Guerra italo-giapponese (1945-1952)
Genesi e motivazioni di un conflitto surreale

Un episodio storico pressoché dimenticato, ma utile a comprendere il pressappochismo con cui l’Italia non è aliena dal perseguire la sua politica estera, è costituito dalla dichiarazione di guerra al Giappone che venne formalizzata il 15 luglio 1945, senza alcun seguito sostanziale, sia dal punto di vista militare, sia sul piano politico, pur avendo dato luogo a una lunga vicenda diplomatica. Oggi, decorsi tre quarti di secolo, non è inutile fare il punto sugli eventi, non senza qualche riflessione per quanto possibile obiettiva, anche in termini attuali.

È appena il caso di rammentare che la Seconda Guerra Mondiale si era conclusa da due mesi e che l’Italia sorta dalla Resistenza era lontana anni luce dall’idea di ripudiare il ricorso alle armi come strumento di risoluzione delle controversie internazionali, quale sarebbe stato codificato nella nuova Costituzione Repubblicana entrata in vigore nel 1948. D’altro canto, è anche vero che, non diversamente da quanto era accaduto il 13 ottobre 1943 con la dichiarazione di guerra alla Germania, pronunciata dal Governo Badoglio, l’Italia intendeva utilizzare tale strumento per scopi politici, e non certo militari. Ciò, sebbene i due atti fossero avvenuti in evidente difformità: nel caso del Giappone, sarebbe stato impossibile partecipare alle operazioni, non tanto per la lontananza dal teatro di guerra quanto per l’indisponibilità di forze armate travolte dalla sconfitta e dalle condizioni imposte in sede di armistizio sin dal 1943, mentre nel caso della Germania il Regno del Sud poteva contare su alcune divisioni che dopo il battesimo del fuoco sul fronte appenninico vennero scarsamente impegnate, in quanto gli Alleati preferirono destinarle ad attività di servizio.

Stando alla storiografia più attendibile, l’idea originaria di scendere in campo contro il Giappone deve essere attribuita all’Ambasciatore Alberto Tarchiani, accreditato a Washington nel febbraio 1945 e destinato a restare nella sede statunitense per un intero decennio[1]. Ciò, nell’illusoria speranza di consentire un recupero sia pure parziale di credibilità da parte dell’Italia, con due obiettivi principali: quello di entrare nella futura Organizzazione delle Nazioni Unite, di cui si iniziavano a porre le fondamenta, e quello di promuovere una soluzione positiva per il problema di Trieste. Al riguardo, Tarchiani si fece portavoce del Presidente del Consiglio Ferruccio Parri e del Ministro degli Esteri Alcide De Gasperi, incontrando a più riprese i Segretari di Stato Joseph Grew, Edward Stettinius e James Francis Byrnes, e lo stesso Presidente Franklin Delano Roosevelt, sorpreso dell’ipotesi riguardante l’iniziativa italiana contro il Giappone, ma non dissenziente[2].

Entrambi gli obiettivi non furono raggiunti, perché occorsero parecchi anni prima che l’Italia potesse far parte dell’ONU, mentre per Trieste venne ipotizzata la soluzione del Territorio Libero, peraltro mai portata a compimento (la città di San Giusto sarebbe stata restituita all’amministrazione civile italiana soltanto nel 1954, mentre il ripristino completo della sovranità ebbe luogo nel 1975). Nondimeno, l’iniziativa della guerra contro il Giappone ebbe seguito formalmente concreto, anche per altre considerazioni strategiche e tattiche, fatte proprie dal Governo Italiano.

Anzitutto, fin dai preparativi della Conferenza interalleata di Potsdam tenutasi in quello stesso luglio si era conosciuto l’intendimento dell’Unione Sovietica, in aderenza alle richieste occidentali – sia pure in opposizione al trattato di amicizia russo-nipponico ancora in vigore – di muovere guerra contro il Giappone che stava resistendo pervicacemente all’offensiva statunitense, non senza episodi di alto eroismo come quelli dei suoi celebri «kamikaze». In tale ottica, si ritenne utile avallare concretamente il nuovo orientamento di Mosca, nella certezza che il ruolo sovietico sarebbe stato determinante nelle complesse trattative per la pace[3].

Sia pure in via subordinata, al di là delle perplessità procedurali espresse dal Vice Presidente del Consiglio Pietro Nenni e dal Ministro della Giustizia Palmiro Togliatti circa la compatibilità della dichiarazione di guerra con le disposizioni del trattato di pace, prevalse la valutazione maggioritaria espressa soprattutto dal Presidente Parri, dall’altro Vice Presidente Manlio Brosio e dai Ministri De Gasperi e Ruini, cui non furono estranei i rapporti pervenuti da Tarchiani circa l’atteggiamento statunitense, nonostante qualche verosimile incompletezza informativa a carattere collaterale[4]. Il resto venne da un residuo apporto di realismo politico, e cioè dalla fondata presunzione che la «guerra» col Giappone non avrebbe comportato alcuna complicazione bellica né tanto meno finanziaria.

Sta di fatto che la dichiarazione ebbe luogo e che venne notificata al Governo di Tokyo col solo risultato di provocare l’internamento della vecchia rappresentanza italiana, rimasta in Giappone anche dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 in condizioni assai precarie, diventate allucinanti dopo l’avvento dello stato di guerra[5]. Non vi furono altre conseguenze di qualche rilievo sul piano politico, né avrebbero potuto esserci alla luce della drammatica vicenda militare ancora in corso, che assunse aspetti da tregenda con l’attacco atomico su Hiroshima e Nagasaki e la resa incondizionata del Giappone (con esclusione della salvaguardia assicurata alla figura e al ruolo dell’Imperatore e con la condanna capitale pronunciata dagli Alleati a carico dei suoi Generali).

Una parte della storiografia ha sostenuto che la guerra italo-giapponese si concluse nel momento in cui si era iniziata, o al massimo, in quello della resa conclusiva, ma non è esattamente così. Infatti, ebbe inizio in tempi successivi una lunga trattativa diplomatica, anche alla luce delle rivendicazioni proposte da parte italiana a proposito delle vessazioni a cui erano stati sottoposti diplomatici e relativi addetti: in tutta sintesi, anche a seguito delle pressioni statunitensi si addivenne a uno scambio di note risolutive tra Roma e Tokyo, recepito nel D.P. 20 aprile 1952 numero 55 e pubblicato nella «Gazzetta Ufficiale» del successivo 28 aprile, mentre per l’accordo economico conseguente si sarebbe dovuto attendere addirittura il 18 luglio 1972, con ratifica dopo un ulteriore triennio[6].

La storia della «guerra» italo-giapponese si conclude con gli atti appena citati, ma in concomitanza col suo 75° anniversario propone alcune riflessioni sempre attuali, almeno sul piano etico e politico. In qualche misura, quel «conflitto» dichiarato e non combattuto può essere definito uno scandalo, ma come tutti gli scandali, non è inutile che sia accaduto, perché contribuisce a implementare scienza storica e coscienza civile circa un episodio che, oltre tutto, non costituisce un «quid novi» nelle vicende italiane: se non altro per il precedente della cosiddetta «coltellata» alla Francia del 10 giugno 1940, quando l’Italia decise di entrare nella Seconda Guerra Mondiale.

A quest’ultimo riguardo, conviene sgombrare subito il campo da ogni possibile paralogismo. In tale occasione, al di là delle complesse valutazioni storiche e delle critiche non infondate circa un atto compiuto in contrasto con una notevole impreparazione, l’Italia poteva contare su forze armate in grado di combattere sul fronte alpino e su quello mediterraneo, come effettivamente accadde a fronte di una vivace resistenza francese, tanto più significativa nonostante il disastro nella «blitzkrieg» contro la Germania. Al contrario, il Giappone del 1945, oltre a distare parecchie migliaia di chilometri, era stato un alleato fondamentale dell’Italia nella «guerra del sangue contro l’oro», cosa che conferiva a quella dichiarata dall’Italia il 15 luglio il carattere di un atto degno di Maramaldo.

C’è di più. Le ragioni che avevano promosso una dichiarazione obiettivamente surreale, che sarebbe passata come l’acqua sui tetti anche nella pubblica opinione dove prevalevano ben altre preoccupazioni come quelle per la casa o per il lavoro, non avevano apprezzabili fondamenti etici: non si trattava di salvare lo Stato, come nella fondamentale intuizione machiavelliana, perché la sua continuità era stata statuita nel pur infausto trattato di pace, mentre le intenzioni governative trascendevano gli scopi proposti nella primigenia iniziativa di Tarchiani e miravano all’acquisizione di benemerenze da parte degli Alleati quale supporto a un potere quanto meno instabile, senza pensare che le forze anglo-americane di occupazione non avrebbero potuto trarre alcun vantaggio dalla decisione anti giapponese dell’Italia, eccezion fatta per un sorriso di compatimento.

A ben vedere, quello del 15 luglio 1945 fu un ruggito del coniglio che non valse a distrarre l’attenzione dagli stringenti problemi del momento, aggravati dalle agitazioni sindacali del movimento operaio e di quello contadino; e nemmeno ad attirare sull’Italia qualche migliore riguardo internazionale sia pure minimo, perché la Conferenza di Potsdam, aperta due giorni dopo, avrebbe indicato le opzioni punitrici riassunte nel trasferimento alla Jugoslavia di Venezia Giulia e Dalmazia e nella cancellazione delle colonie, che la Conferenza di pace dell’anno successivo non avrebbe fatto altro che ribadire.

Quella vibrata al Giappone, per usare un’espressione pertinente soprattutto nel caso specifico, fu una vera e propria «coltellata» con un’arma di cartapesta, e quindi con mera valenza formale, nonché immorale, destinata a rimanere negli annali come un atto tipicamente italiano, della serie «vorrei ma non posso». E in qualche misura, un atto destinato ad abbattere ulteriormente, se per caso ve ne fosse stato ancora bisogno, il minimo grado di considerazione nutrito per l’Italia da parte degli stessi vincitori e riassunto nel pensiero di Dwight Eisenhower, Comandante Supremo delle forze alleate, e in quello di Harold Alexander, Comandante per il fronte italiano[7].

La dichiarazione del 15 luglio 1945 rimane un episodio sostanzialmente marginale nell’economia della Seconda Guerra Mondiale, tanto più che venne a maturazione quando l’Italia ne era già uscita. Nondimeno, rimane un attestato del modo, non certo immune da critiche di natura etica, politica e militare, con cui talune questioni di fondamentale importanza anche sul piano giuridico internazionale vengono impostate e risolte dallo Stato Italiano. Non a caso, in tempi largamente successivi e in presenza della Costituzione che ripudia la guerra si sarebbe fatto ricorso all’intervento militare, sia pure camuffato come misura in difesa della pace, in occasione delle «spedizioni punitive» in Iraq, nel Kosovo e altrove, con tanti saluti ai valori non negoziabili, alla non violenza e ai sacri principi della fratellanza universale.


Note

1 Alberto Tarchiani (1885-1964) fu apprezzato diplomatico di carriera, cui vennero conferiti anche incarichi politici, tra cui quello di Ministro dei Lavori Pubblici nel secondo Governo Badoglio. Inoltre, è stato uno storico certamente attendibile, con particolare riguardo alle memorie concernenti la lunga titolarità dell’Ambasciata Italiana negli Stati Uniti, di cui alla sua opera Dieci anni fra Roma e Washington, Mondadori Editore, Milano 1955, 356 pagine. Nondimeno, uno studio esaustivo sulla cosiddetta guerra dell’Italia contro il Giappone manca tuttora.

2 L’incontro del Presidente Americano con l’Ambasciatore Tarchiani ebbe luogo poche settimane prima della scomparsa di Roosevelt, già invalido da tempo, ma valse a promuovere la credibilità dell’iniziativa italiana negli ambienti diplomatici, anche attraverso il coinvolgimento di Clement Dunn, cui più tardi sarebbe stata affidata l’Ambasciata Statunitense di Roma.

3 La guerra sovietica contro il Giappone venne dichiarata tre settimane dopo quella italiana, all’indomani del bombardamento atomico su Hiroshima, e fu certamente decisiva, assieme al nuovo strumento di morte allucinante, nell’accelerare la resa nipponica e nel definire l’alto spessore etico assunto dalla decisione di Mosca. Al momento dell’attacco (8 agosto) l’Unione Sovietica mise in campo un esercito triplo rispetto all’Armata Giapponese del Kwantung, senza dire dell’assoluta preponderanza di mezzi, con particolare riguardo ad aerei, carri armati e artiglieria, che in pochi giorni ebbero ragione della resistenza opposta dal Giappone sino alla cessazione formale del conflitto (2 settembre).

4 Tarchiani aveva incontrato a Washington anche l’Ambasciatore Sovietico Andrej Gromyko che, dopo essere stato informato della probabile iniziativa italiana, gli rise in faccia, aggiungendo che Trieste sarebbe diventata comunque jugoslava. Da buon diplomatico, aveva compreso subito quali fossero le possibili ragioni prioritarie della mossa di Roma; nondimeno, nell’occasione fu cattivo profeta, sia pure a lungo termine. Un anno più tardi, in sede di conferenza della pace il Ministro degli Esteri Moscovita Vjaceslav Molotov avrebbe rincarato la dose, contestando all’Italia di pretendere qualche medaglia per una guerra che aveva dichiarato ma non combattuto.

5 Una cronaca efficace della vicenda, anche per quanto riguarda i suoi esiti a lungo termine, è quella proposta nell’articolo di Pio D’Emilia, La guerra dimenticata fra Italia e Giappone, in «Occhi sull’Impero» (19 maggio 2015 / on-line). Ciò, anche per quanto concerne la lunga vertenza economica conclusa con un risarcimento nipponico pari a 1,3 milioni di dollari che avrebbe dovuto essere ripartito fra 61 aventi causa ma la cui distribuzione, salvo eccezioni, non ebbe luogo, grazie a una conclusione «all’italiana».

6 La tesi secondo cui la guerra italo-giapponese sarebbe rimasta senza esito formalmente rilevante è stata espressa dallo storico Filippo Giannini nel «Bollettino della Federazione Nazionale Combattenti della Repubblica Sociale Italiana» (2009). In effetti, alla mancanza di uno specifico trattato di pace è stato ovviato, per quanto pertinente, con lo scambio di note citato nel testo (e con i successivi atti giuridici circa gli effetti indotti di carattere privato).

7 In alcuni contesti storiografici è stato dato rilievo a una frase che sarebbe stata pronunciata da Eisenhower, secondo cui l’onore dell’Italia venne parzialmente salvato dalla sola Repubblica Sociale Italiana. Al riguardo, stante l’impossibilità di trovarne traccia scritta nelle memorie ufficiali, sovvengono quelle dell’Aiutante navale del Comandante Supremo: confronta Harry Cecil Butcher, My three years with Eisenhower, New York 1946, pagina 405 (che riporta notizie di uno scambio di impressioni personali tra l’Autore e lo stesso Eisenhower il quale si espresse allora nei termini in questione). Certamente più icastiche furono le dichiarazioni di Alexander nel dire che in occasione dell’armistizio di Cassibile (3 settembre 1943) il Governo presieduto da Badoglio aveva deciso di capitolare «non perché si vide incapace di offrire ulteriore resistenza ma perché era giunto il momento di saltare dalla parte del vincitore» (Carlo Cesare Montani, Lezioni della storia: qualche giudizio dei Comandi Alleati sull’8 settembre e sulla difesa dell’onore, in www.storico.org, Roma, giugno 2017).

(luglio 2020)

Tag: Carlo Cesare Montani, guerra italo-giapponese, Seconda Guerra Mondiale, Pietro Badoglio, Alberto Tarchiani, Ferruccio Parri, Alcide De Gasperi, Joseph Grew, Edward Stettinius, James F. Byrnes, Franklin Delano Roosevelt, Pietro Nenni, Palmiro Togliatti, Manlio Brosio, Meuccio Ruini, Fabrizio Maramaldo, Dwight Eisenhower, Harold Alexander, Clement Dunn, Andrej Gromyko, Vjaceslav Molotov, Pio D’Emilia, Filippo Giannini, Harry Cecil Butcher, Organizzazione delle Nazioni Unite, Conferenza interalleata di Potsdam, Territorio Libero di Trieste, Governo di Tokyo, ONU, incursioni atomiche su Hiroshima e Nagasaki, Costituzione Italiana, Armata del Kwantung, Repubblica Sociale Italiana, Armistizio di Cassibile, resa del Giappone.