Shoah a Roma, 16 ottobre 1943
Una tragedia della Seconda Guerra Mondiale

Nel triste autunno del 1943, trascorso poco più di un mese dall’armistizio con cui il Regno d’Italia era uscito dal Secondo Conflitto Mondiale, e passate meno di tre settimane dal difficile esordio della Repubblica Sociale Italiana sul proscenio internazionale, con tutte le difficoltà riguardanti il riconoscimento da parte dei soli Stati dell’Asse, Roma era saldamente controllata dalle forze tedesche d’occupazione. Il 16 ottobre, in particolare, fu protagonista – suo malgrado – di un episodio assai truce, destinato a restare nella memoria collettiva assieme a quelli avvenuti fino al giugno dell’anno successivo, quando gli Alleati, dopo aver superato le difese della Wehrmacht con perdite assai notevoli, entrarono finalmente nella «Città aperta», a circa cinque mesi dal difficile sbarco di gennaio sul nuovo fronte di Anzio. Infatti, quel giorno ebbe luogo per ordine diretto di Berlino il rastrellamento degli Ebrei Romani, con immediato trasferimento in Germania di oltre mille prigionieri, destinati in stragrande maggioranza all’allucinante Olocausto nel campo di Auschwitz.

L’ordine era venuto dal Quartier Generale di Hitler, per un numero largamente superiore di vittime designate, irreperibili nell’immediatezza, e fu eseguito da un contingente di SS venute apposta dalla Germania, non senza rilevanti connivenze italiane, in una Roma consapevole, ma nello stesso tempo propensa a non interferire nelle decisioni degli occupanti, il cui potere, ormai assoluto, non lasciava spazi a qualsiasi eventuale opposizione: non si mossero gli Alleati, che avevano precise informazioni di «intelligence» ma non volevano farlo capire per ragioni tattiche, e fecero altrettanto i partigiani, che in altre occasioni, diversamente da quella, non avrebbero tralasciato di intervenire; meno che mai, intervenne la classe politica italiana operante nella Resistenza, ancora costretta alla clandestinità. In pratica, una vera opposizione, sia pure di valenza morale, appartenne soltanto al Vaticano e al Santo Padre Pio XII, che era stato contro la guerra sin dal 1940, e prima ancora, contro il neo-paganesimo hitleriano.

In questa sintesi, si compendia l’esauriente contributo storiografico di Pierluigi Guiducci, Shoah a Roma: 16 ottobre 1943 – Salvare gli Ebrei, Ente per il Diritto allo Studio dell’Università Cattolica, Milano 2023, 124 pagine. Si tratta di uno studio condotto in maniera appassionata e peraltro molto corretta e scrupolosa, col supporto di adeguate documentazioni, che ha voluto fare un punto sostanzialmente definitivo su quella tragedia storica in cui si sarebbe consumato l’estremo sacrificio di circa mille Ebrei, senza colpa veruna, se non quella paradossale di essere tali, anche se non mancarono vittime di famiglie miste, per non dire di qualche Cattolico. Oltre il contenuto scientifico[1], giova premettere che lo studio si completa con la coinvolgente documentazione iconografica di una Roma spesso deserta, e di persone in cerca di salvezza; una Roma dove la spesa alimentare media per famiglia era salita da 408 lire mensili del 1938 alle 2.533 del settembre 1943 per giungere alle 9.339 di un anno dopo, con il surreale aumento di 23 volte nel giro di un quinquennio.

L’opera, che si apre con la prefazione di Anna Maria Casavola in riconoscimento dei valori di un testo «non emotivo né prolisso» ma sempre sorretto da documenti probanti, non trascura di accennare a quanti s’impegnarono comunque in favore delle vittime designate: fra gli altri, il Sostituto alla Segreteria di Stato Monsignor Montini – destinato a diventare Papa Paolo VI – che chiese e ottenne di accogliere alcuni Ebrei presso le Oblate Agostiniane di Trastevere; lo scultore Arrigo Minerbi rifugiato presso l’Istituto San Filippo Neri; il ferroviere Michele Bolgia che salvò qualche deportato spiombando un vagone del «treno della vergogna» in partenza per la Germania, e che poi fu ucciso nella rappresaglia delle Cave Ardeatine durante il marzo successivo.

In tutta sintesi, non mancarono manifestazioni di ogni possibile solidarietà, resa precaria dal fatto che i controlli tedeschi, assai rigidi anche all’ingresso del Vaticano, erano tali da sapere benissimo quanto accadeva nella Città Leonina: non a caso, era sotto controllo anche la radio. Ciò non significa che il Papa non avesse condannato l’antisemitismo sin dal 1939, che fosse stato sempre contro la guerra con l’ovvio giudizio a priori, che non avesse riconosciuto la Repubblica Sociale Italiana e che avesse intrattenuto rapporti con Badoglio anche quando il Governo del vecchio Maresciallo non controllava Roma, vale a dire sino ai primi di giugno del 1944. In ottobre il giro di vite divenne brutale, tanto che cinque giorni prima della retata giunse dalla Germania l’ordine categorico di «estirpazione immediata e completa degli Ebrei dall’Italia». Evidentemente, non bastava ai nuovi pagani avere disposto, fra l’altro, per lo sterminio di circa cinque milioni di polacchi, tre quinti dei quali di religione ebraica, con l’aggiunta di un’ampia minoranza cattolica.

In questo quadro di riferimento indubbiamente plumbeo s’inserì, alla vigilia della deportazione, la richiesta o meglio la pretesa del colonnello Kappler volta a ottenere dagli Ebrei Romani mezzo quintale d’oro, cui il Vaticano si offrì di contribuire, anche se all’atto pratico tale disponibilità non fu necessaria, perché l’oro fu integralmente fornito dalle vittime, nell’improbabile illusione di farne strumento di salvezza.

La storia del 16 ottobre abbonda di altri dettagli, puntualmente riportati dal Professor Guiducci: la requisizione degli elenchi di parte italiana, le delazioni, le donne e i bambini catturati insieme agli uomini, le motivate preoccupazioni del Rabbino in antitesi all’atteggiamento di personaggi del vertice ebraico come Ugo Foà e Dante Almansi, che non furono deportati, e che a posteriori furono accusati di avere abbandonato tanti confratelli, con riguardo prioritario a poveri, malati e anziani. Per il resto, vale la pena di porre in evidenza l’atteggiamento sempre coerente di Pio XII, a cominciare dall’Omelia del 28 ottobre 1939, quando aveva abbracciato «tutta l’umanità» senza distinzioni di sorta, per continuare con il radiomessaggio del 24 dicembre 1942 in favore della pace «nobilitata in Dio» cui l’umanità «deve essere fedele». Quest’ultima espressione avrebbe provocato l’ira inconsulta di Hitler diventando decisiva per la rottura fra Germania e Vaticano[2] ribadita nel successivo giugno con la missione del Nunzio Apostolico Cesare Orsenigo a Berchtesgaden, dove lo stesso Hitler ne avrebbe suffragato la fine scagliando a terra un bicchiere, con gesto tanto violento quanto plateale.

A proposito di Foà e Almansi, si può aggiungere che in tempi successivi, dopo la conquista di Roma da parte degli Alleati, si ebbe lo scioglimento del Consiglio della Comunità Israelitica, presieduto dallo stesso Foà, per opera di Charles Poletti, nella sua qualità di Commissario Straordinario del Governo Militare Alleato; ma questa è un’altra storia.

In tale quadro si deve inserire quanto il Santo Padre avrebbe fatto nel luglio 1943, quando dispose per la propria successione in caso di arresto, ben consapevole del proprio totale isolamento. Infatti, il Duce era ormai «passivo e inerte», la Federazione Fascista di Roma era agli ordini di Kappler e degli altri maggiorenti tedeschi, l’Arma dei Carabinieri subì migliaia di deportazioni ai primi di ottobre del 1943, alla Croce Rossa fu impedito qualsiasi intervento umanitario, mentre il momento politico non fece alcun cenno agli Ebrei nemmeno nella riunione clandestina del Comitato di Liberazione Nazionale tenutasi, per l’appunto, lo stesso 16 ottobre. Quanto agli ecclesiastici, non andò a buon fine nemmeno il tentativo di Don Igino Quadraroli, volto a far avere qualche pacco dono agli arrestati nel medesimo giorno, prima della partenza blindata.

Resta da dire della drammatica anabasi ferroviaria del «treno della vergogna» che sarebbe partito dalla Stazione Tiburtina all’indomani della retata, dopo un’attesa di parecchie ore, con il suo carico di vittime designate, per un totale di 1.013 persone, a fronte dei 1.265 arrestati. Prescindendo dai dettagli, la destinazione iniziale avrebbe dovuto essere quella di Mauthausen, nell’Alta Baviera, ma dopo una nuova attesa di tre giorni a Padova, nelle condizioni di una prigionia allucinante che si sarebbe rivelata per un’autentica anticamera di morte, il convoglio, invece di essere instradato via Brennero, fu indirizzato al valico di Tarvisio, da dove avrebbe proseguito per la Polonia, e più specificamente per Auschwitz-Birkenau. La sosta di Padova non ebbe motivazioni tecniche dovute a problemi della linea, né tanto meno militari: probabilmente, la decisione finale circa la variante fu assunta dallo stesso Kappler assieme a collaboratori di massimo livello, d’intesa con Berlino, ma alla resa dei conti si tratta di un dettaglio: invece, conviene porre in evidenza che, subito dopo l’arrivo, in quali condizioni è facile immaginare, 820 prigionieri furono subito assassinati proditoriamente col gas, mentre alcuni erano già deceduti durante il viaggio.

Il delitto contro l’umanità che fu compiuto anche in quella circostanza nell’allucinante perseguimento della «soluzione finale» non ha bisogno di altre chiose. Resta il fatto, alla stregua di quanto evidenziato nelle chiare conclusioni del Professor Guiducci, che il Papa era solo, di fronte a responsabilità del tutto evidenti – prescindendo da quelle tedesche ovviamente prioritarie – di parte francese, svizzera, statunitense e russa, senza dire di quelle ascrivibili a singoli collaborazionisti, delatori e profittatori, oltre che alla citata latitanza dei politici, dei partigiani e della stessa Croce Rossa. Tra i pochi collaboratori fidati del Santo Padre, peraltro di minima utilità concreta a fini risolutivi immediati, si possono ricordare Suor Pasqualina Lehnert, l’Archiatra Pontificio Riccardo Galeazzi Lisi, le Suore del Bambino Gesù: tutti soggetti certamente ragguardevoli ma nella sostanziale impossibilità di interventi strategici a carattere decisivo.

A conclusione, basti aggiungere che la figura di Pio XII è stata oggetto, anche a proposito della vicenda ebraica in parola, di accuse strumentali, tra cui quella del tutto infondata, riguardante la lettera circolare con cui l’ospitalità nei conventi sarebbe stata proibita dalla gerarchia ecclesiastica, fatta eccezione per l’invito a preferire, per tale scopo, zone relativamente decentrate come quelle di San Lorenzo e del Quadrato, nell’ambito di una ragionevole prudenza. Al contrario, è d’uopo chiarire che già dal 2 novembre, quindici giorni dopo la retata degli Ebrei, avrebbe avuto inizio la perquisizione forzosa di Istituti religiosi romani, ivi comprese le clausure, cosa in precedenza proibita: si tratta di un dettaglio importante, idoneo a far comprendere come la stretta imposta dal neo-paganesimo «ariano» non si fosse limitata alla persecuzione antiebrea ma andasse trovando nuove manifestazioni di palese rilevanza simbolica e pragmatica anche nei confronti dei Cattolici.


Note

1 Il volume comprende due parti principali: la prima riguarda la «decisione in merito al rastrellamento degli Ebrei Romani» e la sua genesi, mentre la seconda si riferisce alla «rottura Vaticano-Hitler» e alle «iniziative per salvare i perseguitati». Sono da menzionare, altresì, la dedica a chi avrebbe portato un qualsiasi aiuto in quella situazione tragica, con un fondamentale ricordo del Professor Peter Gumpel, che fu impegnato, fra l’altro, nel processo di beatificazione di Papa Pio XII.

2 La rottura fu definitiva «ma non ufficializzata», quasi a confermare la permanenza di qualche riserva possibilista da parte tedesca, se non altro alla luce del permanente ruolo morale del Papato: non è da escludere che tale atteggiamento abbia consentito, ancor prima di ottobre, la fuga di alcuni Ebrei, che peraltro non impedì la cattura, nel giro di poche ore, di 1.265 persone, in larghissima maggioranza destinate all’Olocausto.

(marzo 2023)

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