La mafia e gli Americani
Perché la mafia, debellata da Mussolini, è tornata a mettere radici in Italia

Il 10 luglio 1943 i mafiosi siculi aprirono le coste ai cosiddetti liberatori e la battaglia durò 38 giorni. Gli invasori furono accolti con tutti gli onori e tre ufficiali britannici, all’inizio dell’inferno di fuoco, vennero cordialmente ricevuti dai maggiorenti della campagna tra Pachino e Siracusa.

Gli Angloamericani, guidati dal maresciallo Harold Rupert Alexander, con sangue irlandese ed erede dei nobili di Caledon, ebbero un gran numero di perdite umane, ma anche la buona accoglienza dei Siciliani da secoli vicini alla cultura e al patriziato inglesi e illusi di potersi staccare dallo Stivale e sedere al tavolo dei vincitori a guerra conclusa. Le truppe alleate (così venivano definite dai badogliani) prepararono il terreno facendo leva su complicate e misteriose alleanze.

A confluire in una sorta di intesa politica furono i massoni, l’ala vaticana più vicina a Gian Battista Montini (futuro Papa), gli indipendentisti siciliani, Maria José di Savoia (la mente più illuminata della famiglia reale che frequentava intellettuali come Ugo La Malfa) e, non ultimi, i mafiosi.

Le «coppole storte» presentavano due vantaggi: odiavano il regime fascista, ricordando ancora i colpi inferti dal prefetto Cesare Mori negli anni Venti, e avevano un sacco di parenti importati in America. Tra questi Lucky Luciano, il cui nome vero era Salvatore Lucania, proveniente da Lercara Freddi (Palermo) che aveva il controllo dell’East Side di New York. L’uomo che sarebbe stato definito dal settimanale «Time» «il più grande fuorilegge del XX secolo» sognava di sedere al vertice di Cosa Nostra.

I «bravi picciotti» furono molto utili in Sicilia, dove i tank angloamericani misero in scena la prova generale della nuova Europa. Furono i «carusi» con la lupara a raccogliere informazioni su postazioni e difese: lavoro essenziale visto che a Washington si erano accorti che mancavano mappe civili e militari dell’isola, studi sul profilo della costa e sulla profondità dei fondali. Coppole autorevoli come Vito Genovese, Vincent Mangano e Frank Costello si dettero da fare e utilizzarono anche i pescherecci in spola con il Nord Africa.

Lo stesso Lucky Luciano rivelò (nel 1959) che nell’anno dello sbarco venne ingaggiato un giovane laureato in legge di Patti: si chiamava Michele Sindona.

Nell’isola «invasa da tutti e conquistata da nessuno», gli Angloamericani approfittarono di Cosa Nostra così abile nel controllo del territorio e dei generi di prima necessità, con l’aiuto dei «paisà d’oltreoceano» e la convinzione dei Siciliani che il fascismo era ormai morto.

I Siciliani, e non solo i capibastone o i latifondisti o gli indipendentisti sognatori, fecero a gara per acquisire benemerenze presso il nuovo dominatore. I notabili accolsero con sollievo gli ufficiali anglosassoni, facendo vedere i ritratti degli antenati e far notare che era stata la Sicilia e non l’Inghilterra ad inventare il Parlamento.

Poco importava se il Generale Americano George Patton mostrava la boria yankee: «I Siciliani sono gente allegra, apparentemente paga del proprio disordine e sarebbe un errore cercare di elevarla al nostro tenore di vita, che non apprezzerebbe e di cui non sarebbe soddisfatta».

A conquista terminata, si doveva gestire la parte più difficile. Nasceva il banditismo (2.000 fuorilegge in pochi mesi), mancavano punti di riferimento istituzionali e i mafiosi rialzavano il mento, avendo appreso confidenza con i mitra, dopo secoli di lupara. La mafia veniva guardata con occhio benevolo persino dagli Inglesi, prontissimi nel bere la frottola della presunta «onorata società» e dei presunti «uomini d’onore».

Si dette la stura a giochetti politici destinati a lasciare traccia nel futuro e non per caso nel febbraio del 1944 sulla Balilla nera che arrancava sulla strada per Montelepre c’era un uomo con i Ray-Ban e con la divisa americana. Era Vito Genovese, ben inseritosi nella corte del vice governatore della Sicilia liberata, l’Americano Charles Poletti.

Genovese era amico di Salvatore Giuliano, il bandito numero uno e considerato un’arma da usare contro i comunisti.

Genovese era divenuto commendatore della Corona per aver ordinato l’uccisione, a New York, di Carlo Tresca, giornalista anarchico e antifascista; poi fece affari con Poletti nell’import-export, insomma sempre alleato col potere a condizione di trarne vantaggi.

Molte «coppole storte» divennero sindaci e Sindona riuscì ad ottenere una lettera di raccomandazione dal Vescovo di Messina presso la Curia di Milano. Era l’inizio di una carriera.

Non solo i mafiosi accolsero a braccia aperte i «liberatori» ma anche le donne diedero il benvenuto ai militari che lasciarono loro, per ricordo, dei bambini, dalla pelle anche nera.

Curzio Malaparte, nel suo libro La pelle ci rende edotti di quei tempi lontani, ma sempre nella memoria di chi ha assistito alla vergogna del comportamento di parte degli Italiani, sia maschi che femmine.

(maggio 2014)

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