Corrispondenze di Galileo Galilei con illustri personaggi del suo tempo
Lettere ed osservazioni tratte da una raccolta dello storico ed erudito Luigi Cibrario

In una pubblicazione del 1828 Luigi Cibrario, storico ed erudito sabaudo, raccogliendo una serie di lettere indirizzate a Galileo Galilei, ci introduce in un’epoca interessante sul piano scientifico perché base delle fondamenta della moderna storia europea. Alcune di queste lettere sono una semplice testimonianza dei tempi, altre viceversa mettono l’accento sulle reali difficoltà che un personaggio oggi così blasonato, ma in quel periodo ferocemente contestato come il grande scienziato pisano, dovette sostenere.

Uno studioso e cultore della dottrina galileiana, suo strenuo difensore di fronte alla Santa Inquisizione fu Nicolas Claude Fabris De Peiresc. Quest’ultimo fu uno scienziato in diverse discipline e mantenne un’imponente corrispondenza con molti studiosi suoi contemporanei. Solo per citarne alcuni ricordiamo Grotio, i fratelli Dupuy, Rubens, Gassendi, Tommaso Campanella e lo stesso Galileo Galilei. Peiresc possiamo tranquillamente considerarlo un importante riferimento dentro ai parametri di quella continuità tra la tradizione erudita rinascimentale e la nuova scienza, che andava sorgendo. Quando ebbe notizia della condanna di Galilei, scrisse personalmente al Cardinale Barberini, di cui era amico, sia per difendere lo scienziato che per alleggerirgli la pena. Con Galileo Galilei si erano conosciuti a Padova tramite un amico comune[1] quando lo stesso Peiresc vi era studente di diritto. In quel periodo ascoltò anche alcune lezioni dello stesso Galilei e conobbe in profondità gli ambienti scientifici italiani, che frequentò.

Entrando nel vivo delle lettere, mi sono soffermata in particolare su alcune che mi sono sembrate significative.

1° aprile 1635[2] – [Peiresc rivolto a Galilei]: «Ho pregato Sua Eccellenza di far chiamare il detto Padre Silvestro ed interrogarlo sopra le reali verità di questa macchina e d’intenderne ancora il parere di detto Monsignor Caraffa, che ne doveva essere consapevole, non solamente per averne veduto qualche cosa, ma forse anco per averne penetrato il segreto. Anzi, scrissi ancora, sotto copertura di Sua Eccellenza, non solo di detto Padre Silvestro che sta ora in Roma nel Collegio Romano, ma al detto Monsignor Nunzio (il quale passando qui incognito, volle venire a trattenersi due ore nel mio studiolo col detto Padre Silvestro) per testificare all’uno ed all’altro il dispiacere che mi rimase dopo la loro partenza, d’essermi scordato di parlargli di quella macchina del Padre Lino, per intendere da loro medesimi ciò che se ne poteva credere […]. Da onde io spero di prendere a suo tempo occasione di riparlare del negozio di Vostra Signoria [il riferimento è a Galilei] con maggior veemenza, e forse efficacia di prima».

In questo succinto tratto della lettera troviamo sia precisi riferimenti al ruolo svolto dai Padri Gesuiti nelle questioni scientifiche del periodo, peraltro ruolo assolutamente essenziale nelle forme e nei contenuti, e l’impegno indefesso e disinteressato del Peiresc nella difesa delle nuove invenzioni che producevano in ambito ecclesiastico insieme perplessità ed interesse. Un passo successivo della lettera accoglie il ruolo prezioso del Peiresc nel fare da tramite in questi ambienti: «Né tacerò mai che mi sia imposto silenzio, non pretendendo interessi alcuni in Roma, e per non considerare quelli che sono sopra di me […] né quelli che sono sotto di me, che per rendere grazie alla Divina Maestà dello Stato dove mi ritrovo [il riferimento è alla Francia] che tanti altri più degni di me stimerebbero un paradiso terrestre».

In questo modo egli mette in evidenza i suoi felici rapporti con il potere politico francese, con cui sia in Parigi che in Aix en Provence rimase a lungo in sintonia. Ma soprattutto si richiama ai tempi felici in cui in Padova era studente di diritto e divenne amico di Gian Vincenzo Pinelli,[3] conoscendo tramite lui lo stesso Galilei: «E questo mi dà la libertà di parlare, dove altri restano muti, come ella dice, senza timore di perdere la fortuna. […] La buona memoria [che serbo] di Gian Vincenzo Pinelli all’epoca in cui Ella [Galilei] stava ancora nel suo studio di Padova [mi permetterà] di continuare la servitù lecita».

Peiresc si dichiara stupito delle affermazioni dello stesso Galilei sulla sua condizione di disagio, che lo scienziato pisano non reputa così eccessiva, mentre Peiresc si dimostra battagliero e non incline ai silenzi. Ma soprattutto ringrazia il Maestro della fiducia che gli accorda, anche sul piano scientifico e non solo personale.

La visione copernicana, che Galilei fece sua, includeva, come ben sappiamo, dei profondi cambiamenti non solo scientifici ma politici. La centralità del sistema solare venne meno, e con essa l’uomo apparve nella sua fragilità, senza più poter contare sulle precedenti certezze. Gli stessi manoscritti padovani di Gian Vincenzo Pinelli furono messi sotto chiave dopo la sua morte dal Consiglio dei Dieci, segno evidente della pericolosità politica che rappresentavano. Nel difendere l’amico Galileo Galilei, Peiresc mette l’accento sull’importanza di proteggersi dagli attacchi politici, visto che le sue scoperte scientifiche sono oltremodo una certezza per i posteri. Ritengo che qui il Peiresc riveli insieme la sua dedizione alla causa scientifica ma al contempo una illimitata visione realistica del potere politico. La stessa sua amicizia col Cardinale Barberini, che nacque dalla cessione al Cardinale di un prezioso e raro reperto archeologico bizantino, oggi conservato al Louvre[4], dimostra la propensione dello studioso francese alle pubbliche relazioni e dunque ad interpretare i rapporti interpersonali come essenziali, anche se non risolutivi, per far trionfare le nuove teorie scientifiche. Il Peiresc rivela però oltremodo una certa illimitata fiducia «nel prossimo», che i fatti metteranno a tacere. Scrive egli a Galilei: «E quando Egli avesse errato in qualche proposizione, come l’umanità lo può comportare [potrebbe essere un «egli» generico, ritengo, e non solo rivolto a Galilei] non mostrando ostinata opinione, anzi avendo sottoscritto l’opinione contraria conforme agli ordini prescritti, di grazia non si tenga in tanta strettezza […] come la dolcezza naturale di Vostra Eccellenza me lo fa sperare […]. Veramente sarà cosa durissima per tutto, e maggiormente dalla posterità che dal secolo presente dove pare che ognuno lasci gli interessi del pubblico, e specialmente delli miseri, per attendere alli propri. E sarà appunto una macchia allo splendore e fama di questo Pontificato se Vostra Eccellenza non si risolve di prenderne Ella qualche protezione, e qualche particolar sollecitudine, come ne la supplico e scongiuro umilissimamente, e col maggior ardore e premura che mi possa esser lecito seco, e di condonarmi questa libertà troppo grande».[5]

Nella lettera del 13 gennaio 1636 troviamo un’osservazione minuziosa del ruolo politico svolto dall’Italia nel secolo: «E molto più che della conservazione della mia vita, e sicuro che sì come l’indulgenza ch’ella farà concedere al suo peccato di fragilità umana, sarà conforme alli voti delli più nobili ingegni del secolo che compartiscono tanto alla severità e prolungazione del suo castigo [non smette mai il Peiresc di sottolineare l’invidia verso Galilei] così un evento contrario correrebbe gran rischio d’essere interpretato, e forse comparato un giorno alla persecuzione della persona e sapienza di Socrate nella sua patria, tanto biasimata dalle altre Nazioni, e dalli posteri istessi di quei che gli diedero tanti travagli». Da qui ricaviamo in una lettera scritta l’anno dopo la certezza incondizionata del Peiresc dell’ottenimento di grazia da parte di Galileo Galilei, un ottenimento che nasce più da un calcolo utilitaristico dei suoi contemporanei che non da un profondo convincimento: «6 febbraio 1637 – [Peiresc è fiducioso, nonostante il ritardo, che giunga la Grazia a Galilei da parte del Tribunale romano […] e al contempo richiama le importanti scoperte scientifiche che condivide col grande Maestro Pisano, come esempio unico del valore universale di tali scoperte, che sovrasta ogni pochezza politica] Intanto le dirò che l’occhiale già da vostra Signoria mandato all’illustre signor Gassendi nostro abbiamo veduto il corpo di Saturno d’una figura molto più strana che non l’aveva anco vista prima con altri occhiali». Chiede perciò lenti più perfezionate e, parlando dell’osservazione della luna, si dichiara onorato verso Galilei, nella misura in cui onora il Maestro che «ci ha impartito lo strumento da verla nella forma che si è intagliata tutta piena, sopra la quale s’andranno intagliando poi altre fasi con osservazione dell’ombra di tutti li monti, o promontori, più esattamente che non si fosse ancora praticato; e se ne manderanno subito le prove a vostra signoria molto illustre, ed all’eminentissimo Cardinale Barberini ancora, se non con il prossimo ordinario, almeno con il seguente; il che darà nuova materia di parlare di Vostra Signoria che è stata la prima a scoprire questo miracolo della natura».

Peiresc non si limita nella corrispondenza con Galilei a questioni riguardanti lo scagionamento di quest’ultimo di fronte al tribunale della Santa Inquisizione, ma si adopera per agevolare scambi di mercanzie e lenti utili ai suoi studi, che riesce a trovare in Venezia ed in Firenze. Naturalmente il tutto col beneplacito dello stesso Galilei.[6] Si adopera inoltre per vendere suoi volumi in Italia, sempre con l’intento di perorare la causa della dottrina galileiana.

Un particolare interesse mi ha suscitato una lettera del Peiresc a Curzio Inghiramio, appartenente alla famiglia Inghirami di Volterra, molto cara al Granduca di Toscana, lettera del 2 giugno 1637. Qui egli apre i suoi orizzonti sulla civiltà etrusca, a ulteriore conferma dell’ecletticità di questi studiosi, di stampo rinascimentale, cui lo stesso Galilei non fu affatto estraneo.


Note

1 Gian Vincenzo Pinelli.

2 Luigi Cibrario, Lettere inedite di Principi e di uomini illustri raccolte e pubblicate nel 1828 in Torino per l’Alliana a spese di P. G. Pic. Libraio della Regia Accademia delle scienze, pagina 73 e seguenti.

3 Gian Vincenzo Pinelli (1535-1601), dotto napoletano di origine genovese, visse dal 1558 a Padova dove riunì una celebre biblioteca comprendente anche manoscritti di carattere politico. Alla sua morte il Consiglio dei Dieci avocò alla secreta diversi carteggi.

4 Avorio Barberini, opera dell’arte bizantina risalente alla tarda antichità (VI secolo) ceduta dal Peiresc al Cardinale. Non è risaputo come il Peiresc ne fosse entrato in possesso.

5 Lettera del 5 dicembre 1635.

6 Lettera del 24 febbraio 1837.

(settembre 2014)

Tag: Elena Pierotti, Italia, Seicento, lettere di Galileo Galilei, Galileo Galilei, Luigi Cibrario, Nicolas Claude Fabris De Peiresc, scienziato, Cardinale Barberini, Padri Gesuiti, Curzio Inghiramio, Gian Vincenzo Pinelli.