Guerra civile in Italia (1943-1945)
Contributi critici e spunti di riflessione: vicende storiche e motivazioni dei vinti

Chi furono i vinti della guerra civile che ebbe luogo in Italia dall’autunno del 1943 alla primavera del 1945, senza esclusione di colpi, e con quali motivazioni si schierarono dalla parte «sbagliata» – come da tradizionale definizione delle vulgate? È una domanda sempre pertinente, a cui dopo tre quarti di secolo è tempo di dare qualche risposta per quanto possibile oggettiva, sulla scorta di una storiografia praticamente sterminata, senza escludere la memorialistica divulgativa a uso dei non addetti ai lavori[1].

I vinti risultano tali soltanto a fronte di un giudizio «ex prima facie» sostanzialmente apparente: alla fine, la verità viene alla luce come un fiume carsico, e la conoscenza dei fatti diventa fonte di un giudizio più maturo e finalmente disponibile a comprendere meglio quella stagione agghiacciante, caratterizzata dalla generale scomparsa della «pietas» dovuta ai caduti di tutte le parti. Del resto, anche la storiografia si è andata evolvendo verso interpretazioni meno aprioristiche, pur restando largamente orientata in favore dei vincitori.

Intendiamoci: non c’è dubbio che la Resistenza abbia conseguito la vittoria militare, sia pure con il supporto determinante degli Alleati, ma la parte opposta ha diritto a un giudizio più equo sul piano etico, come venne riconosciuto dall’Onorevole Luciano Violante, uomo di sinistra, nel discorso d’insediamento quale Presidente della Camera dei Deputati pronunciato a Montecitorio nel 1996, dichiarando come fosse necessario comprendere le ragioni di quei ragazzi e «soprattutto» di quelle ragazze che avevano scelto la Repubblica Sociale: a cinquant’anni dai fatti, era un atto dovuto, nel quadro di una storia veramente oggettiva come quella proposta da Benedetto Croce, e due millenni prima da Tacito, ma i dissensi furono molto forti, specialmente in campo comunista.

Gli esempi di vittoria «etica» della parte «sbagliata» sono una miriade, ampiamente documentata – come si diceva in premessa – dalla storiografia e dalla memorialistica. Qualche esempio indicativo? Non fu un vinto Filippo Paliasso, fucilato a Tortona da una banda partigiana il 9 maggio 1945, che prima dell’esecuzione volle abbracciare i suoi nemici, in quanto «non colpevoli» direttamente di quanto facevano, e di comandare egli stesso il fuoco mortale. Non fu un vinto il Colonnello Achille Ragazzoni, caduto presso Chieti in un’imboscata del 26 novembre 1943, che prima di spirare ottenne che non fosse effettuata la rappresaglia. Fu certamente vincitrice morale la signora Carlotta Della Valle, consorte del federale forlivese Arturo Capanni ucciso dai gappisti, che chiese con forza, riuscendo nel commendevole intento, di non fucilare dieci ostaggi alla stregua delle leggi di guerra.

Si potrebbe discutere se siano stati davvero vinti, sebbene uccisi dai partigiani, Giuseppe Solaro, il federale di Torino trucidato in maniera crudelmente spettacolare il 30 aprile 1945 nonostante talune simpatie di sinistra (condivise da altri esponenti della Repubblica Sociale Italiana) e i precedenti tentativi di raggiungere un improbabile accordo con le forze della Resistenza; il Senatore Riccardo Gigante, caduto il 4 maggio presso Castua, nelle vicinanze di Fiume, perché non aveva voluto abbandonare la sua città, in quanto consapevole di essere immune da colpe e, caso mai, di avere acquisito meriti significativi nel lungo esercizio del mandato di Podestà; e una serie interminabile di vittime cui si poteva imputare, al massimo, di avere scelto il campo dell’onore, alla luce di un’opzione che all’epoca costituiva, per tanti Italiani, una variabile obbligata (ma ci furono anche coloro che persero la vita per errore o per inique vendette personali).

Quante furono queste vittime, in larga maggioranza giovani? Nessuno potrà mai saperlo con precisione, diversamente da quanto si può dire per i caduti della Resistenza, che secondo i dati ufficiali della Presidenza del Consiglio sarebbero stati 44.720, cui si debbono aggiungere 9.980 civili. Invece, per quando riguarda i caduti della parte «sbagliata» Gianpaolo Pansa ne ha offerto una stima attendibile nell’ordine delle 50.000 unità, che peraltro era stata anticipata sin dagli anni Sessanta da Giorgio Pisanò specificandola in 54.000 vittime, molte delle quali con nome e cognome, come confermato da più recenti ricerche svolte a cura del Centro Studi della Repubblica Sociale Italiana diretto da Arturo Conti: molte di loro vennero uccise, spesso dopo torture e sevizie, a guerra finita – e talvolta a parecchi mesi se non anche anni di distanza – quando l’orgia di sangue parve travolgere ogni limite, col silenzioso beneplacito degli Alleati. La «caccia al fascista» (con licenza di uccidere) divenne uno sport popolarissimo a guerra finita, non senza proiezioni a lungo termine, dando luogo a episodi tragicamente grotteschi: basti ricordare la partigiana piemontese che avrebbe strappato il fucile a un compagno di lotta per freddare personalmente il vinto – triste esempio della predetta scomparsa di ogni pietà – al grido di «chest’chi lo mazu mi» («questo lo ammazzo io»).

I caduti della guerra civile globalmente considerati furono almeno 100.000, ma alla fine del conflitto, diversamente da ciò che era accaduto a Fiume il 3 gennaio 1921 con la celebre orazione funebre pronunciata da Gabriele d’Annunzio per tutti i morti del Natale di Sangue, non ci fu alcuna conciliazione: anzi, il solco divenne più profondo, tanto che le Medaglie al Valore conferite dalla Repubblica Sociale Italiana vennero revocate (diversamente da quanto accadde in altri Stati divisi dalla guerra mondiale anche al loro interno) mentre dall’altra parte si ebbe un profluvio di decorazioni, e ogni ipotesi di cooperazione veniva prontamente azzerata.

Almeno 3.000 vittime della parte «sbagliata» furono donne, nel cui caso la tragedia venne integrata spesso dagli stupri, che videro colpevoli protagonisti anche gli Alleati, e in modo particolare il Corpo di spedizione francese agli ordini del Generale Juin, resosi responsabile delle cosiddette «marocchinate» che non disdegnavano di usare violenza anche ai maschi, e in modo particolare ai ragazzi, ma persino a qualche sacerdote.

Fra le pagine più note si debbono annoverare quelle sulle violenze in Venezia Giulia, Istria e Dalmazia, concluse, dopo raccapriccianti sevizie, negli anfratti delle foibe, nelle acque dell’Adriatico o nelle fosse comuni (come nei rispettivi esempi di Norma Cossetto, della famiglia Luxardo e dello stesso Riccardo Gigante) completate dalle gesta criminali di partigiani come Ivan Motika, Oskar Piskulic e Avjanka Margetic, protagonisti di un tardivo processo in contumacia a iniziativa italiana concluso con la surreale pronuncia di incompetenza giurisdizionale, perché secondo la Corte i loro delitti si sarebbero compiuti in territori estranei alla sovranità italiana, sebbene questa fosse venuta meno, a seguito del trattato di pace del 10 febbraio, soltanto alla mezzanotte del 15 settembre 1947.

Molti eventi, invece, sono poco conosciuti, come la fucilazione della tredicenne Giuseppina Ghersi, stuprata e massacrata in agro di Savona nelle «radiose giornate» del 1945 a fronte di una falsa accusa di spionaggio, mentre era responsabile della sola colpa di avere scritto un tema d’italiano che era stato oggetto delle attenzioni di Benito Mussolini. Lo stesso dicasi per le gesta dei «franchi tiratori» che a Firenze (ma non solo) continuarono l’impari lotta anche dopo l’arrivo degli Alleati, sparando dai tetti e pagando con la vita una disperata obbedienza alle direttive di Alessandro Pavolini, ultimo Segretario del Partito Fascista Repubblicano, Fiorentino come loro: parecchi furono passati per le armi a Santa Croce, in Piazza della Signoria e sul sagrato di Santa Maria Novella[2], e vennero accusati di avere ucciso persino donne e bambini, cosa smentita dallo stesso Pansa, che certamente non è uomo di destra.

Altrove, la resa dei conti non fu meno drammatica: ad esempio, anche in Veneto e in Lombardia non si contano le pagine di sangue, comprese vere e proprie stragi come quelle – fra le tante – di Schio (Vicenza), Rovetta (Bergamo) e Codevigo (Padova) che vennero perpetrate a guerra finita senza alcuna motivazione, e con l’aggravante di colpire nel mucchio in maniera indiscriminata.

I vinti non hanno dimenticato ma in molti casi non hanno parlato. Anche a distanza di tanto tempo non sono mancate resipiscenze, riservatezza, e talvolta persino la paura. Allora, è la storia, se non anche la cronaca, a parlare per loro, nel quadro di un percorso che non è più quello del semplice revisionismo, ma di una rilettura dei fatti conforme alla realtà «effettuale». Bisogna pur dire che per troppo tempo si era conosciuta soltanto l’altra «metà della luna» con le varie efferatezze che furono compiute anche da parte dei fascisti e delle forze tedesche d’occupazione; ma che si era deliberatamente ignorato quanto fecero i partigiani e gli Alleati, creando una lacuna da colmare all’insegna della verità oggettiva, e giustificandone i comportamenti alla stregua di qualche deplorevole «eccesso».

La contrapposizione tra l’uno e l’altro fronte ebbe momenti di particolare evidenza anche nel Corpo dei Cappellani militari, presenti a sostegno spirituale dei combattenti sia nelle file della Resistenza, sia in quelle del Regno d’Italia prima, e della Repubblica Sociale poi, con il naturale scopo prioritario di portare conforto e parole di speranza in un contesto particolarmente spietato, e di farlo senza distinzioni di parte[3] in un’ottica di cooperazione cristiana, talvolta a prezzo della vita, visto che furono 185 i Cappellani caduti, a fronte di un organico di poco superiore alle 3.000 unità; ciò senza dire del conferimento di 10 Medaglie d’Oro, 64 d’Argento e 128 di Bronzo, a testimonianza degli atti di alto valore in cui il Corpo si distinse con un’incidenza particolarmente elevata. Eppure, l’impegno «super partes» non avrebbe evitato a Cappellani e sacerdoti della Repubblica Sociale Italiana ricorrenti discriminazioni e violenze come quelle perpetrate in quella stagione plumbea a carico dei vinti, senza dire delle condanne, e persino di talune agghiaccianti uccisioni a guerra finita[4].

Molti caduti della cosiddetta parte «sbagliata» trovarono la morte a parecchio tempo dalla conclusione del conflitto, a seguito di processi politici fondati su leggi retroattive, ma nella maggior parte dei casi in base a una «giustizia» quanto meno sommaria, di cui furono vittime taluni esponenti del vecchio regime ma più spesso figure complementari che avevano abbracciato la causa della Repubblica Sociale, pur consapevoli di una sconfitta ormai certa, e che lo avevano fatto per senso dell’onore, per la volontà di non tradire[5], per fedeltà a un ideale in cui avevano pervicacemente creduto, per tradizioni familiari, per avversione a quel comunismo che aveva sostanzialmente egemonizzato le formazioni partigiane, e via dicendo. Un dramma di particolare crudeltà, come si accennava, fu quello di parecchie ragazze appartenenti al Servizio Ausiliario Femminile, che prima di essere uccise furono costrette a subire l’offesa sprezzante del pubblico dileggio, e poi dello stupro.

Ciò significa gettare una nuova luce sul mito della Resistenza quale momento fondante della Repubblica Italiana a opera largamente maggioritaria delle forze di sinistra, e sottintende un giudizio politico, ma prima ancora umano e civile. In realtà, entrambe le parti in guerra furono due minoranze, mentre un’ampia maggioranza rimase alla finestra, con problemi di drammatica urgenza quotidiana, primi fra tutti i bombardamenti, il coprifuoco, la mancanza di taluni servizi essenziali, la casa e il carovita: del resto, le vittime furono innumerevoli anche nell’ambito di questa componente «grigia» finora poco studiata ma, a suo modo, ugualmente protagonista della vita italiana, sia pure in chiave passiva.

La storia, per sua stessa natura, è sempre aperta a nuove scoperte, e in ogni caso a nuove interpretazioni, sulla scorta di alti insegnamenti come quelli di Benedetto Croce o di Renzo De Felice: si pensi, ad esempio, alle diverse esegesi del Risorgimento, della lunga guerra contro i «briganti» meridionali, dell’esperienza coloniale, e via dicendo. Ebbene, i 20 mesi della guerra civile[6] non fanno eccezione, tanto più che costituiscono un nervo ancora scoperto da cui emerge, a più forte ragione, la necessità di una migliore conoscenza e di una riflessione più matura su quel periodo quanto mai difficile e discusso, certamente decisivo per il futuro dell’Italia e degli Italiani.


Note

1 Fra i contributi storiografici di riferimento, prime citazioni orientative possono essere, da una parte, quelle alle opere di Roberto Battaglia, Storia della Resistenza Italiana, 3a edizione, Torino 1965, 684 pagine; e di Ernesto Ragionieri, L’Italia nella Seconda Guerra Mondiale, in Storia d’Italia, volume XII: dall’Italia fascista all’Italia repubblicana, Edizioni Einaudi – Il Sole 24 Ore, Milano 2005, pagine 2.276-2.392, unitamente alla sintesi di Gianni Oliva, La resa dei conti. Aprile-maggio 1945: foibe, Piazzale Loreto e giustizia partigiana, Edizioni Mondadori, Milano 2000, 216 pagine. Sull’altro fronte, è fondamentale l’analisi di Giorgio Pisanò, Storia della Guerra civile in Italia (1943-1945), 3 volumi, Edizioni FPE, Milano 1965, 1.860 pagine; una sintesi suggestiva, in parte a carattere autobiografico, è quella di Carlo Mazzantini, A cercar la bella morte, Marsilio Editore, Padova 1996, 320 pagine. Per quanto concerne le opere a carattere prevalente d’informazione, un ruolo utilmente integrativo deve essere riconosciuto, fra i tanti titoli, a quelle di Indro Montanelli e soprattutto ai romanzi storici di Gianpaolo Pansa, con riguardo prioritario a Sangue dei vinti (Sperling & Kupfer, 2a edizione, Milano 2013, 382 pagine).

2 Si tratta di una vicenda sostanzialmente ignorata, fatta eccezione per qualche breve riferimento a carattere giornalistico piuttosto che storiografico, come in una testimonianza di Vasco Pratolini sul «Politecnico» del 1947, o in quella di Curzio Malaparte, riportata nella Pelle. Nondimeno, lo stesso Battaglia (Storia della Resistenza Italiana, pagina 395) riconosce in tutta sintesi che a Firenze i «franchi tiratori fascisti si batterono a lungo con accanimento» sia pure «degno di miglior causa». Un’interpretazione più moderna, anche in chiave psicologica, alla luce di un «alternarsi poetico di equilibrio e di follia» da cui traggono origine «le opere belle» ma anche le «fazioni che comandano all’arte e ai popoli» è quella datane dall’Onorevole Giuseppe Niccolai nella commemorazione di Berto Ricci – il celebre fascista dissidente nonché uomo di lettere e di pensiero – tenutasi nel 45° anniversario della tragica morte quale Volontario in Cirenaica (Quaderni del Circolo «La Quercia», Berto Ricci, Lascialfari, Firenze 1986, pagine 13-16).

3 «Prova dell’amore sono le opere». Proprio per questo, «non rendiamo male per male, ma amiamo anche i nemici». È la categorica affermazione di un Cappellano della Divisione Tridentina che aveva confortato i moribondi di entrambi gli schieramenti, ormai affratellati nell’estremo sacrificio sui campi di battaglia della Croazia; poi esule da Zara, irredentista convinto ed espressione di un intenso volontariato (Don Luigi Stefani, Non sono un teologo, Pucci Cipriani Editore, Firenze 1973, pagine 224-225).

4 Vennero sottoposti a giudizio anche i Cappellani militari della Repubblica Sociale, tra cui il celebre Padre Eusebio, al secolo Sigfrido Eugenio Zappaterreni (1913-1985), forte predicatore e confessore del Duce, condannato a 20 anni perché colpevole di avere sottolineato i valori dell’etica fascista nella stampa dell’epoca, tra cui «Continuità Ideale» e «Crociata Italica», il periodico di Don Tullio Calcagno (scomunicato dal Vaticano e fucilato dai partigiani comunisti in una strada di Milano nel marzo 1945 insieme alla Medaglia d’Oro Carlo Borsani, cieco di guerra, cui ebbe appena il tempo di impartire l’assoluzione un istante prima delle scariche fatali): una testata di straordinario successo, con tirature di oltre 100.000 copie. Successivamente graziato a seguito dell’amnistia voluta da Palmiro Togliatti, con lo scopo prioritario di annullare le condanne a carico di partigiani che si erano macchiati di orribili delitti come il tristemente noto Francesco Moranino, Padre Eusebio si risolse a emigrare per dedicarsi all’apostolato in America Latina, tra i poveri di Buenos Aires. Vale la pena di precisare che i sacerdoti uccisi dai partigiani nel corso della guerra civile furono almeno 93, il cui elenco dettagliato, peraltro non esaustivo, è reperibile in Giorgio Pisanò, Storia della guerra civile in Italia (1943-1945), 2° volume, pagine 674-680. Per quanto riguarda specificamente Don Tullio Calcagno, erroneamente rinominatovi quale Don Pietro, conviene aggiungere che al suo dramma fece rapido riferimento anche Roberto Battaglia (Storia della Resistenza Italiana, pagine 315-316) sottolineandone l’opera di «accesa propaganda a favore del fascismo» e la dissociazione dalle direttive fornite ai Cappellani a cura dell’Ordinariato militare, oltre che dall’Arcivescovo di Milano, Cardinale Ildefonso Schuster.

5 Il problema del «tradimento» avrebbe assunto specifica visibilità con la dichiarazione di guerra alla Germania, proclamata dal Regno d’Italia il 13 ottobre 1943, che finì per assumere, sia pure in via di fatto, anche il carattere contestuale di conflitto civile coi combattenti della Repubblica Sociale Italiana. Quella determinazione ebbe un seguito surreale il 15 luglio 1945, quando venne dichiarata la guerra anche al Giappone, ormai prossimo a soccombere sotto le bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki: atto del Governo Badoglio militarmente inutile e moralmente opinabile di cui – come ha rilevato Giorgio Pisanò – «nessuno si accorse».

6 Il conflitto fratricida da cui l’Italia venne insanguinata fra il 1943 e il 1945 con uccisioni protrattesi ben oltre la fine ufficiale della guerra non costituisce un «quid novi» nella storia del mondo, essendosi distinto, caso mai, per quantità e specialità di talune efferatezze, oltre i limiti proposti dal diritto internazionale bellico: per qualche esempio basti pensare, limitatamente ad alcune fattispecie significative dell’Evo moderno e contemporaneo, alla Guerra di secessione americana, alle lotte fra «bianchi» e «rossi» sviluppatesi in Russia ben oltre la Rivoluzione sovietica, e naturalmente, alla Guerra civile di Spagna. Dal canto suo, l’Italia non fa eccezione: nel solo periodo postunitario si erano già avuti episodi importanti come quello di Aspromonte, dove Giuseppe Garibaldi venne ferito dai «regolari» piemontesi (1864) e come il Natale di Sangue fiumano (1920) quando la «Reggenza Italiana del Carnaro» di Gabriele d’Annunzio e dei suoi Legionari venne cancellata dall’attacco delle forze governative voluto da Giovanni Giolitti, che si concluse con oltre 50 caduti di entrambe le parti. In tutta sintesi, possono esistere forti conflittualità anche all’interno dei confini, sempre in grado di promuovere il ricorso alle armi!

(ottobre 2019)

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