ed esibisce la testa mozzata al pubblico, reggendola per i capelli. Nel caso il giustiziato sia calvo, la testa deve essere esibita reggendola a due mani per le orecchie. Le teste finiscono dentro una capiente cesta e i corpi finiscono in una carretta, che alla fine dello spettacolo li porta al cimitero dentro una fossa comune.

Uccisione di Maria Antonietta

William Hamilton, Maria Antonietta viene presa per la sua esecuzione, 1794, Vizille, Museo della Rivoluzione Francese

L’uomo che eseguiva le «alte opere della giustizia», soprannominato il «boia di Parigi», era Charles Henry Sanson, già aiutante del vecchio carnefice ai tempi del dispotismo di Luigi XV, quando si usava squartare le vittime. Infatti Sanson aiutò il suo «maestro» a fare scempio di Damiens, l’attentatore del Re. Poi con la nuova tecnica non si fermò più.

Il suo «lavoro» (e fu Luigi XVI ad affidargli l’appalto) divenne intenso, quotidiano, facendosi aiutare dai figli e non più isolato o davanti agli addetti, ma si trasformò in uno spettacolo che veniva offerto ad un numeroso pubblico in quella piazza che poi prese il nome «Della Rivoluzione» (ma più volte la ghigliottina fu spostata in altre piazze).

Una delle ultime vittime di Sanson fu proprio Luigi XVI, ma avvenne in un modo che, pur con la tempra di boia, lo sconvolse. Luigi Capeto con una regale fierezza e con inaspettata freddezza si attenne a tutto il lugubre cerimoniale che precedeva l’esecuzione.

E non solo Sanson ma anche i nemici che su quel palco lo avevano mandato a morire, si chiesero dove era quel monarca codardo e mediocre che alcuni diffamavano? Inoltre la morte di Luigi davanti agli occhi di Sanson fu atroce. Preso dall’emozione di uccidere un unto di Dio, Sanson aveva posizionato male il condannato e la lama cadde ma non recise completamente il collo del Re, che morì con la testa ancora mezza attaccata al corpo lanciando grida atroci di dolore.

Anche per la morte di Maria Antonietta si racconta un aneddoto: salita sul palco, piuttosto confusa, e altrettanto Sanson, la Regina con un piede inavvertitamente gli calpestò il suo, affrettandosi però a dire: «Pardon». Sembra che questa sia stata la sua ultima parola pronunciata.

Charles Henry Sanson era nato nel 1739 da una lontana famiglia di origine fiorentina, giunta in Francia nella seconda metà del 1500. Charles era subentrato al padre Jean-Baptiste nel 1778 e manterrà la carica sino al 30 agosto del 1795, quando a sua volta lasciò il «mestiere» al figlio Henry.

Dunque una dinastia di boia, nonno, padre e figlio, esecutori capitali. Con Sanson il primo ad usare la ghigliottina e l’unico ad usarla sopra il collo di un Re e di una Regina.

L’anno dei grandi guadagni fu, ovviamente, quello del 1793-1794, e dato il ritmo delle esecuzioni e le varie indennità speciali elargite dallo Stato per il «superlavoro», permise alla famiglia di accumulare un cospicuo patrimonio, sembra poi lasciato al clero; una somma per far celebrare delle messe in suffragio a Luigi XVI il 21 gennaio di ogni anno. Ma questo non è dimostrato. Prima di morire, Sanson scriverà le sue memorie; secondo il suo calcolo le vittime della ghigliottina in Francia furono 14.000. Charles Sanson, con l’aiuto dei suoi figli aiutanti, sembra che ne abbia giustiziate, solo lui, 2.800.

Nei famosi giorni (28-31 luglio) quando furono decapitati Robespierre e seguaci, si racconta anche (ma non è certo) che il boia Sanson ed i suoi figli, in questo periodo, abbiano battuto il record, poco invidiabile, di dodici esecuzioni in tredici minuti. Comunque in tre giorni finirono sotto la lama 1.306 persone. Altro aneddoto della famiglia Sanson: un giorno, uno dei suoi figli, mentre esibiva al pubblico la testa dell’ennesimo giustiziato, inciampò, cadde all’indietro dal palco della ghigliottina (piuttosto alto) e morì sul colpo. Quel giorno i Parigini videro il loro boia Sanson piangere. Ma alla fine il Sanson padre morì nel suo letto, pur avendo tagliato teste in una e nell’altra fazione. Alla rivolta di Lione i suoi colleghi non furono così fortunati. Assieme ai 1.700 ribelli, salirono sul patibolo anche il carnefice e il suo aiutante che prima aveva offerto i suoi «servizi» ai suoi sfortunati compagni di sventura.

Le decapitazioni non furono solo un affare per Sanson. Antoine Quentin Fouquier detto Fouquier-Tinville, nato a Herouel nel 1746 era il pubblico accusatore del Tribunale Rivoluzionario e fino allo scoppio della rivoluzione non aveva mestiere e aveva fatto la fame.

Una volta salito sullo scranno della «giustizia» con questa nuova funzione (e con una giuria asservita ai suoi voleri) le teste mozzate per lui divennero anche una sorta di «impresa»; si improvvisò cottimista della morte. Non solo, sollecitato da Robespierre la rapidità dei suoi processi ai malcapitati durava meno di dieci minuti, ma organizzò così bene questa «catena di montaggio della morte» che già al mattino si accordava con gli addetti su quante carrette occorrevano per mandare al patibolo i condannati e per portare i cadaveri al cimitero. Tenne perfino una contabilità, e dal marzo 1793 all’aprile del 1794 la «mercanzia» fu di 3.000 persone. Nell’ultimo mese del suo lavoro il suo «cottimo» raggiunse le 354 condanne, tredici al giorno. Poi toccò a Robespierre il suo «datore di lavoro», dopo di che anche lui venne arrestato. Il suo processo non avvenne in dieci minuti, ma durò diversi giorni e si difese con grinta fino all’ultimo, ma non gli servirà a nulla. Il 7 maggio salì anche lui sulla ghigliottina e andò a raggiungere tutti quelli che vi aveva mandato.

Non tutti erano d’accordo che lo strumento provocava la morte istantanea ed indolore. Di dispute ce ne furono molte e piuttosto accanite e su vari temi, quello morale ma anche quello scientifico e filosofico.

Alcuni medici sostenevano che, malgrado la decapitazione, il cervello, abbondantemente irrorato di sangue per l’intensa emozione, continui ancora a vivere ed a pensare per qualche minuto; alcuni sostenevano per due-tre minuti, altri sino a quindici.

Il problema morale e filosofico che molti si ponevano era questo: a che cosa pensa una testa mozzata che «sa di essere già morta»? Quali orrendi pensieri agitano quella mente nei pochi minuti che ancora resta cosciente dopo il rapidissimo taglio? Angoscia, terrore, disperazione, rabbia oppure rassegnazione? Molti si chiedevano se, in quei momenti, sia ancora valido il concetto cartesiano del «cogito ergo sum» (penso quindi sono, ma sono senza un corpo).

In effetti in alcune teste quando cadevano per alcuni istanti gli occhi seguitavano a roteare intorno con uno sguardo terrorizzante.

La risposta, almeno quella fisiologica, venne poi nel 1936, quando il Russo Pavlov, riuscì a mozzare la testa di un cane e a trapiantarla efficacemente su un altro cane. Ma sugli esseri umani una operazione simile non è mai stata tentata, quindi nulla sappiamo sul pensiero cosciente. Ma neuro-scientificamente, in teoria, la testa di un soggetto seguita a vivere e pensare come prima, pur usando un altro corpo. La morte cerebrale avviene dopo due-tre minuti, ma se irrorato il cervello di sangue ossigenato artificialmente, lo stesso dovrebbe conservare integre tutte le sue funzioni.

(anno 2003)

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