Lezioni della storia
Qualche giudizio dei Comandi Alleati sull’8 settembre e sulla difesa dell’onore

Le ricorrenti logomachie, puntualmente ripetute ad ogni anniversario della «liberazione» circa la prassi di salutare romanamente, assieme alle contestuali ed opinabili reazioni delle Autorità italiane in ordine alla «vexata quaestio» del tradimento[1], suggeriscono l’opportunità di un confronto, ricordando quanto fu espresso all’epoca dei fatti, ed anche mezzo secolo più tardi, ad iniziativa anglo-americana: da una parte, sui combattenti della Repubblica Sociale Italiana, e dall’altra sui cosiddetti «cobelligeranti» a fianco degli Alleati dopo l’8 settembre.

Il Generale Dwight Eisenhower, Comandante Supremo Alleato, poi Presidente degli Stati Uniti, avrebbe affermato che «la resa dell’Italia fu uno sporco affare» precisando come tutte le Nazioni abbiano avuto «nella loro storia guerre vinte e guerre perse» ma come l’Italia sia stata la sola ad aver perduto la Seconda Guerra Mondiale con disonore, eliso «soltanto in parte dal sacrificio dei combattenti della Repubblica Sociale Italiana»[2]. Ecco un giudizio davvero impietoso, sebbene riduttivo nel mancato riconoscimento dei tanti atti di valore compiuti dalle Forze Armate Italiane nel primo triennio del conflitto; d’altronde, nella sua qualità di Comandante Supremo, il popolare «Ike» sapeva benissimo che il tradimento era stato perpetrato ai massimi livelli, con un «vulnus» destinato a lasciare una traccia incancellabile nella memoria storica.

Sta di fatto che Eisenhower, a prescindere dalle valutazioni di natura militare, peraltro non sempre oggettive, non aveva un’alta considerazione del contesto politico e strategico italiano, e che il suo pensiero sulla Repubblica Sociale Italiana, peraltro privo di probanti documenti storiografici, appare necessariamente successivo ai tempi dell’armistizio, tenuto conto che la nuova Repubblica si costituì in strutture istituzionali diverse settimane più tardi, e che il suo impegno militare si sarebbe svolto soprattutto nel 1944 e nello scorcio iniziale del 1945.

In dichiarazioni non meno icastiche, moralmente quasi peggiori, il Generale Harold Alexander, Comandante delle Forze Armate Alleate operanti sul fronte italiano, aggiunse che il Governo di Roma aveva deciso di capitolare «non perché si vide incapace di offrire ulteriore resistenza ma perché era giunto il momento di saltare dalla parte del vincitore»[3]. Una specialità, quest’ultima, in cui l’Italia ha dimostrato più volte di primeggiare.

Non basta: nel 1995, ricorrendo il cinquantenario dalla fine della guerra, alcuni ex combattenti britannici proposero all’Ammiragliato di Sua Maestà di conferire un’onorificenza ad alcuni ex ufficiali italiani, «cobelligeranti» con gli Alleati dopo l’8 settembre. Ebbene, nella stizzita e stringata risposta dell’Ammiragliato, fu sottolineato a chiare lettere di non essere sua prassi «onorare dei traditori»[4].

Non è un mistero che – nonostante le «avances» del Governo Badoglio – il contributo strategico delle Forze Armate «sabaude» alla campagna d’Italia sia stato sostanzialmente marginale[5] e che i Comandi Alleati preferirono avvalersi della loro opera nell’ambito dei servizi, non esclusi quelli meno qualificati: ad esempio, non furono pochi, in specie fra i prigionieri della prima ora, coloro che vennero destinati a lavori di facchinaggio, a cominciare dai porti e dalle stazioni. Anche questo fu un effetto del tradimento, a danno precipuo delle classi subalterne e popolari.

Sarebbe pura follia ravvisare nelle «lezioni» impartite dai massimi livelli di parte alleata un simulacro di rivalutazione, o meno che mai, di apologia del fascismo. Nondimeno, è sempre cosa buona e giusta rammentarle a futura memoria, quale esempio di valutazione pragmatica della storia, e nell’ultimo caso, di coerenza con i principi essenziali dell’onore militare. Alla stregua delle norme di diritto internazionale bellico, gli Alleati non mancarono di fucilare i volontari della Repubblica Sociale che avevano svolto attività di «intelligence» nell’Italia occupata[6] ma non ebbero dubbi circa le reali matrici della disfatta italiana.

Oggi si vive in una stagione plumbea, in primo luogo sul piano politico, ed in qualche occasione anche su quello storiografico, dove le vulgate partigiane sulla «parte sbagliata» e tutto quel che segue continuano ad imperversare, come attestano le cronache quotidiane, rendendo sempre più aleatori gli appelli alla riconciliazione nazionale, che pure sarebbero tanto più condivisibili ad oltre un settantennio dai fatti. Non a caso, anche l’antifascismo militante aveva riconosciuto un «fumus boni juris» nella Repubblica Sociale Italiana: basti dire che Ivanoe Bonomi, alto esponente della democrazia italiana e più volte Presidente del Consiglio, nonché patriota e strenuo difensore dell’italianità dalmata dopo la Grande Guerra, non seppe esimersi dal constatare che – comunque fosse – era sostanzialmente caduta una Monarchia ed era sorta finalmente una Repubblica: quella che, anche alla luce dei giudizi alleati, si sarebbe posta il problema prioritario di salvare almeno l’onore.


Note

1 Per un approccio significativo in materia, alla luce dei fatti occorsi in occasione delle ultime ricorrenze, confronta Giannino della Frattina, Saluti romani per Salò: ecco il risultato della politica dei divieti, in «Il Giornale», Milano 30 aprile 2017. Ciò, con specifico riguardo alla mancata autorizzazione di celebrazioni in memoria dei caduti della Repubblica Sociale Italiana, già programmate al Campo Dieci del Cimitero di Musocco (Milano) dove si trova un migliaio delle loro tombe; ed in riferimento alle successive denunzie a carico di quanti hanno reso ugualmente e compostamente gli onori di rito, senza bandiere e senza gagliardetti.

2 La frase di Eisenhower, oggetto di un ampio dibattito storiografico e giornalistico circa il contesto in cui sarebbe stata pronunciata, e soprattutto, circa i suoi contenuti effettivi, è tuttora motivo di interpretazioni non sempre convergenti. Allo stato delle ricerche, è verosimile che provenga da uno scambio personale di impressioni con il suo aiutante navale, e da questi riportata nelle proprie memorie personali (confronta Harry Cecil Butcher, My three years with Eisenhower, New York 1946, 405 pagine), con specifico riferimento al «crocked deal» di cui l’Italia si rese massima protagonista, seppure con la connivenza degli Alleati. Sull’argomento, si veda anche «Acta», anno XXIII numero 3, settembre-ottobre 2009: nella fattispecie, la Rivista dell’Istituto Storico della Repubblica Sociale Italiana conferma che quel giudizio, pur corrispondendo alle valutazioni del Comandante Supremo sul comportamento dell’Italia in guerra, ad esempio nella vile resa di Pantelleria, sia stato oggetto di probabili interpolazioni a posteriori, non esclusa qualche integrazione contraffatta. Per altre interpretazioni verosimilmente meno pertinenti, lo «sporco affare» sarebbe da riferire, invece, alle condizioni particolarmente dure imposte dagli Alleati in sede di armistizio.

3 In tale ottica, è lecito interpretare alla stregua di una fiducia relativa nelle capacità belliche della Resistenza Italiana anche il celebre Proclama Alexander del 13 novembre 1944, con cui il Comandante delle Forze Alleate sul fronte italico invitava le formazioni partigiane a desistere dall’impegno attivo (alla luce di una stagione inclemente e rigida come poche; ma prima ancora, alla stregua della forte preponderanza – di cui gli Alleati si preoccuparono tardivamente – assunta dal Partito Comunista Italiano in seno ai Comitati di Liberazione). Ciò, pur dovendo conservare le armi e non trascurando ogni possibile colpo di mano nei confronti di Tedeschi e fascisti. In realtà, quel proclama ebbe effetti marginali dal punto di vista militare, ma produsse una discrasia di notevole rilievo tra Alleati e partigiani.

4 L’apprezzamento degli Alleati per ufficiali e soldati della Repubblica Sociale Italiana trova conferma significativa nei riconoscimenti morali ai prigionieri «non collaboratori» (nonostante il regime di maggiore durezza a cui vennero sottoposti). Per tutti, valga il caso del Guardiamarina Alessandro Tognoloni in forza alla Decima Mas, Medaglia d’Oro al Valor Militare della Repubblica Sociale, catturato in fin di vita sul fronte di Nettunia, miracolosomante sopravvissuto, curato dal nemico e trasferito nel campo statunitense di Hereford (Texas): dopo una lunga detenzione, prima del rimpatrio il Comandante Americano volle rendere omaggio al suo valore ed al suo senso dell’onore, affermando che, qualora avesse avuto in sorte di essere chiamato nuovamente a combattere, avrebbe voluto ai propri ordini uomini siffatti. Vale la pena di aggiungere che nella vita civile Alessandro Tognoloni è stato un apprezzato architetto, resosi promotore del «Campo della Memoria» in onore dei caduti della Repubblica Sociale Italiana, realizzato in agro di Nettunia.

5 Non mancarono gli episodi di valore anche tra le Forze Armate Sabaude che operarono contro la Wehrmacht in vari contesti del fronte, alle dipendenze strategiche dei Comandi Alleati (si pensi alla battaglia di Monte Marrone ed alle lunghe azioni di logoramento e di rastrellamento in diversi distretti appenninici, con riguardo prioritario ad Emilia e Romagna). Il loro apporto, che soltanto in qualche caso sporadico diede luogo a confronti diretti con le formazioni repubblicane, fu largamente minoritario rispetto a quello degli ex combattenti del Regno d’Italia che preferirono arruolarsi nelle file partigiane, ed a cui venne conferito un numero assai elevato di decorazioni (a guerra finita, quelle della Repubblica Sociale Italiana non vennero riconosciute dal nuovo stato italiano, con una scelta discriminante che non trova riferimenti omogenei nemmeno nei giudizi degli Alleati).

6 Confronta Filippo Giannini, «Sabotatori» della Repubblica Sociale Italiana fucilati dagli Alleati, in «Storia Verità», numero 17, settembre-ottobre 1993 (il testo è disponibile anche in Internet). I volontari in questione raggiunsero l’apprezzabile cifra di 4.000, un centinaio dei quali finì davanti ai plotoni di esecuzione anglo-americani. Il loro ricordo è stato affievolito dalle vulgate circa la parte «sbagliata» ma le pagine che seppero scrivere costituiscono un riferimento permanente a benintesi valori di patriottismo, all’insegna dell’onore. Fra i tanti nomi citati dallo stesso Giannini vale la pena di rammentare quelli dei 13 combattenti della Repubblica Sociale Italiana infiltrati in territorio nemico, tra cui Franco Aschieri – autore di una struggente lettera alla mamma e trattenuto in prigionia fino al compimento dei 18 anni prima di eseguire la sentenza capitale a suo carico – fucilati a Sant’Angelo in Formis (Caserta) fra il gennaio e l’aprile del 1944: la loro età media non arriva ai 20 anni. Qui, prescindendo dalle singole vicende documentate dalla storiografia, vale la pena di sottolineare che gli Alleati rifuggivano volentieri dal «lavoro sporco» delle esecuzioni, affidandolo ad un plotone italiano, quasi ad esprimere, pur nella logica ineluttabile della guerra, sottintesi apprezzamenti per un eroismo destinato a possibile oblio, ma non per questo meno significativo.

(giugno 2017)

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