La lunga notte di Alessandria
Un’operazione progettata, pensata, eseguita con sangue freddo ed efficienza, che «affondò» la flotta inglese nel Mediterraneo e ispirò gli Stati Uniti per la costituzione dei Navy Seals

È la sera del 18 dicembre 1941 e il sommergibile italiano Scirè naviga in silenzio verso l’Egitto, sopra un mare calmo e in una notte che si annuncia senza luna. Viene dall’isola greca di Lero ed è pilotato dal capitano di corvetta Junio Valerio Borghese, comandante del reparto subacqueo della X Flottiglia MAS. A bordo, oltre all’equipaggio, ci sono i 10 uomini imbarcati dal sommergibile quattro giorni prima a Porto Lago: il tenente di vascello Luigi Durand de la Penne, il capitano del Genio navale Antonio Marceglia, il capitano delle armi navali Vincenzo Martellotta, il tenente medico Giorgio Spaccarelli, il tenente di complemento Luigi Feltrinelli, i capi palombari Emilio Bianchi e Mario Marino, i sottocapi palombari Spartaco Schergat e Armando Memoli, il palombaro Luciano Savarè.

Luigi Durand de la Penne

Foto di Luigi Durand de la Penne

Sul ponte dello Scirè, chiusi in tre grossi cilindri a tenuta stagna, sistemati uno a prua e due a poppa, ci sono altri bizzarri «passeggeri»: gli uomini li chiamano familiarmente «maiali», ma il loro vero nome è costituito dalla semplice sigla SLC (Siluri a Lenta Corsa), seguita da un numero progressivo. I tre «maiali» in questione (SLC 221, 222 e 223) vengono dal porto militare di La Spezia, dal quale il sommergibile è partito il 3 dicembre: sono lunghi 6,7 metri e misurano di diametro 5,33 metri; possono raggiungere una velocità massima di 5 chilometri all’ora e una profondità di 30 metri, e sono in grado di trasportare due uomini, seduti a cavalcioni su apposite strutture. Sono spinti da un motore elettrico sistemato nella parte posteriore; hanno un’autonomia di funzionamento di circa 20 chilometri e portano sulla punta, a prora, una carica di esplosivo di 300 chilogrammi, che viene staccata e appesa sotto la chiglia della nave prescelta, con le spolette a tempo inserite. In questo modo i due operatori possono, all’occorrenza, utilizzare la sezione motrice del maiale per mettersi in salvo, altrimenti devono cercare rifugio a terra. Gli incursori indossano, sopra una normale combinazione di lana da palombaro, una guaina di tessuto gommato detta «vestito Belloni» dal nome del suo inventore; ai piedi portano apposite scarpe zavorrate: solo la testa e le mani sono esposti all’acqua. Il respiratore è un apparecchio a ossigeno, con filtro depuratore di calce sodata, che garantisce un’autonomia di 6 ore, mentre la maschera è costituita da un facciale anatomico con lenti indipendenti e boccaglio incorporato. Ogni uomo è inoltre dotato di una bussola da polso, adeguatamente schermata per evitare l’influenza della massa magnetica del maiale e delle bombole, e un orologio con il quadrante fosforescente.

Siluro a lenta corsa

Uno dei tre S.L.C. (Siluri a lenta corsa) in azione

Lo Scirè procede in immersione, a una quota di oltre 100 metri, strisciando sul fondo per schivare le mine ormeggiate in gran numero a una ventina di miglia dal porto di Alessandria d’Egitto. Quando il fondale inizia ad alzarsi, la navigazione diventa più difficoltosa: guidato solo dall’ecoscandaglio, che gli segnala gli ostacoli incontrati sul suo cammino, il sommergibile si avvicina alla costa. Nel punto prestabilito, a circa due chilometri dal fanale del molo di ponente del porto di Alessandria, dopo che il comandante Borghese ha avuto la conferma via radio che gli obiettivi si trovano ancora nei punti segnalati, fa emergere dall’acqua la torretta; ne escono alcuni uomini in tuta di gomma, muniti di autorespiratori, che senza far rumore si calano in mare. Pochi istanti più tardi la torretta sparisce: lo Scirè è tornato a immergersi per andarsi a posare sul fondo; qui, a 15 metri di profondità, i tre «maiali» vengono estratti dai cilindri e messi in moto. Sul primo di essi sale Durand de la Penne con Bianchi, sul secondo Marceglia con Schergat, sul terzo Martellotta con Marino. I quattro uomini dei due equipaggi di riserva li aiutano a prendere il largo. Poi il sommergibile riaffiora, li raccoglie, torna a immergersi e si allontana. Sono le 20.47.

Quella appena iniziata è l’Operazione G.A.3, la più importante tra quelle compiute dagli incursori della Marina Italiana durante la Seconda Guerra Mondiale, e una delle più devastanti nella storia della Marina di tutte le Nazioni. Il piano prevede l’affondamento delle corazzate di Sua Maestà Queen Elizabeth e Valiant; nel porto di Alessandria sono anche presenti 12 petroliere, per un totale complessivo di 120.000 tonnellate di nafta, per cui il successo pieno della missione potrebbe trasformare tutto il porto in un gigantesco rogo (agli incursori sono state date piccole bombe incendiarie galleggianti da disseminare ovunque), con un tremendo colpo per le risorse inglesi. Ultimata l’operazione, è previsto che gli uomini raggiungano a nuoto la riva, rubino una barca da pesca e si rechino all’appuntamento con un sommergibile italiano, il 24 dicembre.

Alessandria d’Egitto è un centro di importanza fondamentale per il possesso delle rotte del Mediterraneo Centrale e Orientale: è, con Gibilterra, uno dei due pilastri della flotta inglese per la difesa di Malta, la base d’operazione di soccorso alla Grecia (e di successivo sgombero dalla penisola ellenica e da Creta del corpo di spedizione inglese) e la principale base di rifornimento dell’VIII Armata Britannica. La «Mediterranean Fleet» al comando dell’Ammiraglio Andrew Cunningham, di base ad Alessandria, è costituita da una portaerei, tre o quattro corazzate, cinque o sei incrociatori, due squadre di siluranti e una decina di sommergibili: riesce ad operare due felici operazioni contro Taranto e Capo Matapan, ma subisce gravi perdite, tanto che nel dicembre del 1941 è ridotta a due sole corazzate (la Queen Elizabeth e la Valiant, appunto; un’altra corazzata, la Nelson, è stata messa fuori combattimento il 27 settembre da aerei italiani), e a pochi incrociatori e cacciatorpediniere. L’accresciuta consistenza delle forze aeree tedesche in Sicilia e l’ingresso degli U Boot germanici nel Mediterraneo rendono ancor più critica la situazione. Alessandria d’Egitto perderà la sua importanza solo alla fine del 1942, quando l’Operazione Torch assicurerà agli Alleati i grandi porti del Marocco e dell’Algeria come punto di partenza dell’offensiva finale in Africa Settentrionale.

Ma torniamo al 18 dicembre 1941. Il capo dei sei incursori è Luigi Durand de la Penne, un bel giovane atletico di 27 anni, alto 1 metro e 80 centimetri. Nato a Genova l’11 febbraio 1914, si è arruolato nella Marina Militare a soli 19 anni frequentando l’Accademia Navale di Livorno; a 26 anni, nel 1940, ha partecipato col grado di sottotenente di vascello alla prima operazione dei mezzi d’assalto della Marina Italiana contro la base di Alessandria, distinguendosi per un grande gesto di altruismo, cioè cedendo il suo respiratore a un marinaio e aiutandolo ad uscire dal loro sommergibile affondato da un siluro britannico; in seguito ha tentato due volte di forzare la base navale di Gibilterra, purtroppo senza successo la prima volta perché le unità britanniche scelte come bersaglio hanno lasciato il porto, e la seconda volta per dei difetti nel funzionamento dei «maiali» e nell’equipaggiamento degli operatori (tute, respiratori e via dicendo). In procinto dell’impresa di Alessandria, in cui le probabilità di salvezza sono minime, gli è stato consigliato di far testamento e impaccare le proprie cose perché possano essere spedite a casa; e, poiché nessuno degli ufficiali partecipanti ad azioni come questa deve essere sposato, celebra in segreto le nozze con Valeria Butti, una bella ragazza che appartiene ad una cospicua famiglia genovese. Ora, ordina ai suoi uomini di navigare in superficie lungo la diga del porto di Alessandria.

Per quasi due ore i tre siluri procedono in formazione; alle 22.30 si trovano davanti all’imboccatura del porto. Il mare si mantiene calmo, la temperatura dell’acqua è sui 18 gradi; la notte appare così serena che si distinguono chiaramente le sagome delle navi alla fonda. Visto che la manovra di avvicinamento si è conclusa in anticipo sulla tabella di marcia, resta il tempo per uno spuntino: gli uomini aprono i loro tubi portaviveri a tenuta stagna e consumano la cena a base di pollo freddo, pane e piccole bottiglie di spumante, per essere in forze quando dovranno far saltare in aria le corazzate.

Mezz’ora dopo, Durand de la Penne dà l’ordine di ripartire, continuando la navigazione in superficie per risparmiare la riserva di ossigeno. Verso mezzanotte cominciano a sentirsi, vicinissimi, gli scoppi delle bombe di profondità che gli Inglesi fanno esplodere, a intervalli, per proteggersi dai sabotatori. Intanto, navigando con la sola testa fuori dall’acqua, gli equipaggi dei tre siluri sono arrivati agli sbarramenti che bloccano l’accesso al porto; c’è un motoscafo che va avanti e indietro lanciando bombe di profondità, i cui effetti sono molto dolorosi per gli uomini immersi nell’acqua.

Per superare la rete d’acciaio che chiude l’imboccatura del porto i «maiali» hanno cesoie pneumatiche, ma sono rumorose, e alle reti, in molti punti, sono sistemate cariche esplosive. Racconterà in seguito de la Penne: «Stiamo studiando come superare gli sbarramenti, quand’ecco il primo colpo di fortuna: le luci che indicano i passaggi navigabili si accendono per dare via libera a una formazione di tre grossi cacciatorpediniere. La nostra decisione è immediata: ci metteremo nella scia delle navi nemiche e scivoleremo dietro di loro nel porto». La rete di sbarramento viene aperta e il motoscafo a protezione del porto, che lancia le bombe subacquee, interrompe la sua opera, facendosi da parte. La manovra dei «maiali» riesce, ma de la Penne, entrato nella scia del secondo caccia, perde il collegamento con gli altri due equipaggi – d’ora in poi, ognuno dei siluri avrà una sua storia.

«Cerchiamo la nostra nave» continua a raccontare Durand de la Penne. «Superiamo due incrociatori, la nave da battaglia francese Lorraine, e finalmente eccoci sul bersaglio: sono esattamente le 2 del 19 dicembre 1941 e mi trovo a 30 metri di distanza dalla Valiant». La Valiant è una corazzata di 30.600 tonnellate, con 8 cannoni da 381, 14 cannoni da 152 e 1.700 uomini di equipaggio; una rete antisiluro la ingabbia da tutti i lati. È troppo pesante per alzarla, così i due sommozzatori la scavalcano con tutto il «maiale» e si immergono. Il freddo è intenso, gli indumenti speciali di de la Penne fanno acqua.

Il miglior punto per piazzare la carica esplosiva è sotto la torre numero 1. Per verificare un’ultima volta la posizione, Luigi Durand affiora, svolgendo un rotolo di cavo che gli serve da guida per tornare al «maiale». «Dopo un po’» ricorda ancora de la Penne «urto contro la carena. È arrivato il momento per il quale mi sono preparato con tanta cura: non devo far altro che fermare l’apparecchio, collegare tra loro con una cima le alette di rollio, attaccare la testa carica al centro del collegamento, avviare la spoletta a orologeria, e poi sarà quel che Dio vorrà. Ma il freddo mi ha paralizzato le mani e non riesco a fermare il motore. Il “maiale”, non più governato, si allontana, precipita sul fondo e finalmente si ferma a 17 metri dal livello del mare».

Forse, de la Penne avrà pensato di aver fallito la missione: il palombaro Bianchi è scomparso lasciandolo solo, con una carica di dinamite capace di far saltare in aria una corazzata ma col «maiale» immobile e piantato nel fango. La testa esplosiva di 300 chili di esplosivo è ancora a una trentina di metri dalla posizione prescelta. Con le mani nude, intirizzite dal freddo, de la Penne comincia a trascinare lentamente nella melma, centimetro dopo centimetro, il pesante carico: «L’apparecchio si muove di qualche centimetro» ricorda. «Non riesco a distinguere la bussola a causa delle nuvole di fango che sollevo lavorando. Ripeto la manovra. Sento una pompa alternativa e mi dirigo su di essa. Dopo qualche minuto sono tutto sudato. Gli occhiali sono appannati e non vedo più nulla. Mi fermo e tento di pulire gli occhiali per verificare la rotta. Durante questa operazione allago la maschera. Provo a scaricare l’acqua dall’interno e non ci riesco. Devo quindi berla... Sono tormentato dalla sete e dal pensiero di come potrò fare il lavoro in carena. In qualche momento mi sembra di non poter continuare per l’eccessiva fatica... Dopo 20 minuti circa mi fermo e mi riposo un po’: riesco a leggere la rotta che è quella voluta. La profondità è ora di 14 metri. Ricomincio a trascinare l’apparecchio... Le pieghe del vestito mi fanno molto male. Sento che mi avvicino a causa dell’aumentare dei rumori della nave. Gli ultimi metri sono i più duri: lavoro meccanicamente senza capire dove sono e cosa faccio... Sono passati circa 40 minuti da quando ho cominciato. I rumori sono ora molto più forti, e finalmente urto con la testa contro lo scafo». De la Penne ce l’ha fatta: la carica esplosiva è proprio sotto il ventre della nave, ad un metro e mezzo dallo scafo (non attaccata, ma comunque letale per la nave, a meno che gli Inglesi non provvedano a spostarla di qualche metro)! Il sommozzatore regola le spolette a tempo (tre ore per lo scoppio) e torna a galla quasi sul punto di perdere i sensi, liberandosi del respiratore e muovendo l’acqua leggermente: il rumore mette in allarme le vedette sulla coperta della Valiant. Qualcuno chiama l’uomo in mare; de la Penne cerca di allontanarsi a nuoto, quando un proiettore lo illumina dall’alto e una scarica di mitra lo costringe a mettersi al riparo sulla boa di un’àncora. Qui de la Penne trova Bianchi, che si è sentito male per un guasto all’autorespiratore, è svenuto e ora sta iniziando a riaversi. Poco dopo un motoscafo inglese li raggiunge e i due uomini vengono fatti prigionieri.

Sono le 3 e mezzo. Condotti prima a bordo, poi in una baracca vicino al faro di Ras el Tin, gli Italiani subiscono un inutile interrogatorio da parte di un ufficiale sempre più nervoso e preoccupato – prima Bianchi, poi de la Penne. I due dichiarano il loro grado e consegnano i propri documenti, ma si rifiutano di fornire altre informazioni. Gli Inglesi naturalmente hanno capito che sono sommozzatori e per sapere dove hanno applicato le cariche esplosive ricorrono al solito vecchio espediente: «Bianchi ha già rivelato tutto» dicono a de la Penne; ma lui non abbocca. Alle 4 del mattino un motoscafo riporta gli incursori sulla corazzata e – andato a vuoto un secondo interrogatorio – la scorta li chiude in una cala, pochi metri sopra i 300 chili di esplosivo che essi stessi hanno portato fin lì, sperando di indurli a parlare con la minaccia di farli saltare insieme alla nave. «Gli uomini di guardia sono piuttosto pallidi ma gentili» ricorda de la Penne. «Mi danno da bere del rum e mi offrono delle sigarette. Bianchi, che si è buttato per terra, piomba in un sonno profondo. Io controllo l’ora. Il tempo trascorre inesorabile, mentre intorno a noi regna uno strano silenzio».

A un tratto, un’esplosione fa tremare gli edifici del porto: Martellotta e Marino hanno piazzato le bombe incendiarie sotto una grossa petroliera norvegese, la Sagona, danneggiandola gravemente insieme al caccia – il Jervis – ormeggiato al suo fianco. L’intera poppa della nave viene squarciata dall’esplosione, ma le bombe incendiarie non funzionano. I due incursori hanno guadagnano la riva da pochi minuti, ma mentre si accingono ad uscire dal porto, sono fermati e arrestati dalle guardie egiziane: sono le 5.45.

Intanto, sulla Valiant, de la Penne non perde d’occhio l’orologio. Quando mancano 10 minuti all’esplosione, il prigioniero picchia sul portello della cala e chiede di parlare al comandante della corazzata, il capitano di vascello Charles Morgan (in seguito, Vice-Ammiraglio Sir Charles Morgan). Portato a poppa, davanti a lui, lo informa: «La sua nave salterà in aria fra 10 minuti. Non voglio che degli uomini muoiano inutilmente. Le consiglio di chiamare tutta la gente in coperta».

«Dov’è stata messa la carica?» domanda Morgan. «Se non risponde, sono costretto a rimandarla nella cella». Ma de la Penne si rifiuta di rispondere. Mentre lo riaccompagnano nella cala, per saltare con la corazzata, sente gli altoparlanti che danno l’ordine di sgombrare la nave. Scendendo la scaletta, dice a Bianchi: «Prega. Ormai è andata. Però dobbiamo essere contenti di aver fatto il nostro dovere e con successo». Ma il palombaro non è più con lui: convinti che il suo compagno avrebbe vuotato il sacco, gli Inglesi lo hanno portato via.

«La porta si richiude» continua a ricordare de la Penne. «Sono solo nella cala. Passano alcuni minuti infernali, poi avviene l’esplosione. La nave riceve una fortissima scossa, le luci si spengono, il locale è invaso dal fumo. Io sono tramortito, ma vivo. Salgo la scaletta, trovo il portello aperto, vado a poppa. La nave è tutta sbandata sulla sinistra». Gli Inglesi si alzano in piedi al suo passaggio. Sono le 6.06.

La notte di Alessandria

La notte di Alessandria in un quadro di R. Claudus

Sulla Queen Elizabeth, l’Ammiraglio Cunningham viene svegliato subito dopo la cattura di de la Penne e Bianchi, e ordina personalmente di confinarli nella cala della Valiant, per indurli a parlare. Alle 6.10, mentre sta contemplando il disastro dalla poppa della sua ammiraglia, è buttato all’insù, insieme a tutti coloro che gli stanno vicino, da una specie di pugno ciclopico, e dopo un salto di un metro e mezzo ricade tutto ammaccato: la Queen Elizabeth, sventrata dall’esplosivo, si solleva dall’acqua di qualche centimetro, il locale delle caldaie è devastato e inondato, dai fumaioli sgorgano pezzi di ferro e getti di nafta che ricadono sul porto e sulla Valiant. Marceglia e Schergat hanno completato il piazzamento della carica verso le 3.25, prima degli altri, anche se l’ufficiale ha sofferto di un inizio di avvelenamento da ossigeno con le caratteristiche scosse epilettiche. Allontanandosi, i due vedono una luce della Valiant puntata sull’acqua e temono che qualche cosa sia andata storta ai loro compagni. Toccano terra alle 4.30; si liberano delle tute e cercano una via per uscire dal porto. Raggiunta la strada sono fermati da un soldato sudanese. Il capitano Marceglia gli parla in francese e gli fa credere ch’essi sono marinai francesi che hanno perduto la strada; vengono quindi indirizzati in direzione dell’imbarcadero. All’alba, verso le 6, rovesciano i polsi delle maniche per nascondere i galloni e il collo della giacca all’interno per occultare le stellette. Sentono le esplosioni delle cariche e alle 6.40 entrano nel bar della stazione per rifocillarsi e scaldarsi. Al momento di pagare, con una delle banconote da 5 sterline che hanno avuto dai nostri servizi segreti, il cameriere non accetta la moneta perché non la conosce. Agli equipaggi sono state fornite banconote ormai non più in corso da tempo! I due riescono a barcamenarsi, ma anche per loro scatta l’arresto, alle 17 del 20 dicembre 1941.

Nonostante la cattura degli equipaggi, la missione ha avuto un completo successo (per gli Inglesi si è trattato di più di una battaglia navale perduta), una missione rivolta verso la distruzione degli armamenti e non verso l’uccisione dei nemici: nessun Inglese è rimasto ucciso; forse è anche un modo diverso di concepire la guerra, una guerra generatrice di sofferenze ma in qualche modo «nobile», «cavalleresca». La Valiant rimane immobile fino al marzo 1942 e poi viene trasportata a Durban per altri lavori, che durano più di sei mesi; la Queen Elizabeth non tornerà mai più in attività. Ha scritto Winston Churchill: «Mentre dormicchiavo nel piacevole tepore del sole di Palm Beach e dettavo telegrammi e promemoria mi raggiunse la brutta notizia dell’attacco dei “siluri umani” italiani nel porto di Alessandria […]. Questa disgrazia che si aggiungeva a tutte le altre perdite navali di quel tempo, arrivando in un momento critico, era ancora più incresciosa. Ne compresi immediatamente la gravità. La flotta da battaglia del Mediterraneo aveva cessato di esistere, per il momento»; d’altra parte, Churchill ha tenuto la notizia strettamente segreta e informato il Parlamento Inglese solo nell’aprile del 1942, quando è passato il momento critico per la sua flotta.

Negli stessi giorni del dicembre 1941, mentre il sommergibile Scirè si avvicina ad Alessandria per mettere in atto l’Operazione G.A.3, la Forza K di base a Malta, che controlla tutto il Mediterraneo Centrale, dopo aver evitato i colpi di tre navi da battaglia italiane (senza subire né causare danni) va da sola alla distruzione in un campo di mine. Affondano l’incrociatore Neptune e il caccia Kandakar; gravemente danneggiati gli incrociatori Penelope e Aurora. L’incrociatore Galatea viene affondato dal sommergibile U-557, che si trova nei paraggi; altri sommergibili tedeschi affondano a Gibilterra la portaerei Ark Royal e la corazzata Barham. Otto giorni prima dell’azione di Alessandria, aerei giapponesi hanno affondato al largo delle coste malesi le navi da battaglia inglesi Prince of Wales e Repulse. Il Capo di Stato Maggiore Imperiale Alan Brooke rileva che sono 15 le navi da battaglia inglesi e americane affondate o gravemente danneggiate in un solo mese, «quasi la metà della complessiva marina da guerra alleata in tutti gli oceani». Ci vorrà un anno perché il potere navale inglese nel Mediterraneo sia ricostituito e i rapporti di forza tra l’Asse e gli Alleati vengano invertiti.

Alla fine della guerra, nelle ricostruzioni degli eventi fatte dai giornali, gli stessi Inglesi non possono non avere parole di ammirazione per i marinai italiani, e coi più alti accenti. Il «Sunday Express» scrive: «Nella notte del 19 dicembre 1941, sei uomini cambiarono il volto di una guerra... In quella notte, il potere navale nel Mediterraneo Orientale era stato invertito in senso sfavorevole agli Alleati. Si dubita che mai, nella storia navale del mondo, sei soli uomini siano riusciti a compiere una distruzione così decisiva». Anche l’Ammiraglio Cunningham ha elogiato il valore individuale degli incursori: «Uno non può non ammirare il sangue freddo di questi Italiani: ogni cosa era progettata, pensata, eseguita con la massima precisione e con la massima determinazione». Persino Winston Churchill ha definito l’operazione «uno straordinario esempio di coraggio e genialità». È onorevole ricevere elogi da amici e alleati, ma ancor più onorevole è riceverne dai nemici!

L’impresa di Alessandria non è stata una operazione isolata nel corso della guerra, ma soltanto l’episodio più clamoroso e più fortunato di tutta una serie di azioni, che la nostra Marina attuava con i mezzi d’assalto («maiali» e barchini siluranti, ovvero motoscafi biposto opportunamente armati di due siluri): dal 10 giugno 1940 all’8 settembre 1943, i nostri uomini hanno violato con successo i porti di Gibilterra (5 volte), Alessandretta (2 volte), Suda, Alessandria, el Daba, Algeri, Mersina affondando o danneggiando gravemente 14 piroscafi, 5 cisterne, 2 motonavi, 2 corazzate, 2 cacciatorpediniere, 2 «Liberty», un incrociatore.

Nonostante la Marina Italiana, nel fatidico dicembre del 1941, abbia ormai la supremazia nel Mediterraneo e la possibilità di rifornire senza troppi problemi le truppe dell’Asse in Africa Settentrionale, il momento favorevole viene lasciato scorrere via. Sebbene le fotografie aeree prese il giorno successivo mostrino chiaramente la Valiant sbandata sulla sinistra e la Queen Elizabeth con la prora sommersa (essendo il fondale del porto basso, nessuna delle due navi cola completamente a picco), Mussolini non ritiene che siano seriamente danneggiate e che non possano riprendere la navigazione; la flotta italiana non si addentrerà nel Mediterraneo. A questo inganno concorrono anche gli Inglesi: mentre si lavora freneticamente a 12 metri di profondità, intorno agli squarci delle corazzate, una calma assoluta regna in superficie, si celebra la cerimonia dell’alzabandiera, le caldaie sono tenute in pressione, in coperta si danno concerti e ricevimenti.

Nel frattempo, Luigi Durand de la Penne è mandato al Cairo e poi in Palestina. Fuggito in Siria, viene catturato e imbarcato su una nave diretta in India. Anche dal campo di concentramento indiano riesce a scappare, ma viene ripreso. Ogni tanto riceve lettere dalla moglie; in una di queste lei gli parla delle prodezze di Renzo, il figlio che l’incursore non sapeva di aver avuto.

La fine della prigionia arriva nel 1943, poco dopo l’armistizio tra l’Italia e gli Alleati. De la Penne si schiera quindi con gli Anglo-Americani e contribuisce a sventare il tentativo dei Tedeschi in ritirata di bloccare il porto di La Spezia con un attacco combinato italo-inglese: penetrato nella rada con altri incursori nella notte tra il 21 e il 22 giugno del 1944 al comando di un motoscafo da Turismo Silurante Modificato, danneggia un sommergibile e affonda l’incrociatore pesante Bolzano prima che il nemico possa condurlo all’imboccatura del porto e colarlo a picco per ostruirlo. Per quest’azione di alto valore, Sir Charles Morgan lo propone per una decorazione inglese, che non può venir concessa perché l’Italia, tecnicamente, è ancora in guerra con la Gran Bretagna (il Governo del cosiddetto Regno del Sud è infatti illegittimo, perché l’elezione non è stata ratificata dal Parlamento; «paradossalmente», l’unico Governo Italiano legittimo è quello della Repubblica Sociale Italiana di Mussolini...!).

Nel marzo del 1945, a Taranto, il principe ereditario Umberto di Savoia, dopo aver ispezionato le forze navali che cooperano con gli Alleati, procede alla consegna delle ricompense al Valor Militare. Tra i presenti alla cerimonia c’è il Vice-Ammiraglio Sir Charles Morgan, già comandante della Valiant. Il principe sta per appuntare sul petto di de la Penne la Medaglia d’Oro per il coraggio dimostrato nell’impresa di Alessandria d’Egitto, quando si volge improvvisamente verso il Vice-Ammiraglio Inglese invitandolo a prendere il suo posto, e gli dice: «Venite qua, Morgan. Tocca a voi consegnare questa medaglia». Con un gesto di cavalleresco riconoscimento, Sir Charles Morgan appunta la Medaglia d’Oro al Valor Militare al petto dell’uomo che, due anni prima, gli ha messo fuori combattimento la nave!

Il modello degli incursori di marina italiani fornirà l’esempio agli Stati Uniti d’America per la costituzione dei Navy Seals.

(settembre 2018)

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