I ragazzi di Rovetta
Una delle pagine più nere della Resistenza Italiana, volutamente occultata per decenni e su cui ancora oggi non si vuole far luce

Ci sono eventi, nel corso della Storia, che vengono distorti od addirittura taciuti: questo perché non solo mettono in cattiva luce coloro che quella storia, a posteriori, la scrissero e tramandarono, ma anche perché rischiano di scardinare immagini ormai cristallizzatesi nel mito e divenute quindi «dogma di fede», eterne ed immutabili.

Gli eventi che accaddero in quel di Rovetta, nel Bergamasco, il 28 aprile del 1945, appartengono a tutte quelle vicende di cui non si deve parlare, su cui non si deve riflettere, e di cui, parimenti, non si devono capire le reali motivazioni. L’Istituto Storico della Resistenza, le associazioni partigiane, l’«Eco di Bergamo», persino la Curia (che pure ebbe una sua parte nella vicenda) tacciono.

Eppure, la semplice cronaca dei fatti è chiara e indiscutibili sono le responsabilità. Erano gli ultimi giorni di aprile del 1945, e in Italia la guerra era giunta fatalmente al termine. Nel fuggi fuggi generale, mentre chi poteva si imboscava o si travestiva, al Passo della Presolana, in Val Seriana, tagliati fuori da tutti, 43 balilla della Legione Tagliamento ancora tenevano il presidio. Li comandava un sottotenente di 22 anni: l’età media era di 17 anni, i più giovani non avevano ancora 15 anni. Studenti, si erano arruolati volontariamente dopo la fuga del Re, per salvare l’onore della Patria: nati e cresciuti nella retorica fascista, volevano resistere in armi contro il resto del mondo, fino alla «bella morte» – chiamiamoli pure ingenui, traviati, illusi, ma non vili, come fa qualcuno, né tanto meno assassini, dato che non avevano mai sparato un colpo (come testimoniato per iscritto da uno dei capi partigiani).

Balilla di Rovetta

Due dei 43 balilla fucilati a Rovetta

Il cosiddetto Comitato di Liberazione Nazionale ordinò di cessare il fuoco, arrendersi, consegnare le armi, in cambio era fatta salva la vita. Fu il parroco a convincerli a scendere dai monti, a rassicurarli che la resa sarebbe stata onorevole.

Giunti a Rovetta, i balilla vennero presi in consegna dai partigiani, e dopo due giorni di prigionia quasi familiare (alcuni erano fidanzati con ragazze del posto) la notte del 27 aprile accadde qualcosa di poco chiaro, comparvero figure misteriose, auto lussuose: all’alba del 28, i 43 balilla vennero picchiati, spogliati e condotti dietro il cimitero, dove furono uccisi a colpi di mitra a gruppi di cinque, e poi sepolti sommariamente.

Questo episodio, noto come «la strage di Rovetta», è una macchia indelebile dell’Italia nata dalla Resistenza. Nessuno ha mai ammesso di aver dato l’ordine di fucilare dei prigionieri che si erano arresi conformemente agli ordini del Comitato di Liberazione Nazionale, a guerra ormai conclusa, né ha spiegato per quale ragion di Stato 43 ragazzini che non si erano mai resi responsabili di violenze siano stati trucidati a sangue freddo. Un processo farsa nel dopoguerra ha chiuso la questione dichiarando l’esecuzione come «azione di guerra», e come tale non punibile. Gli esecutori materiali, processati e assolti, portano i cognomi più diffusi della zona, chiunque in Val Seriana conosce un sacco di gente con quei cognomi, Savoldelli, Zanoletti, Balduzzi, Percassi. Oltre a personaggi noti della Resistenza Bergamasca, c’era anche una figura misteriosa, «il Mohicano», che si è poi rivelato essere un agente dei Servizi Segreti Inglesi; nel 1997, quando la Regina d’Inghilterra ha tolto il segreto di Stato dagli archivi del SOE, il Secret Service Inglese che agiva in Italia e nei Balcani a «supporto» dei partigiani, gli storici hanno iniziato a studiare i documenti, e il quadro che ne esce è tale da costringere a riscrivere alcune pagine di storia della Resistenza, in primis quella della strage di Rovetta e delle reali motivazioni che la causarono.

Le direttive del SOE relative al teatro di guerra italiano disponevano che «il SOE garantisce il suo aiuto a tutti quei gruppi – di qualsiasi ispirazione politica siano – che diano maggiori garanzie di uccidere il maggior numero di Tedeschi e/o repubblichini». In pratica, i gruppi partigiani venivano finanziati, armati e remunerati dai Servizi Segreti Inglesi in base alla produzione di morte: tot Tedeschi o fascisti uccisi, tot finanziamenti. Quindi, vien da pensare che il Mohicano ordinò una strage di ragazzini per aumentare il fatturato del suo gruppo, o magari anche solo il suo personale: 43 ragazzini uccisi per intascare soldi!

Il giorno dopo la strage, il 29 aprile 1945, l’«Unità» scriveva: «La peste fascista deve essere annientata. Con risolutezza giacobina il coltello deve essere affondato nella piaga, tutto il marcio deve essere tagliato. Non è l’ora questa di abbandonarsi a indulgenze che sarebbero tradimento della causa…». È il famoso articolo Pietà l’è morta firmato da Giorgio Amendola, uno dei «Padri della Patria». Il riferimento è a Piazzale Loreto, ma si legge in queste parole un’apologia alla pulizia etnica, o se vogliamo politica. Nel corso di quella notte, gli Italiani divennero tutti antifascisti convinti, anzi, lo erano sempre stati. Nel corso del successivo mese di maggio – con l’alibi di «annientare la peste fascista» – furono uccise oltre 65.000 persone a sangue freddo, senza distinzione, civili, donne, bambini, anziani, per strada, in piazza, in casa, ovunque, per lo più vendette private su persone comuni che non avevano mai avuto niente a che fare con il Regime.

Per anni, dopo la guerra, le mamme dei ragazzi di Rovetta si sono recate sul luogo della strage a commemorare i loro figli, a ricordarli come facciamo tutti nel giorno della scomparsa dei nostri cari. E poiché nessuno ha mai avuto il coraggio di chiarire, o anche solo di riconoscere quella pagina oscura di storia della Resistenza, quel raduno anno dopo anno è stato travisato e strumentalizzato fino ai giorni nostri, con parlamentari di Sinistra che chiedono al Governo di vietare la commemorazione, gruppi come «I ribelli della montagna» che si appellano a una legge di 60 anni fa (anticostituzionale, perché contraddice la libertà di opinione ed espressione) per invocare il reato di apologia del fascismo, e l’«Eco di Bergamo» che dopo aver falsificato le notizie gettando su quei ragazzini tutto il fango possibile, pubblica un comunicato irresponsabile col quale si invitano i lettori a partecipare ad un «presidio antifascista» e «mobilitarsi per ricacciare fascisti e nazisti fuori dalle nostre valli, come settant’anni fa!» (ottimo incitamento alla violenza). Nessuno ha mai pensato ad esprimere «pietas», in un contesto di riconciliazione e comunque di rispetto per ragazzi a tutti gli effetti «vittime innocenti», anche se indossavano una divisa diversa.

Probabilmente i veri eroi della Resistenza e i veri intellettuali di Sinistra, uomini che hanno dato la vita nella lotta al fascismo, sarebbero i primi a denunciare questa vergognosa mistificazione storica, che continua ancora oggi, sostenuta da tristi figuri che sull’«antifascismo» mitizzato e perpetuato all’infinito campano da decenni, sulla pelle di chi è morto giovane per un ideale.

(novembre 2015)

Tag: Simone Valtorta, Seconda Guerra Mondiale, Italiani, Italia, partigiani, Rovetta, Resistenza Italiana, balilla, Legione Tagliamento, 28 aprile 1945, Passo della Presolana, fascismo, Val Seriana, Comitato di Liberazione Nazionale, strage di Rovetta, Servizi Segreti Inglesi, Giorgio Amendola.