La morte del Duce
Al di là delle vulgate, tutto quello che non dissero sulla morte di Benito Mussolini: un cumulo di menzogne per sommergere la verità. Che solo ora comincia a riaffiorare

Si chiama Benito Mussolini, e per tutti è «il Duce» («la Guida»). Per vent’anni la sua parola è stata legge, in Italia; il popolo lo idolatrava, lo amava; all’estero veniva ammirato; tutte le sue decisioni, anche le più avventate, venivano salutate all’unanimità come le migliori. Poi è venuta la guerra, la caduta del suo Governo, l’incarcerazione, la liberazione da parte dei Tedeschi ma più come loro ostaggio che come alleato. Infine, la costituzione della Repubblica di Salò, l’Italia come l’avrebbe voluta: l’ultima utopia, destinata a frantumarsi sotto i cingoli dei carri armati anglo-americani.

La sera del 25 aprile 1945, Mussolini si trova nella Prefettura di Como. Vi è arrivato da Milano, dopo che tutti i tentativi di una resa pacifica si sono infranti contro l’ostilità dei partigiani. La situazione sta collassando, i Tedeschi sono in ritirata, i reparti fascisti ripiegano verso la Valtellina dove hanno progettato di asserragliarsi per l’ultima, eroica difesa. Mussolini è indeciso: non ha voluto servirsi dell’aereo che l’avrebbe portato in Spagna per non abbandonare i suoi fedeli, né ha voluto fuggire in Svizzera; il ridotto valtellinese è difficile da raggiungere perché nella valle stanno affluendo i partigiani. Mussolini sa che ha ancora una carta da «spendere» a suo favore, la conoscenza di molte cose compromettenti sugli esponenti politici socialisti che stanno uscendo dall’ombra (e che avranno un ruolo di spicco nella costruzione della nuova Repubblica), documenti vari, e soprattutto le lettere che Winston Churchill gli ha inviato durante i mesi della cobelligeranza italiana. Che cosa vi fosse scritto in quelle missive, non è dato sapere: subito dopo la guerra, sir Winston si recò in «vacanza» sul lago di Como, nei luoghi che avevano visto la fine di Mussolini; portava con sé una valigetta diplomatica nera, che giunse in Italia vuota e ripartì dall’Italia piena, eludendo – in qualità di bagalio diplomatico – i controlli della dogana. Da quel momento, il carteggio Mussolini-Churchill scomparve, con tutti i suoi segreti. Certo è che doveva tenere informazioni «scottanti», che probabilmente avrebbero potuto danneggiare più d’una persona. Sembra, per esempio, che testimoniassero un progetto alleato di reinsediare Mussolini al potere, a guerra finita, in funzione anticomunista (lo stesso statista inglese aveva affermato che era stato Mussolini ad aver salvato l’Europa dal bolscevismo); l’Ambasciatrice Americana in Italia tentò, negli anni Cinquanta, di far mettere fuorilegge il Partito Comunista, così come era stato fatto col Partito Fascista, ma fallì nello scopo.

Torniamo a Mussolini. Il giorno dopo si trasferisce a Menaggio, seguito dai gerarchi, da alcuni militi, dal tenente tedesco Fritz Birzer (che aveva ricevuto ordine da Hitler di non perderlo mai d’occhio), da Claretta Petacci – che lo aveva raggiunto e si rifiutava di lasciarlo – e da alcuni civili. Nella notte dal 26 al 27 aprile, percorrendo la strada Regina sulla sponda occidentale del Lago di Como, si imbatte in un reparto tedesco che ripiega verso l’Alto Adige e vi si aggrega. Di mattina, poco prima dell’abitato di Musso, l’autocolonna viene bloccata da uno sbarramento di tronchi e pietre collocato da partigiani comunisti, che sparano anche una raffica intimidatoria senza colpire né fascisti né Tedeschi, ma uccidendo un operaio di una cava vicina. Birzer convince un riluttante Mussolini a indossare un pastrano da caporale e un elmetto della Wehrmacht, ma anche così camuffato il Duce viene riconosciuto e preso prigioniero.

La situazione per i partigiani non è facile: dopo lo sfondamento della Linea Gotica, sia gli Inglesi che gli Americani hanno inviato squadre per catturare Mussolini, anche se forse per motivi diversi; la consegna del Duce agli Alleati è comunque una delle clausole dell’armistizio dell’8 settembre 1943. Per impedire che il Duce cada nelle mani degli Alleati, i capi della Resistenza decidono di fucilarlo subito e senza processo. Fin qui, va tutto bene. Poi, cominciano i guai. Per lo storico, s’intende.

Seguiamo la versione ufficiale degli avvenimenti. A uccidere Mussolini viene deputato Walter Audisio, alias «colonnello Valerio», un «compagno» di provata «fede», prepotente e – a detta di chi lo conosce – col cervello non del tutto a posto, guidato da una volontà fanatica, isterica e feroce, e assetato di sangue. Ha raccontato di essere andato a Giulino di Mezzegra nella cascina dei contadini De Maria, un fabbricato rustico a mezza costa dove erano tenuti prigionieri Mussolini e la Petacci; di aver fatto credere loro che era lì per liberarli. In realtà, aveva già adocchiato il luogo per l’esecuzione: una curva, un cancello chiuso su un frutteto, la casa sul fondo – Villa Belmonte – palesemente deserta. Mussolini vestiva un soprabito color nocciola, la Petacci scarpe nere scamosciate dai tacchi alti. Giunti sul luogo, Audisio lesse un foglio: «Per ordine del comando generale del Corpo Volontari della Libertà sono incaricato di rendere giustizia al popolo italiano». Ricordò: «Con il mitra in mano scaricai cinque colpi su quel corpo tremante. Il criminale di guerra si afflosciò sulle ginocchia, appoggiato al muro, con la testa reclinata sul petto. La Petacci, fuori di sé, stordita, si era mossa confusamente, fu colpita anche lei e cadde di quarto a terra. Erano le 16.10 del 28 aprile 1945».

Questo è quanto. Il problema è che Audisio della morte di Mussolini dà almeno quattro versioni, concordanti nell’essenza ma discordanti in alcuni particolari non trascurabili. Versioni diverse sono date da Lampredi e Moretti, gli altri partigiani che accompagnano Audisio. Non solo: in sede di ricerca storiografica c’è chi indica in Moretti l’uccisore del Duce, chi in Longo (che forse era sul luogo, forse non c’era), Longo punta il dito contro Lampredi; qualcuno accenna all’intromissione di un Inglese, incaricato di recuperare il carteggio Mussolini-Churchill. Anche sul contegno tenuto da Mussolini non c’è accordo: Audisio afferma che il Duce tremava e balbettava, ma dei suoi due accompagnatori uno ribatte che si aprì il cappotto e indicò il petto dicendo: «Mirate qui!», l’altro risponde che morì gridando: «Viva l’Italia!». Gli unici punti di accordo delle varie versioni sono il luogo dell’esecuzione (Giulino di Mezzegra, davanti a Villa Belmonte), la lettura della condanna a morte e le ore (le 16 circa del pomeriggio). Questa ricostruzione dei fatti è però del tutto inattendibile, completamente falsa. Mussolini fu ucciso altrove, senza nessuna lettura di sentenze e al mattino.

Il Professor Pierucci ha guidato recentemente un gruppo di ricerca di Pavia per cercare di scoprire la verità. Non è stato facile, dato che non abbiamo un corpo di Mussolini, ma solo delle foto fatte all’epoca e un referto medico che non è neppure un’autopsia. Dalle foto, visualizzate anche con tecniche moderne e ingrandimenti al computer, si nota che il cappotto vestito da Mussolini non presenta, in corrispondenza dei fori dei proiettili sul corpo, alcun buco: non c’è il minimo segno di una qualche apertura. È chiaro che il cappotto gli è stato infilato in seguito, e così pure gli stivali, questi quando il corpo aveva già iniziato a irrigidirsi. Gli stessi fori dei proiettili indicano che il Duce fu ucciso da più persone, che sparavano da diverse angolature, al petto e da una distanza di 30-40 centimetri, praticamente a bruciapelo (lo indicano le macchie provocate dalla polvere da sparo); uno dei proiettili ha perforato il braccio destro, che Mussolini aveva probabilmente alzato di riflesso per proteggersi, segno che non si aspettava di essere ucciso. Tutti i proiettili mostrano un foro di entrata e uno di uscita, tranne uno, rimasto nel corpo; dopo la sepoltura, le spoglie di Mussolini sono state dissepolte per prelevare quell’ultimo proiettile, forse perché non appartenente a una delle armi in dotazione dei partigiani: era forse un’arma inglese? Questo ci porterebbe a ipotizzare la presenza del misterioso personaggio di cui si è già detto, interessato a recuperare i documenti tanto cari a Churchill. E Claretta? Non ha subito alcun processo, non è stata condannata e, a dir la verità, contro di lei non è stata formulata alcuna accusa. Viene assassinata perché sa troppo o ha visto troppo? Scriverà Chirchill, il 10 maggio dello stesso anno, che «l’uomo che assassinò Mussolini ha fatto una confessione, pubblicata nel “Daily Express”, nella quale si vanta del metodo proditorio e codardo della sua azione. In particolare ha detto di aver fucilato l’amante di Mussolini. Era essa forse nella lista dei criminali di guerra? Aveva egli avuto da qualcuno l’autorizzazione di fucilare questa donna? A me sembra che la mano chiarificatrice dell’autorità britannica dovrebbe svolgere un’inchiesta al riguardo» (inchiesta che non ci sarà mai).

Alla fine degli anni Novanta una testimone, Dorina Mazzola (all’epoca diciottenne) racconta di aver visto, dalla finestra di casa, un uomo vestito solo di una maglietta bianca e zoppicante che viene portato via; dopo poco l’uomo è riportato indietro, sorretto da due tipi e con la testa ciondoloni, morto; lo segue una ragazza (Claretta Petacci), che giunta a un bivio della strada tenta la fuga ma viene raggiunta da una raffica di mitra alla schiena. La fucilazione, secondo questa testimone (considerata altamente attendibile) sarebbe avvenuta a qualche centinaio di metri da Villa Belmonte, ma non proprio davanti. E non era pomeriggio: erano le 10 del mattino.

Perché si modificarono pesantemente i fatti? Probabilmente, per dare una spolverata di «legalità» all’assassinio: un Mussolini processato – anche se in modo farsesco – e fucilato secondo le regole poteva essere presentato come un atto comprensibile, anche se contrario alle clausole dell’armistizio. Un Mussolini trucidato a sangue freddo, come avvenne nella realtà, stava a significare in modo fin troppo evidente che lo si voleva solo mettere a tacere, impedirgli di parlare, di dire ciò che sapeva. Gli si voleva impedire l’autodifesa, anche se solo a parole; forse perché sapeva molte cose che si preferiva rimanessero nascoste; forse perché si paventava che la sua difesa sarebbe stata efficace e gli avrebbe salvato la vita. Forse per entrambe le cose. Se avessero pensato che Mussolini era stato ucciso perché doveva essere messo a tacere, gli Alleati avrebbero potuto aprire un’inchiesta, scavare fino a trovare ciò che i partigiani (e il Partito Comunista) non volevano si trovasse. Così, il nuovo corso dell’Italia, di un’Italia democratica e repubblicana, si fondò su un delitto obiettivamente atroce – per non parlare dell’uccisione ignobile di Claretta, una ragazza del tutto innocua – e su una falsificazione della storia. Davvero niente male, come inizio!

Il resto è cosa nota. Scaricati in Piazzale Loreto a Milano, nella notte tra sabato 28 e domenica 29 aprile, i corpi di Mussolini e di Claretta Petacci vengono esposti al dileggio della folla nella prima parte della mattinata, in un crescendo di oscenità e macabrezza. Stessa sorte seguono le salme dei Ministri fucilati a Dongo il pomeriggio precedente: quella del Segretario del Partito Fascista Repubblicano Pavolini, del Sottosegretario alla Presidenza Barracu (Medaglia d’Oro al Valor Militare), del Ministro dell’Interno Zerbino, del Ministro della Cultura Popolare Mezzasoma, di quello dei Lavori Pubblici Romano, delle Comunicazioni Liverani, del Segretario del Duce Gatti, del suo aiutante Casalinuovo, del Federale di Como Porta, del capitano Calistri, dei giornalisti Utimpergher e Daquanno, del Presidente dell’Istituto di Cultura Fascista Coppola e della Confederazione Fascista degli Agricoltori Nudi, di Nicola Bombacci, di Gelsomini, dell’ex Ministro dell’Africa Italiana Terrazzi, di Marcello Petacci (fratello di Claretta e ucciso nel lago dopo un drammatico tentativo di fuga), infine dell’ex segretario del Partito Nazionale Fascista Starace (prelevato dalle scuole di Viale Romagna, dov’era tenuto prigioniero, e lì giustiziato poco prima; era un vecchio, povero, che non aveva ricoperto alcuna carica nella Repubblica di Salò ma che seppe morire da eroe, gridando: «Viva il Duce»). Attorno alle 11.30, i corpi già deturpati di Mussolini, della Petacci e di altri cinque «giustiziati» sono appesi per i piedi al traliccio del distributore di benzina di Corso Buenos Aires, attiguo alla piazza, come carne esposta in una macelleria. Atto che, suggerito dall’eccessivo accalcarsi della folla verso le salme o voluto – come sembra più probabile – per meglio esporle all’oltraggio collettivo e impedire che vengano in futuro venerate come eroi, cambia ben poco la macabra sostanza. A penzolare a testa in giù, i corpi esanimi restano circa tre ore, senza che né l’Arcivescovo di Milano, Cardinale Schuster, né i capi della Resistenza lì presenti (Sandro Pertini su tutti) muovano un dito per impedire lo scempio. Sarà un ordine delle autorità americane, entrate da poche ore in città, a far rimuovere le salme intorno alle 14.30. In tutta Italia, prosegue intanto la mattanza di fascisti veri, fascisti presunti o fiancheggiatori, oltre a molte persone che non sono né sono mai state fasciste. Tra gli assassinati più famosi troviamo Arpinati, oppositore di Mussolini, gli attori Osvaldo Valenti e Luisa Ferida (che ha curato alcuni partigiani catturati dai fascisti), il cieco di guerra Carlo Borsani. Più che un’opera di «pulizia politica» (per quanto atroce), è un’orgia di vendette personali – dovute a risentimenti vecchi o nuovi – che di politico non hanno nulla; per molti, denunciare fascisti o far passare per fascisti persone che sanno innocenti, serve anche per farsi dare un «patentino di resistenti» o di persone amiche o collaboratrici dei resistenti che farà comodo esibire nell’immediato dopoguerra.

Indro Montanelli ha paragonato l’esposizione dei corpi di Mussolini e dei gerarchi fascisti a una «turpe scena da “revolución” centroamericana o da colpo di Stato irakeno, che ha disonorato chi la volle, chi la consentì, e la folla eccitata che indecentemente si accanì contro i poveri resti, li insultò, li sputacchiò, li insudiciò in modo ancor peggiore. Infieriva esultante, il “popolo”, su colui che aveva acclamato fino a non molti mesi prima. Cadorna parlò di “sconcio”, Parri di “macelleria messicana”. Secondo Valiani il colonnello americano Charles Poletti, neonominato governatore della Lombardia, approvò invece, dopo avervi assistito, la disgustosa esibizione, da Bocca sorprendentemente definita “atto rivoluzionario su cui si farà dell’inutile moralismo”» (Indro Montanelli-Guido Cervi, Storia d’Italia, volume 47: L’Italia della Liberazione, Fabbri Editori, Milano 1994, pagina 166).

Ha scritto Mussolini nel 1941, quando le sorti del conflitto erano ancora in bilico e non molti ritenevano che il fascismo potesse crollare di lì a pochi anni: «Non ho che un desiderio: quello di essere sepolto accanto ai miei, nel cimitero di San Casciano. Sarei grandemente ingenuo se chiedessi di essere lasciato tranquillo dopo morto. Attorno alle tombe dei capi di quelle grandi trasformazioni che si chiamano rivoluzioni non ci può essere pace. Ma tutto quello che fu fatto non potrà essere cancellato, mentre il mio spirito, ormai liberato dalla materia, vivrà, dopo la piccola vita terrena, la vita immortale e universale di Dio» (in: Romano Mussolini, Ultimo atto. Le verità nascoste sulla fine del Duce, Rizzoli, Milano 2005). Aveva ragione!

(giugno 2020)

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