Le Repubbliche Partigiane: utopia o realtà?
Realizzazioni e limiti: una lettura al di là delle interpretazioni ideologiche

Uno dei rischi della ricerca storiografica è la confusione tra il progetto e la realtà, ovvero di valutare una realizzazione parziale col metro che si sarebbe usato se questa avesse avuto un’estensione spaziale e temporale conforme alle attese. È un rischio che si corre anche quando si studiano i fatti in buona fede e mettendo da parte, per quanto possibile, i propri preconcetti ideologici, soprattutto quando si sente che l’argomento di cui si sta trattando ha un significato, un’attinenza con la propria vita o la situazione presente.

Per chiarire quanto ho detto, posso fare l’esempio delle Repubbliche Partigiane, sorte in Italia tra la tarda primavera e l’estate del 1944 e scomparse nel corso dell’autunno dello stesso anno. La ricerca storiografica le legge ancora oggi, in gran parte, come il tentativo (assolto) di riportare le popolazioni a un regime politico democratico dopo gli anni della dittatura fascista, un’educazione all’autogoverno, una sorta di «prova generale» del governo che sarebbe sorto nell’Italia del dopoguerra, quello di cui godiamo tutt’ora, e che ebbe nelle Repubbliche Partigiane il suo primo vagito. Ma fu davvero così? La lettura dei fatti induce a una pausa di riflessione.

Facciamo il punto della situazione. Siamo nella tarda primavera del 1944: la lotta resistenziale si estende, i colpi di mano si moltiplicano, le bande partigiane si avvicinano sempre più dalle zone montane ai fondovalle; i Tedeschi – mentre patteggiano con i partigiani alle spalle dei fascisti – trasferiscono le loro unità verso la Linea Gotica per contrastare il passo agli Anglo-Americani e i presidi della Guardia Nazionale Repubblicana dislocati nelle zone periferiche vivono in uno stato di permanente insicurezza, a volte sono costretti a ripiegare verso località meglio protette seguiti spesso dalle autorità amministrative (podestà, commissari prefettizi, segretari comunali). In questo modo, senza seguire un disegno preordinato ma per effetto naturale delle trasformazioni nei rapporti di forza, porzioni più o meno estese di territorio passano sotto il controllo partigiano, trasformandosi in «zone libere» dove l’autorità della Repubblica Sociale Italiana è esautorata e si realizzano forme originali di autogoverno: addirittura, le bande partigiane – riferisce un rapporto del 21 luglio sulla provincia di Aosta – «hanno istituito regolari posti di blocco che controllano automezzi e persone in transito, mentre i podestà e i commissari prefettizi dei centri rurali occupati ricevono disposizioni e ordini da un sedicente Comitato di liberazione nazionale sull’andamento del proprio comune».

Due sono gli obiettivi delle zone libere: controllare militarmente il territorio e, soprattutto, avviare un processo di democratizzazione capace di educare la popolazione all’autogoverno e di creare organismi amministrativi in grado di proporsi come interlocutori degli Alleati – insomma, si tratta dell’esito ultimo della lotta armata e, insieme, del primo banco di prova della nuova classe dirigente. Ha avuto successo?

Ancora si discute su quante siano state le «zone libere»; se ne sono previste 21; Luigi Longo – capo, insieme a Ferruccio Parri, del settore operazioni del «Comando generale per l’Italia occupata del Corpo Volontari della Libertà» – ne cita 15 nel suo libro Un popolo alla macchia, ma quelle di una qualche importanza sono sei, dove il comando partigiano attiva un’amministrazione vera e propria che gestisce l’ordine pubblico, la giustizia, l’alimentazione e persino la scuola: per tutte le altre si tratta per lo più di effimeri e precari «santuari» partigiani, presto spazzati via. Bisogna anche tener conto che nei dati di Parri comandi e reparti partigiani sembrano assai più organici, razionali e collegati al centro di quanto in concreto siano, e che le bande partigiane, pur acquistando consistenza numerica e determinazione (da 30.000 nella primavera del 1944 a 60.000 o forse 100.000 nell’estate) non diventano mai un vero esercito o un vero controesercito, come dimostrerà tra poco l’esperienza delle Repubbliche Partigiane.

Le «zone libere» iniziano il 2 maggio con Champorcher, in Val d’Aosta, poi con la Repubblica di Torriglia in Liguria (anche se il borgo da cui prende il nome resterà sempre in mano ai Tedeschi), con la Val Chisone e con altre, costituite verso la metà di giugno e cadute tutte nel giro di un mese. Questo a causa dell’esaurirsi dell’offensiva alleata sulla Linea Gotica che lascia liberi i Tedeschi e i militi della Repubblica Sociale Italiana di passare alla controffensiva, oltre che della conformazione territoriale dell’Italia Centro-Settentrionale, con vallate montane facili da bloccare e grandi pianure solcate da numerosissime vie di comunicazione.

Nel Modenese, nella zona di Montefiorino, i partigiani si impadroniscono di un’area molto vasta che domina le arterie che collegano la Liguria e la Toscana con l’Emilia: si tratta di un territorio di 50 chilometri per 80. Il capo è un contadino improvvisatosi comandante militare, Armando Ricci. All’inizio dell’estate vengono promosse delle giunte popolari, anche se non si tratta di vere e proprie elezioni e se la consultazione procede in modo empirico e fortunoso: si tratta di un ordinamento repubblicano ancora embrionale, tra l’altro segnato dalla contrapposizione tra l’orientamento comunista della maggior parte delle formazioni partigiane e un ambiente largamente conservatore e legato alla Chiesa.

Il destino della Repubblica di Montefiorino è però segnato sulla carta geografica, soprattutto per la sua vicinanza alla Linea Gotica e il rischio che venga predisposto un «cuneo» che indebolisca lo schieramento tedesco e crei i presupposti allo sfondamento del fronte da parte degli Anglo-Americani. Questi ultimi riforniscono i partigiani di abbondanti aiuti, paracadutando armi, munizioni, persino mortai, oltre a viveri ed equipaggiamento. Il Generale Tedesco Messerle propone ai partigiani la sospensione dei rastrellamenti e la liberazione degli ostaggi in cambio di una tregua. Al rifiuto di Ricci, i Tedeschi scatenano l’offensiva, che dura dal 28 luglio al 3 agosto: i partigiani riescono a ripiegare in una «zona di salvezza» montana dopo aver perso 250 uomini e aver visto sfumare il progetto di predisporre una testa di ponte alle spalle dello schieramento tedesco.

Il Veneto conosce la sua prima zona libera all’inizio di luglio nel Bosco del Cansiglio, un territorio fittamente alberato a Est di Belluno, che si affaccia sulla pianura di Pordenone: la gente dice che al Cansiglio ci sono più partigiani che piante. Il pericolo per la sua vicinanza alle linee di comunicazione tedesche provoca un’operazione di rastrellamento che dura dal 15 agosto all’8 settembre; anche in questo caso, i partigiani sono costretti a mettersi in salvo filtrando tra le linee nemiche.

La Repubblica delle Langhe, in Piemonte, inizia nell’estate; il 10 ottobre viene occupata Alba. Oltre al presidio militare del territorio, avocato a sé dai partigiani, si designa una «delegazione civile» che, in posizione autonoma rispetto ai comandi militari e ai commissari politici comunisti, prenda contatto con le personalità cittadine e prepari le consultazioni elettorali, proponendo liste di candidati, appellandosi ai parroci per la collaborazione, mobilitando un corpo elettorale significativo, stampando regolari schede per il voto. La controffensiva nazifascista scatta alle ore una della notte del 2 novembre (dopo che era stata respinta con sdegno la proposta fascista di un «accordo fra Italiani» per un abbandono pacifico di Alba) e termina all’inizio del mese successivo: i rastrellamenti nella zona liberata impediscono all’esperienza della Langhe di esprimere forme politicamente mature e articolate di autogoverno.

La Repubblica dell’Ossola è la più ricca, la più popolata, la meglio organizzata fra le Repubbliche Partigiane, e anche... la più inutile sul piano militare: si tratta di una valle a forma di imbuto rovesciato con due lati che confinano con la Svizzera e nessuna possibilità per i reparti partigiani di sganciamento e di passaggio in zone limitrofe; i comandi alleati se ne accorgono e se ne disinteressano completamente. La lotta per la liberazione inizia il 26 agosto nella parte alta della valle; i presidi fascisti si arrendono uno dopo l’altro e quello tedesco di Domodossola si trova accerchiato quasi senza accorgersene: ai Tedeschi viene lasciata la possibilità di andarsene senza subire attacchi, ma abbandonando le armi. Il 9 settembre entrano nel capoluogo, Domodossola, le formazioni garibaldine e quelle cattoliche di Di Dio e Cefis, il giorno dopo la città è tutta un tricolore. Ettore Tibaldi, un cortese medico socialista, è designato presidente della giunta: la sua «giurisdizione» si estende dalle sponde del Lago Maggiore alla Valsesia, da Gravellona al Sempione, per un totale di 1.600 chilometri quadrati, 28 comuni e 80.000 abitanti. Nell’Ossola si riversano dalla Svizzera e da Milano numerosi uomini politici e grossi nomi dell’antifascismo che ritrovano il gusto della democrazia e della rissa verbale: tra essi i comunisti Concetto Marchesi, Giancarlo Pajetta e Terracini, i socialisti Fernando Santi, Ezio Vigorelli e Mario e Corrado Bonfantini, il democristiano Piero Malvestiti. Il clima è di entusiasmo confusionario, si aspira a una visione non municipale dei problemi con grandi discorsi sull’universo scibile, compreso il Sud America, la questione femminile, la differenza tra democrazia sostanziale e democrazia formale. Non si commina nessuna condanna a morte, neppure per due spie confesse dei Tedeschi, i caporioni fascisti non vengono messi in carcere ma internati nella colonia montana di Druogno, nessun membro del Partito Fascista è tratto in arresto. Si prevede persino una radicale riorganizzazione della scuola fondata su uno spirito umanistico, «non nel senso di formare una scuola esclusivamente classicista, ma nel senso di sviluppare armonicamene e per gradi tutte le forze dello spirito che innalzano e temprano l’uomo». In tutta l’Ossola rinasce la vita democratica con i consigli comunali, i sindacati, i comizi, i dibattiti e i giornalisti olandesi, americani e inglesi accorrono dalla Svizzera a vedere il miracolo di una piccola, sconosciuta Repubblica che «riscopre la democrazia».

La battaglia per la riconquista fascista dell’Ossola inizia il 9 ottobre ed è affidata interamente a reparti della Repubblica Sociale Italiana: Divisione «Monterosa», Brigate Nere, Legione «Muti», Decima Mas, in tutto 12.000 uomini. Di fronte a loro ci sono partigiani sfiduciati, che hanno atteso invano l’insurrezione generale, l’avanzata decisiva degli Alleati, i lanci di armi e di viveri. Il primo giorno di combattimento, nel pieno di un autunno prematuro, la «Folgore» conquista Ornavasso dopo sei ore di combattimento. Per tre giorni i partigiani riescono a resistere, poi i fascisti spezzano il fronte e dilagano: il 14 ottobre i reparti repubblichini entrano in Domodossola dopo aver fatto bombardare il campo d’aviazione, il 21 i combattimenti cessano del tutto. La Repubblica dell’Ossola è stata una «splendida utopia» durata lo spazio di 40 giorni e svanita come una bolla di sapone.

Ad Ampezzo la giunta della Carnia è insediata il 26 settembre: sovrintende a 37 comuni con circa 80.000 abitanti, su un territorio di circa 2.500 chilometri quadrati. Si prevedono elezioni aperte a tutti e soprattutto ai giovani e alle donne, scontrandosi con le opposizioni sia di chi è legato alla Chiesa e alle vecchie strutture patriarcali della società, sia di chi teme – e la cosa è reale – che i comunisti riuniscano nelle loro mani il totale controllo sulla vita della zona. Le forze partigiane contano garibaldini dal fazzoletto rosso e i Cattolici della Osoppo col fazzoletto verde, oltre i Russi di un battaglione Stalin fuggiti dai campi di prigionia della Stiria. Questa Repubblica non ha sorte migliore delle precedenti, attaccata a più riprese dal 19 settembre prima da 2.000, poi da 20.000 uomini che comprendono Tedeschi, militi della Repubblica Sociale Italiana, cosacchi, ustascia croati, Francesi di Vichy. Vi sono pagine di valore, contrassalti a colpi di bombe a mano, ma il 7 dicembre la lotta ha termine. Per i partigiani della Osoppo sopravvissuti si preparerà la fine nel febbraio del 1945, assassinati a tradimento dai «compagni» garibaldini per aver rifiutato di consegnare le armi ai partigiani titini – sul confine orientale d’Italia, i comunisti italiani combattono dall’altra parte!

Nell’Alto Monferrato si insedia una giunta popolare governativa il 5 novembre, quando tutte le altre Repubbliche Partigiane sono ormai cadute: controlla la provincia di Asti sulla riva destra del Tanaro, per un totale di 40 comuni. La difesa è affidata a due «divisioni» garibaldine comandate da Giambattista Reggio e Davide Lajolo, e una divisione autonoma appartenente alle formazioni di Enrico Martini detto «Mauri», un maggiore dell’Esercito che ha raccolto intorno a sé alcuni ufficiali coraggiosi e centinaia di giovani che guida con piglio vigoroso e a volte con metodi spicciativi verso veri o presunti traditori e spie. Nel Governo della Repubblica, la Presidenza e l’Economia spettano ai socialisti, gli Interni ai comunisti, la Difesa ai democristiani e ai liberali, le Finanze agli azionisti e l’Agricoltura a un comunista, un democristiano e un liberale. Ma la situazione militare è disperata: mancano ufficiali, i giovani partigiani sono indisciplinati, le popolazioni sono sempre più ostili a causa delle soperchierie commesse troppo spesso dai resistenti. La controffensiva nazifascista riporta sotto controllo la regione il 2 dicembre.

L’esperienza delle Repubbliche Partigiane è durata troppo poco (qualche settimana) per definirla un successo: è stata un completo fallimento dal punto di vista militare, mentre dal punto di vista politico non si può dire se, durando maggiormente, avrebbe potuto avere un seguito. I presupposti non sono stati interamente positivi: in tutte queste esperienze, la popolazione civile, che avrebbe dovuto essere «educata» alla democrazia, resta spesso ai margini delle iniziative, preoccupata dai problemi quotidiani come quello degli approvvigionamenti (le autorità fasciste bloccano i rifornimenti alimentari ai comuni occupati dai partigiani) e dalle conseguenze di possibili rastrellamenti. Luigi Longo raccomanda – siamo nel settembre del 1944 – che «dove si va e dove si passa resti qualche cosa di solido [si riferisce al lavoro politico fra le popolazioni e all’autogoverno]. La gente non deve solo acclamare, ma organizzarsi, aiutarci a lottare. Noi non dobbiamo sostituirci agli organismi popolari ed alle organizzazioni di massa, ma suscitarle e valercene per condurre la guerra partigiana». La verità è però che durante la controffensiva nazifascista le forze partigiane evacuano in pochi giorni i territori «liberati» lasciando la popolazione civile sola, inerme ed esposta alle rappresaglie; questo scava un solco di diffidenza tra la popolazione rurale delle zone coinvolte e il movimento resistenziale, come mette in luce il dirigente azionista Giorgio Agosti: «Le campagne, che in un primo momento il moto partigiano aveva tratto dal loro torpore, oggi sono allarmate, domani potranno diventare decisamente ostili».

L’esempio di Marzabotto è illuminante: si tratta di un paese di 6.000 abitanti a 25 chilometri da Bologna, nell’Alta Valle del Reno. Nella zona opera la brigata partigiana «Stella Rossa». Il fronte tedesco sta arretrando di fronte agli Alleati e bisogna assicurarsi retrovie tranquille, a costo di creare la terra bruciata, a volte abbandonandosi a un furore insieme metodico e allucinato: il 29 settembre i battaglioni della divisione «Adolf Hitler» del maggiore austriaco delle SS Walther Reder (detto «il monco») annientano senza troppa fatica la brigata «Stella Rossa» e si gettano poi su Marzabotto trucidando 1.830 persone, tra cui cinque preti, che vanno ad aggiungersi alle centinaia di civili inermi uccisi nei giorni precedenti nei paesi da loro attraversati.

Il 13 novembre, il Generale Alexander emana un proclama diretto ai partigiani in cui ordina di cessare le operazioni su larga scala, conservare le munizioni e dedicarsi al sabotaggio. Il messaggio viene trasmesso per radio, cosicché anche i Tedeschi e i fascisti ne vengono a conoscenza: possono così spostare le loro forze dalla Linea Gotica – sicuri di non essere attaccati – per operare contro i partigiani. Questi vedono assottigliarsi le loro file (su 80.000 combattenti, 30.000 se ne andranno) e dovranno aspettare pazientemente di riprendere l’offensiva non appena la stagione lo permetterà.


Bibliografia

Franco Fucci, La guerra partigiana in Italia, in Enzo Biagi, La Seconda Guerra Mondiale, volume 6, Gruppo Editoriale Fabbri S.p.A, Milano 1988, pagine 2051-2061

Gianni Oliva, I vinti e i liberati, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1995, pagine 404-418

Giordano Bruno Guerri, Fascisti, Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano 1995, pagina 265

Indro Montanelli-Guido Cervi, Storia d’Italia, volume 47: L’Italia della Liberazione, Fabbri Editori, Milano 1994, pagine 77-78, 81-92.

(marzo 2022)

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