Isbuscenskij: la carica della gloria
Le gesta del Savoia cavalleria

Il Reggimento «Savoia Cavalleria» agli ordini del colonnello Weiss Poccetti, partecipa alla campagna di Russia inquadrato nella 3° Divisione Celere «Principe Amedeo d’Aosta» (comandante generale Mario Marazzini) che, insieme alle divisioni Torino e Pasubio, costituisce il Corpo di Spedizione Italiano in Russia, CSIR, agli ordini del generale Giovanni Messe.

Nell’estate del 1941 avrebbe avuto inizio quell’avventura che per sempre accompagnerà i cavalieri di Savoia Cavalleria nell’immortalità con quella carica che per molti anni sarà considerata l’ultima della cavalleria italiana. Questo episodio può essere collocato a pieno titolo nella galleria delle grandi imprese compiute dai nostri reparti nella Seconda Guerra Mondiale, spesso a costo di ingenti perdite e con l’ausilio di mezzi obsoleti. Nella steppa russa i cavalieri italiani, con una carica alla sciabola degna della migliore tradizione risorgimentale, riescono nell’impresa di sconfiggere alcuni reparti siberiani, armati di artiglieria e dei temuti parabellum, impedendo così che le truppe di fanteria della Divisione Sforzesca, ormai in rotta, siano accerchiate e catturate.

Proprio questa azione consentirà di rivalutare la presenza della nostra cavalleria in un teatro in cui il nemico galoppava su «purosangue» da quaranta tonnellate. È necessario sottolineare infatti che nei due inverni in cui le nostre truppe a cavallo si trovano a combattere in Russia sono proprio i loro destrieri a consentire di operare a temperature spaventose che, spesso, impediscono ai mezzi meccanici e corazzati di accendersi e percorrere le piste ghiacciate della steppa russa. Questa loro duttilità fa sì che siano impegnate in continue operazioni di ricognizione, fiancheggiamento e collegamento mobile ad altre unità di combattimento.

Nonostante la scarsità di mezzi a disposizione dell’esercito italiano nei primi mesi del 1942, l’opinione di Hitler nei confronti delle nostre truppe che partecipano alla «crociata antibolscevica» è radicalmente mutata. La conquista di Stalino e del bacino del Donez, in settembre, ma soprattutto la «battaglia di Natale» hanno fatto aumentare la considerazione dell’alleato nei nostri confronti. Per questo motivo il Fürher chiede e pretende che il contingente italiano venga aumentato.

Il Duce si sente in debito verso i Tedeschi per l’aiuto ricevuto in Grecia e per il continuo supporto in Africa Settentrionale. Vede in questa occasione l’ennesima possibilità di riscatto agli occhi di un alleato sempre più padrone. Sono questi i motivi che inducono Mussolini ad esagerare inviando in Russia un’intera armata che sarebbe, invece, risultata decisiva per le sorti della guerra in Africa Settentrionale.

Il generale Messe infatti è fortemente contrario: il 2 giugno 1942 in un colloquio privato a Palazzo Venezia espone le ragioni del proprio dissenso. Alle parole del generale, Mussolini contrappone una delle sue frasi ad effetto: «Caro Messe, al tavolo della pace peseranno molto di più i duecentomila dell’ARMIR che i sessantamila del CSIR».

La decisione è presa, l’ARMIR deve prepararsi alla partenza verso la Russia.

L’Armata Italiana in Russia è composta da:

1) Corpo d’Armata alpino formato da tre Divisioni: Julia, Tridentina e Cuneense;

2) 2° Corpo d’Armata con le Divisioni Ravenna, Cosseria e Sforzesca a cui si aggiungerà la Vicenza;

3) 35° Corpo d’Armata (ex-CSIR ) con le Divisioni Torino, Pasubio e Celere.

Il comando della nostra armata viene affidato al generale Italo Gariboldi che il 29 giugno decora presso Nikolaiewka lo stendardo di Savoia Cavalleria con la medaglia di bronzo[1]. «Il Reggimento» si legge nell’ordine del giorno, «durante un lungo ciclo di operazioni di guerra anche nelle situazioni più aspre ed incerte per insidiosità d’ambiente e avversità del clima, con la fierezza del suo antico nome ha fatto sventolare vittorioso il suo vecchio stendardo imponendo ovunque al nemico la sua aggressività e il suo coraggio. Dopo aver inseguito alle reni per 250 chilometri forti retroguardie avversarie, dava nuova prova della sua abilità e irruenza nell’occupazione di importante capoluogo minerario fortemente difeso dai bolscevichi».

Il 28 giugno Hitler ordina la ripresa dell’offensiva tedesca interrotta nei mesi invernali: i nuovi obiettivi sono la città di Stalingrado che sorge sul Volga e i monti del Caucaso. Il 5 luglio il Don, nella zona di Voronesch, è raggiunto. Contemporaneamente altre truppe della Wermacht, costeggiando il fiume Donez, dirigono verso il Caucaso. Proprio l’avanzata dell’armata di Paulus su Stalingrado e l’offensiva a Sud-Est di Rostov lasciano il fianco sinistro scoperto al dispositivo offensivo tedesco. Nell’ansa del fiume Don si concentrano i maggiori sforzi delle truppe russe per cercare di arginare l’avanzata tedesca. Questo è il motivo che spinge i comandi germanici a destinare l’8° armata italiana a copertura di quel tratto di fronte in cui le nostre truppe, soprattutto quelle alpine, devono combattere una guerra inadatta alle proprie possibilità. L’idea originaria di inviare il Corpo d’Armata alpino sui monti del Caucaso tramonta così come le possibilità delle truppe dell’Asse di concludere entro l’inverno la conquista dell’Unione Sovietica. Proprio lungo il corso del Don i Russi riusciranno a ribaltare una situazione che, in alcuni frangenti, sembra disperata. In attesa che l’intero contingente dell’8° armata giunga nel bacino del Don vengono schierate le truppe del 35° Corpo d’Armata ormai provate da un anno di combattimenti. L’unica divisione giunta dall’Italia, per il momento, è la Sforzesca che presto pagherà la sua inesperienza e la stanchezza del lungo trasferimento.

Il 13 luglio il Savoia Cavalleria lascia Koursuni[2] e dopo dieci ore di marcia forzata giunge a Ivanowka dove sono ancora molte le tombe dei bersaglieri che nel periodo invernale si sono battuti eroicamente. Il nuovo fronte delle operazioni si avvicina: il 16 raggiunge Fatschewka dove quattro giorni prima c’erano ancora i soldati dell’Armata Rossa. Il nemico ha deciso di non opporre resistenza all’avanzata delle truppe dell’Asse tanto che le nostre divisioni[3] lo inseguono verso Krasnij Lutsch. Le prime truppe che entrano nella città mineraria sono i cavalieri del 3° Squadrone con i fanti della divisione Pasubio. Sotto una pioggia torrenziale i guastatori del reggimento liberano un passaggio per gli altri reparti che transitano entro poche ore.

Gli spostamenti del Reggimento[4] continuano regolari: il 26 giunge a Voroscilovgrad finché il 18 agosto termina il suo trasferimento arrivando a Bolschoj dopo due settimane estenuanti entrando, così, nel dispositivo difensivo sul fiume Don. Proprio in questa zona, nei pressi di Serafimovich, tra il 30 luglio e il 13 agosto, i Russi hanno tentato di sfondare le nostre linee. I bersaglieri della divisione Celere si sono immolati pagando un caro prezzo in vite umane.

Questo sacrificio è, però, solo il primo di una lunga serie. Presto anche i cavalieri di Savoia Cavalleria dovranno constatare che l’Armata Rossa dispone di mezzi e uomini per ribaltare le sorti di una guerra che ai più appare conclusa.

Il Corpo d’Armata italiano si schiera sulla linea del Don con la divisione Pasubio a sinistra e la Sforzesca a destra. Alla sua destra si trova la 79° Divisione germanica davanti alla quale i primi reparti russi hanno costituito una «testa di ponte» occupando i villaggi di Kremenshkija e Bobrowskij.

Il generale Messe, conscio del pericolo, decide di disporre il Reggimento a cavallo e le Camice Nere della Tagliamento a protezione della Sforzesca da poco giunta in linea e non attrezzata ad affrontare l’urto delle più esperte divisioni russe.

Il vecchio militare non si sbaglia, le previsioni di un possibile attacco si avverano alle due e mezza del 20 agosto quando inizia la cosiddetta «prima battaglia difensiva del Don». La Sforzesca sostiene l’urto maggiore dell’attacco nemico ma la sua scarsa preparazione e il «ridicolo» armamento fanno il resto. Dopo due giorni di combattimenti la divisione cede di schianto mettendo in pericolo tutto il fronte.

Cinque ore dopo l’inizio dell’attacco, alle sette e mezza del 20 agosto, giunge improvviso l’ordine del generale Messe, comandante il 35° Corpo d’Armata, di costituire un gruppo di formazione che dovrà essere messo a disposizione della Sforzesca. Il maggiore Conforti raduna il 1° Gruppo squadroni, il 1° e il 3° Plotone mitraglieri e la 3° Batteria di artiglieria del capitano Bodo. Il gruppo dirige verso quota 213 presso Tschebotarewskij con il compito di esplorare il fianco ed eventualmente compiere alcune azioni verso Bobrowskij. Alle tredici e trenta il generale Vaccaro, comandante la Sforzesca, decide di far proseguire la colonna verso il Don per proteggere il fianco dei fanti durante l’imminente contrattacco in direzione di Sesimowskij. Giunti a quota 213,5 il 2° Squadrone appiedato inizia la sua marcia di copertura del fianco della fanteria, mentre il 1° ha il compito di esplorare la zona. La sorpresa, però, non tarda ad arrivare: a Bobrowskij il 54° Reggimento fanteria non c’è. Ad attenderli i cavalieri trovano il fuoco del nemico che non lascia dubbi sul fatto che i fanti della Sforzesca si siano ritirati. Per alcune ore i due squadroni si muovono nell’oscurità nel tentativo di rintracciare le colonne della divisione di fanteria. L’unico caposaldo ancora a tenere è «Fontanelle» dove un battaglione di Camicie Nere della Tagliamento, seppur ridotto alla metà degli effettivi, continua a resistere.

Improvvisamente il giorno 22 il resto del Reggimento riceve l’ordine di lasciare Kotowskij, dove è acquartierato, per raggiungere in un primo tempo Tschebotarewskij ed in seguito quota 232,2. Ormai è chiaro che il fronte sia stato forzato. Le sentinelle che rientrano dalle esplorazioni confermano che la zona nei pressi del Don è in mano ai Russi.

Il generale Barbò, al quale viene affidato il compito di coordinare le azioni in questo settore, ordina ai fanti del 34° Battaglione della Sforzesca di resistere a quota 232,2 e 193,7 in attesa dei battaglioni di Camicie Nere che saranno inviati di rinforzo. Quello che il generale ignora è che il 34° della Sforzesca è ormai in rotta. «Prima di arrivare a Tschebotarewskij c’è il caos più totale: il panico ha preso tutti, soldati e ufficiali, si cerca solo una via di scampo…».

A quota 232 continuano a resistere i «leoni» della Tagliamento che aspettano i rinforzi per poter proseguire nella difesa della preziosa quota. Gli ordini però sono diversi: il Reggimento Savoia deve dirigere verso Tschebotarewskij ormai minacciata dall’arrivo delle truppe dell’Armata Rossa. Il gruppo Conforti intanto continua a combattere nel caposaldo «Fontanelle» con le Camicie Nere della Tagliamento fino a notte, quando giunge l’ordine di dirigere verso Tschebotarewskij. Nel pomeriggio del 22 sono ormai chiare le intenzioni del nemico: questi ha passato il Don con tre divisioni e tenta di entrare nelle valli, parallele l’una all’altra, formate dai fiumi Zuzkan e Kriuska. Per cercare di arginare l’impeto delle truppe sovietiche il generale Messe costituisce due pilastri difensivi che si spera possano in un primo tempo contenere l’«ondata di piena nemica» e in un secondo tempo essere utilizzati come punto di partenza per una controffensiva. Il primo caposaldo viene costituito presso Jagodnij dove nella notte del 22 vengono radunati il 53° Battaglione della Sforzesca, il 15° Battaglione guastatori e la 3° Compagnia lanciafiamme. A Tschebotarewskij, invece affluiscono i resti del 54° Battaglione Sforzesca e i due battaglioni di Camicie Nere già indeboliti dalla lotta precedente[5].

Tra le due valli corre la steppa completamente sguarnita ed occupata dalla 14° Divisione della Guardia che la può sfruttare come trampolino di lancio per quelle azioni aggiranti che sarebbero fatali per il 35° Corpo d’Armata.

Per cercare di arginare eventuali azioni nemiche la cavalleria, con la sua mobilità, è destinata a questo settore.

Nel pomeriggio il Reggimento si trova a quota 236,1 sulla sinistra di Tschebotarewskij, mentre il 79° Battaglione Camicie Nere combatte a quota 193,7. La 14° Divisione della Guardia sorprende le truppe italiane sul fianco tanto che i cavalieri sono costretti ad accorrere se non vogliono vedere il paese cadere.

In zona dovrebbe trovarsi anche il 54° della Sforzesca. Anche in questa occasione i fanti non si trovano. Senza il loro appoggio il fianco sinistro della Tagliamento è sguarnito. Arrivata la sera il Reggimento Savoia riesce ad entrare in paese che non è caduto grazie alla strenua resistenza del 79°.

Il 23 il Savoia è ancora destinato al pattugliamento della zona tra le due valli. Gli alti comandi ritengono necessaria la presenza della cavalleria in questa zona e la sua presenza non è più necessaria a Tschebotarewskij dato che sono giunti i rinforzi alla Tagliamento. Anche in questo frangente, però, la pressione delle truppe russe non accenna a diminuire: per tutto il corso della mattina attacchi frontali vengono respinti.

Proprio per cercare di alleggerire, almeno in parte, la stretta nemica il comando decide di organizzare un attacco sul fianco delle truppe bolsceviche.

Il Reggimento viene inviato verso il Don nella zona di Isbuscenskij dove avrebbe dovuto, dalla quota che presto diventerà la mitica 213,5, disturbare le colonne di rifornimento russe. Il colonnello Bettoni si dirige verso la gloria accompagnato dal 1° Gruppo artiglieria a cavallo del maggiore Albini.

Poco prima di giungere sulla sommità dell’altura il comandante del Reggimento decide di fermarsi. La quota è bombardata da colpi di mortaio e ormai si sta facendo sera.

Bettoni decide, quindi, di schierare il quadrato anche se questo ordine incontra le vivaci proteste degli ufficiali Abba e Manusardi[6] che ritengono la posizione troppo esposta e a rischio di imboscate. Seguendo le indicazioni riportate sui manuali di guerra, il Reggimento dispone il quadrato con le armi automatiche e l’artiglieria rivolte verso la quota che la mattina seguente sarebbe stata occupata. Gli uomini, dopo una giornata logorante, crollano addormentati e neanche le sentinelle si avvedono che a circa un chilometro di distanza tre battaglioni di Siberiani supportati da artiglierie e mortai si trincerano pronti a cogliere di sorpresa l’intero Reggimento. I 2.000 Russi occupano un semicerchio di circa un chilometro davanti al quadrato di Savoia Cavalleria.

Sono le tre e trenta del 24 agosto quando la pattuglia[7] agli ordini del sergente Comolli esce per esplorare la zona circostante. La sera precedente è stato individuato un carro agricolo dal quale sembra spuntare qualcosa di metallico e il colonnello Bettoni che teme eventuali agguati preferisce scoprire di che cosa si tratta. Proprio durante la perlustrazione gli uomini della pattuglia scorgono nei campi di girasole circostanti un elmetto che il caporal maggiore Bottini riconosce come tedesco. In realtà appartiene ad un soldato russo che, appena vede la pattuglia avvicinarsi, lancia l’allarme. Il povero soldato è centrato da un colpo sparato da Petroso ma ormai la sorpresa è svelata e i Russi investono i cavalieri di Savoia Cavalleria con una pioggia di pallottole.

La reazione delle truppe italiane è rabbiosa: le mitragliatrici iniziano a sgranare i loro proiettili mentre l’artiglieria del maggiore Albini e del capitano Solaroli di Briona inizia a bombardare gli oltre 2.000 Russi. Il nemico è comunque in posizione favorevole: ha un numero maggiore di uomini e una potenza di fuoco nettamente superiore. Il colonnello Bettoni non ha dubbi: il Reggimento, che conta circa 700 elementi, deve caricare se vuole avere qualche possibilità di vittoria. In un primo tempo pensa di comandare personalmente la carica di tutto il Reggimento ma dopo, forse consigliato dall’aiutante maggiore Piscicelli, decide di non guidare personalmente la carica mandando all’attacco un solo squadrone.

L’ordine di attacco viene impartito al 2° Squadrone comandato dal tenente De Leone, il cui compito è quello di attaccare il fianco sinistro dello schieramento avversario. L’eccitazione dei cavalieri è palpabile, per molti questa è e sarà l’unica possibilità di partecipare ad una carica. De Leone, seguito dai suoi sottoposti, ordina allo squadrone di montare a cavallo ed esce dal quadrato nella direzione opposta al nemico. Appena scompare dal campo visivo il 2° Squadrone compie un’ampia conversione e l’ordine «Sciabola in mano» conferma a tutti che quella giornata sarebbe entrata nella storia. A questa scena partecipa anche il maggiore Manusardi che fino a pochi giorni prima comandava lo squadrone. Rimasto senza cavalcatura, si impossessa del cavallo del generale Barbò e segue i suoi uomini verso la gloria.

Al suo arrivo si leva alto il grido di gioia dei suoi cavalieri.

L’entusiasmo cresce insieme all’andatura dei cavalli: al grido «Caricat» tutti all’unisono urlano «Savoia» e si lanciano verso le linee nemiche. Una corsa inarrestabile in cui il rombo degli zoccoli di oltre cento cavalli fa tremare il terreno riempiendo l’aria in questa mattina d’estate. I destrieri sono lanciati con un impeto travolgente. Molti sono feriti ma tanta è la loro eccitazione che continuano a caricare fino a franare senza vita sul terreno. Lo stesso De Leone si trova appiedato, mentre Manusardi continua la carica. Dalle loro buche i Russi iniziano a mitragliare con possente frequenza tanto che sono molti gli uomini a cadere. I soldati sovietici, non essendo impegnati da altre posizioni, appena superati dalla carica possono voltarsi e sparare alle spalle dei cavalieri che furiosi utilizzano le loro sciabole cosacche preda di guerra. Il caos è indescrivibile: molte donne sono uscite da chissà dove e incitano i propri soldati con alte grida inneggianti a Stalin.

Carica di Isbuscenskij

La carica di Isbuscenskij

Dopo aver superato la metà del fronte nemico Manusardi si rende conto che senza l’appoggio di altri reparti sarebbe stato impossibile continuare. Il suo squadrone è ridotto a circa la metà degli effettivi e per questo decide di tornare indietro effettuando un’altra carica. Questa volta anche le bombe a mano sono usate per aprirsi la strada. Lo schieramento nemico è nuovamente investito dai cavalieri di Savoia. Alcuni di loro riescono anche a salvare il comandante De Leone che sta continuando a combattere appiedato pur di evitare di cadere prigioniero in mano al nemico.

Il colonnello Bettoni si rende conto che l’azione del 2° deve essere supportata: decide quindi di inviare all’attacco il 4° Squadrone appiedato per un’azione frontale. Nella pianura russa i plotoni di Abba, Rubino, Compagnoni e Toja avanzano supportati dai mitraglieri di Foresto. Circa 500 metri li separano dal nemico e bisogna percorrerli su un terreno piatto dove sono poche le zone in cui ripararsi. Dopo essere usciti da un campo di girasoli gli uomini del 4° sono investiti dalle prime raffiche di mitragliatrice. L’ordine impartito da Abba è di allargarsi e di avanzare strisciando, mentre il plotone di Rubino viene spostato all’estrema sinistra del fronte d’attacco. Proprio in queste prime fasi una raffica di parabellum ferisce il giovane ufficiale ad una gamba. In seguito un altro colpo lo raggiunge al polmone costringendolo a rimanere immobile. Nonostante le ferite riportate continuerà a dirigere l’azione dei suoi uomini da una posizione più riparata.

Anche in questa fase dell’attacco il nemico occupa una posizione dominante: Toja e il suo plotone cercano di avanzare sulla sinistra per cercare di raggiungere una zona in cui poter prendere d’infilata il fianco delle truppe russe. Intanto Abba con i suoi uomini cerca di sostenere l’azione sparando a più riprese con alcuni parabellum catturati al nemico.

Gli uomini del 2° intanto hanno completato la carica che è stata altrettanto violenta. Manusardi e i cavalieri superstiti rientrano nel quadrato e incitano Bettoni ad inviare un altro squadrone a sostenere l’azione del 4°.

Subito il colonnello decide di inviare il 3° del capitano Marchio all’attacco che punta diritto verso il fronte senza prendere quelle precauzioni necessarie per non farsi individuare dagli osservatori sovietici. Vedendo questo anche il maggiore Litta decide di partecipare alla carica con i pochi uomini rimasti. Lo stesso tenente Ragazzi, nonostante gli ordini contrari, partecipa all’azione del reparto.

Dopo essere giunti nella zona dove combatte il 4° Squadrone, il 3° deve attraversare un punto estremamente stretto in cui i Russi hanno piazzato numerose armi automatiche che falciano a decine i cavalieri. Un colpo di mortaio colpisce il tenente Ragazzi uccidendolo all’istante. Il comando di gruppo è quasi tutto falciato: muore Mentasti mentre Litta non può più montare per la ferita riportata alla gamba. Il maggiore raggiunge la postazione di un mitragliere e da lì partecipa all’attacco dei suoi finché un colpo non lo stronca. Tutti gli ufficiali del 3° sono fuori combattimento tanto che spetta al sergente Negri guidare l’ultimo assalto ai rimanenti centri di resistenza. I cavalieri li eliminano aprendosi la strada con l’aiuto delle bombe a mano e delle sciabole cosacche che si sono dimostrate, anche in questa carica, un’arma micidiale.

Lo stesso Abba viene falciato da un colpo al cuore nel tentativo di raggiungere gli uomini di Rubino rimasti senza una guida.

Mentre si continua a morire si levano alte le grida degli uomini del 3° che hanno messo in fuga le ultime truppe russe. Savoia è ormai padrone del campo grazie alle due cariche della cavalleria del 2° e 3° Squadrone e all’ausilio delle forze a piedi del 4°. Il fumo si dirada sul campo di battaglia e i cavalieri rientrano alla spicciolata. Sono da poco passate le nove quando finalmente si possono contare i caduti della carica di Savoia Cavalleria. «Savoia ha caricato» è la frase che passa di bocca in bocca e che riempie di orgoglio i cuori dei sopravvissuti. Il bilancio finale è di 33 vittime e 53 feriti. Il prezzo più alto è pagato dai cavalli: 150 nobili destrieri non ci sono più.

Le truppe russe pagano un prezzo molto più alto: 150 morti, 300 feriti e 500 prigionieri[8].

Gli ingenti sacrifici del Reggimento vengono ripagati con la medaglia d’oro allo stendardo, medaglia d’oro alla memoria per Abba e Litta, 54 medaglie d’argento e 49 croci di guerra sul campo.

Proprio nel giorno del 250° compleanno del Reggimento si è consumata la più gloriosa pagina della storia delle «cravatte rosse». L’unico tassello che manca è quello del nome da dare alla carica. Durante la sera gli ufficiali optano per Isbuscenskij, un paese che non è mai stato raggiunto dai cavalieri di Savoia, ma che grazie a questo episodio è entrato a pieno titolo nella storia delle forze armate italiane.


Note

1 L. Lami, Isbuscenskij, l’ultima carica, Edizioni Mursia 1970, Milano (confronta a pagina 195).

2 P. Crespi, Dosvidania. Savoia Cavalleria dal fronte russo alla Resistenza, Edizioni Vita e Pensiero (confronta a pagina 229).

3 Le divisioni coinvolte sono quelle del CSIR (Celere e Pasubio) alle quali si aggiunge la Sforzesca.

4 Il Reggimento è ora inquadrato nel RAC (Raggruppamento A Cavallo) nel quale sono stati incorporati i reggimenti di cavalleria della divisione Celere: Savoia Cavalleria, Lancieri di Novara e Batterie a Cavallo. Il comando è affidato al generale Guglielmo di Barbò mentre il colonnello Alessandro Bettoni Cazzago è nominato nuovo comandante di Savoia Cavalleria.

5 G. Messe, La guerra al fronte russo, Edizioni Mursia, Milano (confronta a pagina 248).

6 L. Lami, Isbuscenskij, l’ultima carica, Edizioni Mursia 1970, Milano (confronta a pagina 221).

7 La pattuglia è composta da uomini del 1° Plotone: il sergente Comolli, il guastatore Bottini, il caporale Legnani e l’appuntato Petroso. Gli altri uomini sono Binagli, Angius e Galbusera.
P. Crespi, Dosvidania. Savoia Cavalleria dal fronte russo alla Resistenza, Edizioni Vita e Pensiero (confronta a pagina 241).

8 L. Lami, Isbuscenskij, l’ultima carica, Edizioni Mursia 1970, Milano (confronta a pagina 239).


Bibliografia

Dosvidonia. Savoia Cavalleria dal fronte russo alla Resistenza, di L. Mela, P. Crespi – Edizioni Vita e Pensiero

Isbuscenskij, l’ultima carica, di L. Lami – Edizioni Mursia

1942, di A. Petacco – Edizioni Leonardo

La nostra guerra 1940-1943, di A. Petacco – Edizioni Mondadori

Storia dell’Italia nella guerra fascista 1940-1943, di G. Bocca – Edizioni Mondadori

La guerra al fronte russo, di G. Messe – Edizioni Mursia

Diari 1939-1943, di G. Ciano – Edizioni Rizzoli

Savoye bonnes nouvelles, di L. Gianoli – Edizioni Equestri

Trotto galoppo caricat, di G. Vitali – Edizioni Mursia

Manuale di Storia, L’età contemporanea, di A. Giardina, G. Sabbatucci, V. Vidotto – Editori Laterza.

(dicembre 2006)

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