Elisabetta Bàthory
Dire vampira è troppo poco!

Tra il XVI e il XVII secolo, nell’Est Europeo non correva buon sangue fra Cattolici e Protestanti, con preferenze calviniste questi ultimi, di cui venne a far parte un personaggio, che è entrato tristemente nella storia per le sue crudeltà e le sue nefandezze: si tratta della contessa Erzsébet (Elisabetta per noi) Bàthory, nata il 7 agosto 1560 a Ecsed nel castello della famiglia Bàthory, situato nella cittadina ungherese di Nyírbátor della Transilvania, da Gyórgy Bàthory-Ecsed e Anna Bàthory-Somlyó, entrambi praticanti la stessa religione e membri di rami della medesima famiglia; pertanto i due erano consanguinei. Le unioni di quel tipo erano una radicata consuetudine per impedire l’ingresso ad altre di ceto inferiore, in modo da mantenere intonso il proprio grado di nobiltà. In effetti, i Bàthory eccellevano nell’aristocrazia, tanto da essere addirittura più potenti della Corte Reale. D’altra parte che la famiglia la famiglia Bàthory fosse d’eccellenza lo dimostra pure il fatto che lo zio di Elisabetta, Stefano Bàthory, fosse Re di Polonia.

Però, naturalmente, come avviene normalmente quando si hanno legami fra consanguinei, anche se distanti di diverse generazioni, con rapporti intimi che non è errato definire incestuosi, i figli degli incolpevoli genitori spesso hanno grossi problemi fisici o comportamentali. Un esempio eclatante riguarda l’emofilia, cioè la difficoltosa coagulazione del sangue, nella quale sono incappati diversi regnanti maschi fra il XIX e il XX secolo, trasmessa da due figlie della Regina Vittoria; tale anomalia attacca i maschi, mentre le femmine sono portatrici sane. Ma non basta, giacché nel neonato possono esserci difetti, quali l’albinismo, il labbro leporino o il nanismo, oppure problemi mentali e disturbi psichici che possono portare alla follia e al sadismo. Si sa che la contessa soffriva di epilessia, di tremende emicranie e dei conseguenti burrascosi cambiamenti d’umore, che si scaricavano violentemente e ferocemente sui suoi servitori, del resto ritenuti sua proprietà personale, com’era di consuetudine in molte famiglie nobili.

L’ambiente in cui la contessa crebbe non era per nulla al di fuori del normale, nel senso che era una dote comune della nobiltà quella di essere cattiva, spietata quando aveva a che fare con esseri ritenuti semplicemente inferiori, quali quelli appartenenti alla plebe.

E, stando a quanto si sa, la contessa ha molto sofferto per problemi mentali, che sfociavano in eccessi di follia con reazioni da pazza, quando qualcosa urtava i suoi desideri e la contrariava nelle sue volontà, quali torture e maltrattamenti di ogni tipo.

Oltre a essere molto bella era molto colta, perché le condizioni di ricchezza, unite al suo desiderio di sapere, consentirono alla ragazza di raggiungere un elevato grado nella sua educazione e di imparare diverse lingue a partire dal tedesco e dall’ungherese per finire con il francese, il latino e il greco classico. Ed emerse fra le ragazze nobili del suo tempo, nelle quali non mancavano quelle che navigavano nel più squallido analfabetismo.

Da che mondo è mondo, era consuetudine nelle famiglie di alto lignaggio, per garantirsi l’avvenire politico-economico, quella di concordare i matrimoni quando i futuri sposi erano ancora bambini. E naturalmente il tutto avveniva senza l’approvazione o meno dei futuri sposi, anche perché, per la giovanissima età, non erano in grado di comprendere quanto si addensava attorno a loro e che avrebbe dato una svolta a tutto il loro avvenire. Ma d’altra parte, gli interessi politici prevalevano sulle loro possibili preferenze in merito ai compagni per tutta la vita (un esempio eclatante, senza andare troppo lontano, ci proviene dalle tristi vicende che hanno avuto Lucrezia Borgia come protagonista).

E la famiglia Bàthory non fece eccezione: infatti, quando la ragazza era appena undicenne, fu promessa sposa a Ferenc Nàdasdy, rampollo di una famiglia nobile fra le più potenti dell’intero Regno, di cinque anni maggiore di lei, e il matrimonio fu celebrato quattro anni dopo a Vranov nad Topľou presso Prešov, nell’attuale Slovacchia Nordorientale. Il regalo di nozze fu il castello di Csejte (oggi Čachtice), situato nell’Alta Ungheria. A dimostrazione che le famiglie degli sposi erano molto importanti, alle nozze fu invitato pure Massimiliano II, Sovrano del Sacro Romano Impero, che, pur non potendo parteciparvi personalmente a causa della distanza, fu presente attraverso una sua rappresentanza e un prezioso gioiello come regalo.

Così, Elisabetta si trasferì con il marito nel castello di Čachtice, situato nella Repubblica Slovacca fra le città di Piestany e Neustadt an den Waag, appartenente alla sua famiglia e dato come regalo di nozze ai due sposi.

Il coniuge era una persona colta che aveva studiato a Vienna, dove risulta che si fosse distinto in campo atletico, particolarmente nell’arte della scherma. Però, essendo lui a capo delle truppe del Regno d’Ungheria, era impegnato con continuità nella guerra (definita la Lunga Guerra, avvenuta fra 1593 e il 1606) contro l’Impero Ottomano. Pertanto, era compito della contessa quello di amministrare gli immensi beni delle famiglie Bàthory e Nàdasdy durante la sua assenza.

Quando il marito era assente, e come detto avveniva abbastanza spesso, Elisabetta aveva preso l’abitudine di andare a Vienna a visitare la zia contessa Karla e di partecipare alle sue orge. E, lì, ebbe modo di conoscere una certa Dorothea Szendes (chiamata Dorka), profonda conoscitrice della magia nera, che le inculcò le tendenze al comportamento sadico nei confronti del prossimo (come se a lei mancassero!) e le insegnò tutto quanto era di sua conoscenza in merito alla stregoneria e alla negromanzia, iniziandola alla passione per il sangue; in tutto questo ci fu il contributo del maestro occultista e alchimista Thorko, di cui si sa poco, per non dire nulla.

Ci si può chiedere se Ferenc fosse a conoscenza delle atrocità inferte dalla moglie alla servitù, ma se ci si sofferma un momento a pensare che pure lui non difettava in questo senso e che, in quanto a sadismo, non aveva nulla da invidiare alla giovane moglie, non ci sono dubbi; anzi, risulta che fu proprio lui a insegnarle alcune forme di punizione, che sperimentavano insieme sulle giovani contadine; pertanto, c’è da ritenere che sapesse tutto o quasi e che non facesse nulla per fermarla, tutt’altro: insomma, si potrebbe commentare «tale la moglie, tale il marito!». Del resto, con Ferenc ancora in vita, il sacerdote protestante, oltreché letterato, Istvan Magyari di Sarvar, aveva denunciato le azioni criminali della contessa in alcune lettere, quindi il marito non poteva non sapere.

Durante l’assenza di Ferenc, Elisabetta si dedicava a rapporti etero e monosessuali. Amava vestirsi da uomo, ma le piaceva pure sentirsi una bella donna. E pure il marito non disdegnava compagnie al di fuori del seminato, tanto che entrambi furono artefici della nascita di figli illegittimi, di cui è ignoto il numero.

Solamente a partire dal 1585 nacquero figli legittimi con Anna, cui seguirono Ursula nel 1586 e Andreas nel 1598, morti troppo presto; nacque poi Katharina e, infine, nel 1598, Paul, il futuro erede dei beni di famiglia. Da quanto è dato sapere, la Bàthory non si interessò alla propria prole, lasciando l’incarico della sua cura alla balia Ilona Jò, per dedicarsi interamente al suo trattamento speciale al personale femminile.

Nel 1600 Elisabetta perse il fratello Stephan, i cui beni passarono tutti a lei non avendo lui figli, rendendola una fra le più ricche nobili dell’Est Europeo. I suoi beni consistevano in castelli, terreni, paesi e città posti fra Transilvania e Austria.

Poi, nel 1604 anche il marito Ferenc concluse la sua vita terrena. Secondo certe voci, essendo egli un libertino, oltre alle attività militari si dedicava alla bella vita, frequentando ambienti in cui non mancavano le donne. E fu proprio una donna incontrata occasionalmente a mandarlo al Creatore, perché si era rifiutato di pagare il compenso pattuito per le sue prestazioni professionali. Un’altra versione dei fatti riporta, invece, che il marito sia rimasto infermo e invalido per tre anni, prima di morire. Molti lo ritenevano un eroe di guerra, ma tanti altri erano convinti che fosse un essere crudele, tanto da essere denominato il Cavaliere Nero, e che collaborasse con la consorte nella realizzazione delle sue malefatte. Come si è detto, a Vienna egli aveva eccelso nell’uso della spada e pare che l’avesse usata in maniera violenta e feroce quando si recava, con un gruppo di individui suoi pari, nelle chiese per toglierle ai Cattolici e offrirle ai Protestanti.

Così, Elisabetta divenne l’amministratrice dei beni che erano destinati al figlio Paul, diventando ancora più ricca.

In ogni modo, alla morte del coniuge, la contessa peggiorò le sue condizioni psichiche, se possibile, e si scatenò in tutta la sua malvagità e violenza e tutta la sua furia di sadismo scoppiò in maniera devastante.

Quando il nipote Gàbor Bàthory fu eletto principe di Transilvania, il conte Gryorgy Thurzò, che riteneva che la nomina spettasse a lui, si mise di traverso nei confronti dei Bàthory e di Elisabetta «in primis», tanto che – come si vedrà – fu uno degli artefici della sua fine.

Per le sue malefatte, lei ricorreva alla collaborazione di personaggi con crudeltà paragonabile alla sua; fra cui non mancavano ammiratori i quali avrebbero desiderato impalmarla, pur di mettere le mani su tutti i suoi beni: ma la risposta fu sempre picche.

Due personaggi importanti nelle imprese della contessa furono Dorothea Szentes, ritenuta da tutti una strega, che si è ricordata più sopra, e il nanerottolo storpio Johannes Ugjvari, detto Ficzkò, che, a quanto pare, talvolta sostituì il marito durante le sue frequenti e prolungate assenze dal talamo. Insieme si dedicarono alla ricerca e alla realizzazione delle loro modalità per arrecare dolore fisico agli altri. Un personaggio rimasto oscuro, ma del quale la presenza nefasta pare abbia lasciato un segno incisivo nelle vicende di Elisabetta, è stato il già ricordato Thorko, qualificato come maestro alchimista e pratico di occultismo che, stando ai «si racconta», amava riportare i suoi scritti su placenta umana.

Una tortura fra le preferite era quella di punire le ragazze trattandole con il freddo, lasciandole ignude nella neve oppure rovesciando su di loro acqua gelata, con le conseguenze prevedibili di malattie gravi o di morte per assideramento, oppure ricorrendo al calore, causando loro dolorosissime bruciature, oppure mutilandole orrendamente.

Altra «perla» delle sue malefatte era quella di cospargere di miele il corpo nudo delle vittime, abbandonandole nei boschi, a disposizione delle api e degli animali selvaggi. Una ragazzina dodicenne, di nome Dora, stanca delle cattiverie di cui era vittima, tentò la fuga: ma mal gliene incolse, poiché fu ripresa e inserita in una gabbia rotonda tanto bassa da non poter restare in piedi e tanto stretta da non potersi sedere. Poi, il servo nano Ficzkò, la sollevò da terra con una carrucola e la fece dondolare sempre più forte, finché non andò a sbattere violentemente contro paletti rifiniti a punta; con quel movimento altalenante, alla fine il corpo fu martoriato e mutilato, fra le grida disperate e di dolore della poveretta che smisero solamente quando cessò di soffrire con la sua morte.

Altra chicca delle atrocità della contessa fu la costruzione, affidata a un orologiaio svizzero, di una struttura che venne chiamata «Vergine di ferro». Era una figura a forma di donna, dai capelli biondi lunghi fino a terra (qualcuno ritiene che fosse l’immagine di una vergine cui si avevano rivolto le «attenzioni»), la quale, quando un corpo si avvicinava, scattava, stringendolo fa le braccia, mentre lame affilate, che uscivano dal suo petto, ne dilaniavano le carni. Era sicuramente un antesignano della «Vergine di Norimberga», che comparve alla fine del XVIII secolo.

I suoi trattamenti, che forse solamente la pazzia può dare una parvenza di giustificazione, erano tanto sadici da lasciare allibiti: tormentava e torturava le giovani con grossi spilli infissi sotto le unghie, le scottava con candele accese o ferri roventi, ne cuciva la bocca con filo qualora avessero detto il falso, le feriva con coltelli o martelli, le riempiva di scudisciate, accendeva foglietti di carta intrisi di olio inseriti fra le dita dei piedi; la sua malsana fantasia le indicava il modo di usare ogni strumento che si trovasse fra le mani per farne un’arma di offesa e di tortura. Non mancarono anche torture a carattere sessuale, infibulazione e quant’altro, con la collaborazione di membri fedeli della servitù.

Tutta questa tragedia si svolgeva all’interno del castello, nei saloni o nei sotterranei, nascosta sempre e comunque agli occhi degli abitanti del circondario, ma non mancarono occasioni in cui le punizioni avvenivano «coram populo».

Intanto, per mantenersi bella e giovane, usava ogni tipo di cosmetici e unguenti a base di erbe. Ma un giorno capitò un fatto che le aprì una strada nuova: una servetta stava pettinandola e, probabilmente perché i capelli erano ingarbugliati, essa ne tirò un po’ una ciocca, causando l’ira della contessa (chissà perché, leggendo il fatto, mi ricordai dell’«ira funesta» di Achille nell’Iliade di Omero: bah!). Per punirla, Elisabetta la prese violentemente a ceffoni e la fece sanguinare dal naso, sporcandosi una mano; e a lei, esaminando il punto in cui le gocce di sangue erano cadute, sembrò che la pelle fosse diventata più bella e giovane. Questo fatto la indusse a chiedere ad alchimisti e maghi, oltreché alla fedele Dorka, se con il sangue la pelle potesse restare giovane e bella. Questi, per non incorrere nelle sue ire e per evitare eventuali pericoli di rivalsa, le raccontarono che il sangue di una giovane vergine aveva avuto risultati eccellenti, facendo ringiovanire la pelle raggrinzita di un vecchio aristocratico.

Non ci volle altro per alimentare, nella sua mente malata e distorta, l’idea che il sangue di giovani donne fosse il toccasana per mantenere il corpo sempre giovane e bello: insomma, per lei era il segreto svelato per mantenere l’eterna giovinezza, il che non era certo poco! Se si aggiunge che in precedenza una delle sue governanti, per darle in po’ di sollievo durante le crisi epilettiche, che erano un tormento quasi continuo, era solita bagnarle le labbra con il sangue di persone sane, il gioco era fatto: il sangue giovane era diventato indispensabile per Elisabetta, per cui era necessario mantenere le giuste forniture, andando a pescare nei villaggi dei dintorni del castello.

Laggiù ritenevano che le notizie sui misfatti della contessa fossero una realtà, ma non erano sufficienti a tenere le ragazze lontane dal castello. Infatti, nel 1609, a seguito dell’istituzione nel castello da parte della contessa di una scuola per giovani ragazze, con la promessa che là avrebbero trovato un posto sicuro, un lavoro meno faticoso di quello della contadina e ottenuto una buona educazione, molte accettarono, ritenendo che questo invito esplicito fosse sufficiente a far credere false le presunte nefandezze attribuite alla castellana; così entrarono nell’antro della torturatrice.

Le promesse non scritte sono come la nebbia al sole: si dissolvono e nulla resta di loro! Infatti, il seguito fu assolutamente diverso, come lo dimostra ciò che avvenne dopo il loro ingresso nel maniero: i giovani corpi (preferibilmente di giovani nobili, nelle cui vene sicuramente scorreva sangue più «puro»), venivano appesi per i piedi a testa in giù, veniva recisa loro la gola e il sangue era raccolto in coppe dalle quali Elisabetta beveva il sangue fresco avidamente e, si dice, con estrema soddisfazione; altro modo per raccogliere il sangue consisteva nel chiudere le ragazze in gabbie munite di punte affilate, che le ferivano profondamente e le facevano dissanguare piano piano. Ma per avere risultati ancora migliori, la contessa faceva riempire di sangue delle vasche, per immergersi interamente nel viscoso liquido; praticamente, si comportava come la Regina Egizia Cleopatra, la quale, per mantenere la propria pelle giovane ed elastica, quotidianamente faceva il bagno in vasche colme, però non di sangue umano, bensì di latte d’asina, che era prodotto da un allevamento di 700 esemplari, tutti dedicati ad alimentare le sue abluzioni; il che è tutt’altra cosa.

In ogni modo, non meraviglia che qualcuno l’abbia definita una «vampira» per il fatto di nutrirsi di sangue; ma le modalità erano diverse, perché lo beveva direttamente senza dover fare la fatica di mordere il collo e succhiare.

E ben poche di quelle poverette uscirono vive dal quell’antro del terrore, da quel macello, spesso con il corpo martoriato riportante i segni delle ferite o delle mutilazioni loro inferte dalla nobildonna e dai suoi aiutanti seviziatori.

Tuttavia, per lunghi anni il silenzio coprì tutto quanto di atroce avveniva nel castello finché, a partire del 1604, le voci che riportavano quel po’ che filtrava dalle mura del castello a proposito degli abomini che vi erano consumati, divennero sempre più insistenti e di dominio pubblico, tanto da raggiungere il ricordato conte Gryorgy Thurzò, parente di Elisabetta, che volle vederci chiaro in proposito e ciò con il consenso del Re Mattia II d’Austria e d’Ungheria, della Corte del quale lui faceva parte; al Re un’eventuale condanna della contessa avrebbe fato comodo, come si vedrà in seguito e ciò avrebbe consentito pure a Thurzò di togliersi qualche sassolino dalle scarpe riguardo a quanto era successo alla morte di Ferenc.

Perciò, inviò suoi ufficiali al castello per appurare la veridicità delle indiscrezioni e dei racconti giunti alle sue orecchie e anche e soprattutto perché si erano sentite dicerie secondo le quali, oltre a ragazze di famiglie contadine, ne erano scomparse anche di famiglie nobili, forse di rango inferiore, dopo essere entrate al castello per ricevere una buona educazione: e questo proprio non poteva essere assolutamente tollerato. Del resto, il popolo asseriva che spesso urla bestiali rompevano il silenzio della valle di giorno e di notte, che corpi smembrati erano stati rinvenuti nella campagna e negli anfratti dei boschi, che muri erano stati trovati imbrattati di un colore rosso che non lasciava dubbi sulla sua natura; ma la paura bloccava ogni possibile tentativo di reazione.

Così, gli emissari, il 29 dicembre 1609, entrarono con la forza nel maniero e là, durante la loro ispezione, trovarono una situazione agghiacciante, essendoci sparsi in giro i corpi seviziati di giovani fanciulle, mentre altre erano ancora vive, sì, ma in precarie condizioni fisiche, segregate com’erano nelle segrete del maniero, sicuramente in attesa del compimento del loro triste destino. Attrezzi vari furono rinvenuti, sporchi di un colore rossastro che non lasciava dubbi sulla sua natura di sangue essiccato.

Gli ispettori uscirono da quello che definirono un mattatoio al sollievo dell’aria libera, estremamente pallidi, con gli stomaci in subbuglio per quanto visto e captato dal naso, portandosi dietro il disagio per parecchio tempo.

Quante furono le fanciulle eliminate? Nei villaggi si diceva che ne mancassero almeno 600; non furono trovati tanti corpi, però ciò che era stato rinvenuto fu più che sufficiente per incriminare la malvagia contessa e i suoi aiutanti (il nano Ficzkò, Dorka, Katalina Burecka e Ilona Jò), i cui compiti erano quelli di eseguirne gli ordini senza mai discutere, di qualunque tipo essi fossero, e di procurare sempre nuove giovani da «ospitare» nel castello, e per arrestarli il 30 dicembre 1609. Il 5 marzo 1610 fu avviata un’inchiesta contro la Bàthory, che forse avrebbe consentito al conte Thurzò di mettere le mani sul suo immenso patrimonio e, perché no?, di farle abbassare la cresta.

Poi, il processo nel 1611. Diversi testimoni confermarono che le punizioni avevano quasi sempre un fondo sessuale, con infibulazione e ferite sulle parti intime, nonché tagli, rottura di ossa, obbligo del consumo di carne umana per soddisfare i morsi della fame, maltrattamenti anche in pubblico. E i suoi quattro aiutanti, sotto tortura (non c’è che dire, la tortura è un’arma formidabile!), confessarono tutte le loro colpe, forse tentando di scaricarle su Elisabetta.

Il processo, al quale la contessa non fu mai presente, giacché, essendo lei una nobile, non poteva essere obbligata a presenziare, si concluse con l’incriminazione dei cinque colpevoli di sevizie e uccisione di tante ragazze, il cui numero esatto non fu mai formulato: le ragazze morte quante furono? Ci fu chi disse 30, altri 200 o anche di più. Però, pare che il numero delle vittime sia compreso fra le 200 e le 300. Chissà! Che sia colpa dell’anagrafe, presumendo che, a quei tempi, non fosse al meglio? Si sa, comunque, che Elisabetta teneva un diario, però mai trovato, nel quale erano elencati i nomi di 650 fanciulle.

Ciò che lascia perplessi è il fatto che Elisabetta si sia accanita sempre contro ragazze giovani, quasi avesse voluto eliminare la popolazione femminile che passava fra le sue mani, rinnovandola continuamente, forse perché ne era invidiosa; eppure, si presume che tale giustificazione non possa essere accettata, anche perché, stando ai suoi ritratti dipinti da pittori illustri, lei era molto bella, con capelli bruni e occhi grandi e luminosi; oppure invidiava la loro giovinezza? Chi lo sa?

Comunque, sicuramente le ragazze morte furono tante e nessuna giustificazione dell’operato degli aguzzini fu sufficiente a salvarli dalle condanne e a evitare le pene inflitte: infatti, il rogo per Dorothea e Ilona e la decapitazione per il nano, si ritenne che fossero meritati, mentre Katarina non fu giustiziata, in quanto si era dimostrata buona con le fanciulle, qualche volta dando loro il modo si nutrirsi.

Per quanto attiene a Elisabetta, il Re era per la pena di morte, ma Thurzò preferì diversamente. E il destino riservato alla contessa fu un po’ più pesante, se si vuole, nel senso che la obbligarono a restare viva, murata nel castello, con una piccola apertura che consentiva il passaggio di poca aria e degli alimenti. Il restare tutto il giorno e la notte da sola, con i suoi pensieri, a parlare con se stessa e con i suoi fantasmi, magari evocati dalla sua mente malata, deve essere stata un’esperienza terribile; forse avrebbe preferito essere giustiziata: l’incubo sarebbe finito prima. Tale terribile stato di isolamento durò fino al 21 agosto 1614, quando fu trovata morta nella sua cella; una brutta fine! Però, per amor di cronaca, sembra corretto ricordare che qualcuno ha avanzato l’ipotesi che essa sia stata avvelenata: atto di cattiveria oppure un mezzo per darle finalmente la pace?

Aveva solo 54 anni, però era un’età che, comunque, era considerevole per quei tempi. Le sue spoglie furono sepolte nella chiesa di Čachtice.

Tornando per un momento indietro nel tempo, nel 1613 il Re Mattia II d’Austria e Ungheria volle rivedere ciò che era stato ratificato in precedenza con un nuovo processo che, alla fine, non cambiò nulla e confermò quanto era stato stabilito in precedenza.

Sono tanti gli studiosi che si sono interessati alla vita della contessa e a tutto quanto faceva, però dividendosi, come capita spesso in questi casi, su due fronti opposti: donna consapevole della propria malvagità oppure una povera pazza, dominata da irrefrenabile follia? È possibile che una nobildonna fosse in possesso di una così sconvolgente malvagità? Già, perchè c’era il dubbio che le dicerie messe in giro nei suoi confronti dai parenti potessero essere una scusa per toglierla dal gioco e appropriarsi dei suoi beni e delle sue terre. D’altronde è sempre difficile stabilire con sicurezza dove giunga la realtà e dove subentri la fantasia, non essendo a disposizione documentazioni tali da far smettere a tutti di elaborare elucubrazioni sul caso.

Per esempio, la condanna subita da Elisbetta avvenne a seguito di confessioni ottenute con la tortura dagli inquisiti e di testimonianze di testimoni che non avevano fatto altro che riferire i «sentito dire» e, per di più, non furono riportati racconti in merito ai suoi bagni di sangue.

In effetti, i documenti del processo attestano che tutto quanto di malvagio fosse stato attribuito alla contessa sia stata una verità; però non furono pochi gli studiosi convinti che si sia trattato di un complotto ordito nei suoi confronti per consentire ai direttamente interessati di mettere le mani su tutti i suoi immensi beni. Fra questi primeggiava il Re Mattia II, il quale non digeriva troppo bene l’avere un grosso debito accumulato quando Ferenc era ancora in vita, e la condanna della contessa gli avrebbe consentito di appropriarsi di tutti i suoi beni. Per questo è giustificato il suo contrasto nei confronti del clero che avrebbe desiderato che la condanna fosse giustificata da attività di stregoneria per poter mettere le mani sul patrimonio della Bàthory. Comunque, gli andò male, giacché essa fece testamento tre giorni prima di morire, lasciando tutto ai suoi figli.

Insomma, innocentisti da una parte, colpevolisti dall’altra; e ancor oggi si brancola nel buio.

Elisabetta Bàthory è entrata prepotentemente nella storia e nella leggenda, emergendo fra i più crudeli personaggi dell’Europa Orientale di quei tempi, il cui maggior rappresentante fu Vlad III di Valacchia, che ha ispirato il personaggio di Dracula. E questo proprio perché lei non scherzava affatto nella sua golosità di sangue fresco di ragazze vergini, preferibilmente nobili, che, secondo il suo malato punto di vista, doveva garantirle il mantenimento della bellezza e, già che ci siamo, perchè no?, l’immortalità: un progetto per nulla male, dunque, ma purtroppo senza una sola possibilità reale!

Di tutta questa macabra vicenda che cosa resta oggi? Il castello di Čachtice, a partire dal 1708, cioè da quando fu assalito e saccheggiato da Ferenc II Rákoci e dai suoi accoliti, è in completa rovina con tetri, macabri resti di quanto un giorno fu un maniero potente e sede delle più nefande offese al genere umano, a testimoniare che chi più in alto sale, tanto più rovinosamente cade: macerie tristemente site su una collina disabitata con ai piedi fitti boschi che fanno loro da cornice, alla cui vista ritengo non sia difficile sentire i peli raddrizzarsi per l’insorgere della pelle d’oca.

(maggio 2023)

Tag: Mario Zaniboni, Elisabetta Bàthory, Erzsébet Bàthory, Ecsed, Stefano Bàthory, Ferenc Nàdasdy, castello di Csejte, Čachtice, Ungheria, Lunga Guerra, contessa Karla, Dorothea Szendes, Dorka, Thorko, Istvan Magyari, Ilona Jò, Transilvania, Gàbor Bàthory, Gryorgy Thurzò, Johannes Ugjvari, Ficzkò, Vergine di ferro, contessa vampiro, Mattia II d’Austria.