La sindrome dell’8 settembre
Origini lontane ed effetti durevoli: le difficili vicende dell’esercito italiano dall’Unità ad oggi

Nella rada di Lissa esiste una grande lapide in ricordo della vittoria che la flotta austro-ungarica al comando dell’Ammiraglio Wilhelm von Tegethoff conseguì in quelle acque contro la squadra navale italiana agli ordini di Carlo Persano, il 20 luglio 1866: traducendo dal tedesco, vi si legge che «uomini di ferro su navi di legno sconfissero uomini di legno su navi di ferro». È un aforisma, purtroppo non infondato, che per affinità verosimilmente non casuali vale la pena di rammentare, ricorrendo 70 anni dall’infausta data dell’8 settembre 1943, tanto più abominevole se si pensa che qualcuno la celebra, non senza una sorprendente enfasi, come primo atto della cosiddetta «liberazione».

La storia di Lissa è nota per il comportamento passivo della flotta italiana, all’insegna di un disastroso attendismo, e per il successivo processo a carico del Persano, conclusosi con la destituzione: un episodio importante della Terza Guerra d’Indipendenza che non ebbe esito peggiore grazie alla grande vittoria dell’alleata Prussia in quel di Sadowa, che valse ad una giovane Italia l’acquisizione del Veneto, ma non dell’Istria e della Dalmazia, come sarebbe accaduto qualora Esercito e Marina Militare si fossero comportati diversamente da quanto accadde a Custoza e, appunto, a Lissa.

Il Governo Sabaudo, dopo avere conseguito nel 1861 l’unificazione ancora parziale del Regno, manifestava incertezze non soltanto militari, ma ad un tempo politiche e sociali, che trovarono significative espressioni nella lunga e sanguinosa «conquista» del Mezzogiorno e, poco dopo, in quella di Roma, resa possibile da una provvida congiuntura internazionale culminata nella disfatta francese di Sedan (1870), ancora una volta ad opera della Prussia.

Era l’inizio di una sindrome che avrebbe sedimentato a lungo, talvolta in modo palese, come nelle ingiuste accuse strumentali rivolte al soldato italiano dai quadri superiori, dopo le disfatte di Adua (1896) e soprattutto di Caporetto (1917); talvolta in misura sostanzialmente nascosta, come nelle tergiversazioni del Governo di Roma allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale (1939) tanto più opinabili dopo l’insistenza per firmare il «Patto d’Acciaio», e nella decisione di scendere in campo dopo oltre nove mesi di «non belligeranza» quando era diventata ormai chiara la forte impreparazione italiana, sia agli occhi di una Germania momentaneamente padrona dello scacchiere, sia a quelli degli Alleati Anglo-Francesi, non ancora supportati dall’impegno militare dell’Unione Sovietica e degli Stati Uniti (1941).

L’8 settembre, alla luce degli ultimi 70 anni di storia, cui si potrebbe aggiungere senza soverchie forzature una lunghissima stagione precedente di indiscussa «sovranità culturale» italiana ma nello stesso tempo di subordinazione etica e politica, non fu un fenomeno casuale né tanto meno imprevedibile, trovando ampi motivi di decisivo aggravio nel «tradimento» e, subito dopo, nello scoppio di una guerra civile tragica e crudele come tanti scontri fratricidi.

Da parte sua, il cosiddetto Regno del Sud ci mise non poco del proprio, con la dichiarazione di guerra del 13 ottobre 1943 alla Germania e con quella davvero surreale del 15 luglio 1945 ad un Giappone praticamente vinto. In questa ottica, non è un caso che le massime autorità militari statunitensi abbiano ammesso come l’onore delle armi d’Italia fosse stato salvaguardato soprattutto dalla Repubblica Sociale Italiana.

La sindrome dell’8 settembre avrebbe prodotto ulteriori effetti di segno contrario anche in tempi successivi: qui, basti ricordare l’accettazione passiva del «diktat» (10 febbraio 1947) con la sola eccezione della minoranza guidata da Benedetto Croce e da Vittorio Emanuele Orlando che si espresse contro la ratifica, e con quella del disperato gesto di Maria Pasquinelli[1] nella plumbea atmosfera di Pola; più tardi, la stipula di un trattato assurdo come quello di Osimo (10 novembre 1975), quando l’Italia ormai risorta dal disastro bellico avrebbe chiuso le varie partite ancora in sospeso con una Jugoslavia in condizioni già molto critiche, rinunciando senza contropartite a tutta la Zona «B» del mai costituito Territorio Libero di Trieste[2], su cui la sovranità italiana non era mai venuta meno.

Le conseguenze dell’8 settembre, disastrose dovunque, se non altro per l’altissimo numero di vittime che avrebbe caratterizzato i venti mesi di guerra civile e la «mattanza» scatenatasi senza remore dopo la «liberazione», furono particolarmente esiziali, oltre che nel «triangolo rosso», in Venezia Giulia, Istria e Dalmazia: non solo per la perdita di due intere Regioni, tristemente seguita alla breve realizzazione del vecchio sogno irredentista rimasto tale nel 1866 dopo Lissa, e nel 1919 dopo il tradimento degli impegni anglo-francesi già stipulati nel Patto di Londra (1915) che avrebbe dato luogo al «mito» della Vittoria mutilata; ma nello stesso tempo, per la tragedia delle foibe, in cui scomparvero almeno 20.000 italiani incolpevoli, trovandovi una morte agghiacciante, e per quella di un esodo davvero plebiscitario che coinvolse a più riprese 350.000 persone, pari al 90% delle popolazioni.

Anche in questo caso, tali conseguenze si protrassero a lungo, oltre il trattato di pace e poi oltre Osimo: dapprima con le intese del 1954 per il «ritorno» dell’Italia a Trieste, rese possibili da ulteriori modificazioni a favore slavo della linea di demarcazione fra le due Zone del Territorio Libero di Trieste[3], da nuove concessioni in materia economica e da un significativo apporto finale all’esodo; dopo, con il riconoscimento, ancora una volta senza contropartite, delle nuove Repubbliche ex Jugoslave (1990), e con il ruolo davvero surreale del Presidente della Repubblica Francesco Cossiga ridotto a «portalettere» del Governo Italiano al confine con la Slovenia; infine, con l’accettazione parimenti «gratuita» di quelle Repubbliche al momento del loro ingresso in Europa, avvenuto nel 2004 per la Slovenia medesima e nel 2013 per la Croazia. Tutto ciò, senza contare altri episodi «minori» (si fa per dire) come la concessione delle pensioni italiane agli ex partigiani responsabili della pulizia etnica nelle foibe, per giunta con il miglior favore incostituzionale della reversibilità al 100%; o come la dichiarazione di non luogo a procedere nei confronti di taluni assassini prontamente fuggiti oltre confine, pronunziata dalla Magistratura italiana per difetto di giurisdizione!

L’Italia, a cinquecento anni da Niccolò Machiavelli, è tuttora incapace di assimilare la grande lezione del Segretario fiorentino circa l’idea di una politica intesa come impegno prioritario per la «salvezza» dello Stato, indipendentemente da vincoli morali a carattere tradizionale. Al contrario, si potrebbe dire che manifesta pervicaci preferenze per quel triste «particulare» rigidamente egocentrico nei cui confronti un altro grande Fiorentino, Francesco Guicciardini, aveva indirizzato strali perennemente validi.

Oggi, non è facile esorcizzare la sindrome dell’8 settembre che si è insinuata in tante coscienze poco propense ad approfondire il senso della storia: in effetti, sarebbe necessario assumere atteggiamenti di più matura consapevolezza critica nei confronti del pragmatismo relativista imperante e delle conseguenti varie interpretazioni e suggestioni materialiste, se non anche nichiliste. Ciò non significa che non si possano e non si debbano «trarre gli auspici» dal comportamento di quanti, in epoche postunitarie diverse, ma con l’aderenza ad alti valori, hanno dimostrato coi fatti che «l’antiquo valore negli italici cor non è ancor morto».

Qualche esempio? Pensiamo ad uomini come il colonnello De Cristoforis, che nell’agro di Dogali, sopraffatto da soverchianti schiere nemiche, ordina agli ultimi superstiti di presentare le armi ai Caduti, prima di soccombere a loro volta (1887). Al comandante Gabriele d’Annunzio, che «ardisce e non ordisce» raccogliendo il grido di dolore di Fiume, e muove da Ronchi contro tutto e contro tutti, alla guida del piccolo esercito legionario (1919). A Berto Ricci, volontario in Cirenaica, che si immola consapevolmente nell’auspicio del suo «Universale» e di una Patria davvero etica, libera da ogni meschina ed interessata contingenza (1941). Agli eroici «ragazzi di Bir-el-Gobi» inquadrati nella Divisione Giovani Fascisti, cui manca la fortuna, come sta scritto nel Sacrario di El Alamein, ma cui non fanno difetto il valore e la capacità di sacrificarsi per una più grande Italia, soprattutto in senso morale e spirituale. A Salvo d’Acquisto, il giovane carabiniere in odore di santità che non esita ad offrirsi volontariamente alla rappresaglia salvando venti ostaggi da morte sicura (1943). A Stefano Petris, eroe dell’estrema difesa di Cherso, condannato a morte perché Italiano, che nella notte prima dell’esecuzione scrive un altissimo, lucido testamento spirituale dietro il frontespizio della sua Imitazione di Cristo con l’ultimo pensiero per il Tricolore e per l’Italia (1945).

Questi esempi si potrebbero utilmente moltiplicare, ma sono comunque sufficienti per mettere in evidenza come la sindrome dell’8 settembre abbia parecchie ottime eccezioni di alto patriottismo, forti di sicuri convincimenti, degne di ogni encomio e meritevoli di un doveroso ricordo agli ignari ed agli immemori, quale spunto destinato a positivi sviluppi: come fu scritto, «Sanctus Amor Patriae dat animum».


Note

1 Maria Pasquinelli, eroina italiana che aveva fatto della Patria l’oggetto di un amore uguale a quello per la sua anima (come lei stessa avrebbe detto al Presidente della Corte Inglese che l’avrebbe condannata a morte), il giorno in cui veniva firmato il Trattato di pace (10 febbraio 1947) espresse l’estrema protesta del popolo italiano, e più specificamente di quello giuliano, istriano e dalmata, sparando tre colpi di rivoltella al Generale Robert de Winton, Comandante della piazzaforte anglo-americana di Pola, ed in quanto tale, simbolo dell’incomprensione manifestata dagli Alleati per la causa degli Esuli, costretti a lasciare la propria terra in misura plebiscitaria. La pena capitale venne commutata in quella dell’ergastolo perché il Governo Militare Alleato comprese che sarebbe stato controproducente farne una Martire; affidata alla giustizia italiana per la gestione della prigionia detentiva, la Pasquinelli venne graziata nel 1964 e visse in strettissima riservatezza fino al 2013, anno in cui è scomparsa a Bergamo, ormai centenaria.

2 Il Territorio Libero di Trieste avrebbe dovuto costituire, secondo le statuizioni del Trattato di pace fra l’Italia ed i 21 Paesi vincitori della Seconda Guerra Mondiale, uno Stato cuscinetto comprendente la fascia Nord-Occidentale costiera della Venezia Giulia e dell’Istria, da Monfalcone a Cittanova, comprendente la stessa Trieste e gli altri centri rivieraschi, quali Capodistria, Pirano, Isola, Umago. In effetti, il Territorio Libero di Trieste non venne mai costituito per le divergenze insorte tra gli Alleati Occidentali ed il Blocco Orientale, persino sulla nomina del Governatore. Suddiviso nelle due distinte Zone «A» e «B» affidate rispettivamente alle amministrazioni anglo-americana e jugoslava, senza che la sovranità italiana vi fosse venuta meno, rimase in essere quale entità di fatto sino al 1954, quando gli Alleati trasferirono all’Italia l’amministrazione della Zona «A». Per la chiusura definitiva della questione si è dovuto attendere il 1975, quando il trattato italo-jugoslavo di Osimo avrebbe statuito il riconoscimento della sovranità di Belgrado sulla Zona «B» e la conferma di quella di Roma sulla Zona «A».

3 Gli Accordi del 1954 comportarono nuove rinunzie italiane anche in materia territoriale, con l’arretramento della linea di demarcazione fra le due Zone del Territorio Libero di Trieste ed il trasferimento alla Zona «B», amministrata dalla Jugoslavia, di Albaro Vescovà, Crevatini ed altri centri minori nel retroterra di Muggia. Fu un ulteriore contributo all’esodo di quanti avevano confidato, nel comprensorio in parola, in una prospettiva favorevole all’Italia.

(novembre 2013)

Tag: Carlo Cesare Montani, 8 settembre 1943, Seconda Guerra Mondiale, Italia, Lissa, Carlo Persano, Terza Guerra d'Indipendenza, Maria Pasquinelli, Trattato di Osimo, Territorio Libero di Trieste, foibe, De Cristoforis, Gabriele d'Annunzio, Berto Ricci, Divisione Giovani Fascisti, Repubblica Sociale Italiana, Salvo d'Acquisto, Stefano Petris.