Una drammatica testimonianza sulle violenze dei soldati dell’Armata Rossa contro la popolazione civile tedesca durante la Seconda Guerra Mondiale
I civili tedeschi subirono, al pari dei militari, la «vendetta» dei Sovietici durante la loro avanzata in terra germanica

Oggi sono molto conosciute, anche tra chi non è uno specialista nella materia, le atrocità e le violenze commesse dai soldati tedeschi durante la Seconda Guerra Mondiale nei territori che cadevano sotto il loro controllo: deportazioni, paesi distrutti, stupri, non di rado persone bruciate vive. Molto meno si parla dei crimini commessi dalle truppe d’occupazione sovietiche man mano che occupavano lembi di territorio tedesco nella loro avanzata verso Berlino: soldati da anni rotti a ogni tipo di crudeltà per la dura lotta contro i nemici, aizzati da una propaganda martellante che faceva loro vedere in ogni Tedesco un nemico da eliminare e un oggetto di vendetta per le distruzioni e le crudeltà commesse dalle truppe di Hitler sul suolo russo, sfogavano la loro furia non solo sui soldati in uniforme ma anche sulle indifese popolazioni civili. Si tratta di fatti testimoniati anche da fonti non sospette. Alexander Werth, corrispondente di guerra del «Sunday Times» e filosovietico, ha raccontato che un ufficiale dell’Armata Rossa gli aveva confidato che «in Polonia è accaduto qualche incidente deplorevole, ma in complesso è stata osservata una disciplina rigorosa, soprattutto per quanto riguarda gli stupri. Il reato più comune era quello di depredare gli abitanti dei loro orologi da polso; bisogna dire che i collezionisti di orologi tra i nostri soldati erano numerosi. Ma lo stupro e il saccheggio indiscriminato sono cominciati sul territorio tedesco. I nostri ragazzi erano imbestialiti a tal punto da non fare più alcuna distinzione tra donne di età ormai avanzata. Spesso hanno violentato vecchie di 60, 70, 80 anni. C’era soprattutto stupore tra le vittime, spesso pare che non si lamentassero delle violenze, ma bisogna riconoscere che è stata una ben sporca faccenda. Per quanto poi riguarda in particolare il comportamento dei “kazaki” e di altre truppe asiatiche, esso è stato decisamente ripugnante».

Spingevano a un simile comportamento non solo le innumerevoli violenze compiute dai Tedeschi nelle città e nei villaggi della Russia occupata, che avevano fatto nascere in molti l’idea della «guerra totale» (persino contro gli inermi), ma anche le autorità sovietiche che – di solito tanto rigorose in fatto di disciplina – fino all’aprile del 1945 non fecero nulla per frenare la vendetta dei soldati dell’Armata Rossa sulle popolazioni civili tedesche.

I Russi occuparono la Pomerania Orientale tra l’inverno e la primavera del 1945; la maggior parte della popolazione fu sollevata soltanto all’ultimo momento dal divieto di evacuazione verso l’Ovest, quando già le artiglierie sovietiche sparavano sulle città e sui villaggi, e cercò quindi di fuggire al di là dell’Oder, la più parte a piedi, chi era fortunato con i cavalli da tiro non requisiti dalla Wehrmacht. 100.000 persone si andarono ad aggiungere agli 8 milioni di Tedeschi che cercavano scampo verso Occidente, in un esodo che non aveva precedenti nella storia germanica. Molti non vollero o non poterono fuggire, e su di essi si riversò la collera, la violenza, la voglia di vendetta dei soldati sovietici. La testimonianza che presentiamo è raccontata dalla moglie del medico condotto del villaggio di Woizneck, il dottor Oskar Mackow, nel libro Die sowietische Okkupation des Landes hinter Oder und Neisse di Guenther H. Zahn:

«Le truppe russe giunsero nel nostro villaggio, Woizneck, la mattina del 1° marzo 1945. Quanto accadde fu spaventoso. Molti uomini che volevano proteggere mogli e figlie furono uccisi. Ogni casa venne saccheggiata, ogni donna, dalle dodicenni alle vecchie canute, fu violentata. Il giorno seguente trovammo alcune giovani madri che si erano impiccate insieme alle figlie perché non potevano sopportare più a lungo un simile scempio […].

Altre truppe si riversarono attraverso i nostri villaggi sull’Oder per rubare, saccheggiare, violentare. Molti dei nostri conoscenti fuggirono in dimore solitarie o nelle foreste ma ovunque furono scovati. Una giovane insegnante del villaggio Kriescht, che si era nascosta nella foresta, fu trovata. Completamente nuda fu ricacciata sulla strada dove molti soldati, uno dopo l’altro, abusarono di lei. Passando lungo i fossati, la neve e la palude, strisciando con le mani e con i piedi, raggiunse il villaggio in uno stato tale da quasi più non riconoscerla. Degli uomini pietosi si mossero a compassione. Il parroco di Langenfeld fu accoppato con la famiglia.

Sette giorni dopo che i Russi furono entrati, dovemmo sgomberare il villaggio in 10 minuti. Non riuscivamo a piangere; solo i bambini strillavano. Ci voltammo indietro un’ultima volta a guardare la nostra chiesa e la nostra montagna. 900 persone dovettero andarsene. Da ogni strada affluiva gente; provenivano da altre città e da altri villaggi. Chiunque doveva retrocedere verso Est. Cominciò lo spaventoso periodo del nostro vagabondaggio. Per un paio di giorni trovammo un tetto, poi fummo nuovamente cacciati via. Nelle cucine devastate dei contadini si ammassavano persino 30 persone sul nudo impiantito; stavano nei fienili, nelle capanne di paglia, nelle foreste. Neve e pioggia ci inzuppavano. Chi s’ammalava era perduto, giorno e notte giungevano sempre altri soldati. Saccheggiavano, maltrattavano, violentavano noi donne ovunque ci potevano raggiungere. Di tanto in tanto c’era un Russo che ci trattava amichevolmente, dandoci di nascosto un pezzo di pane. Forse di questi soldati ce n’era più di quanto io sappia. Mai però come in quei giorni ebbi la conferma di quanto il male sia diffuso e di quanto la perversità prevalga sulla bontà.

Il 9 marzo fui caricata su di un autocarro insieme ad altre donne. Dovevamo costruire le piste di decollo per aerei e spaccare pietre, sotto rovesci di pioggia, sotto bufere di neve, dalle 6 del mattino alle 9 di sera; ci accasciavamo lungo la strada. Quando un Russo ci voleva, ci portava da una parte. Mattino e sera ci davano acqua fredda e un pezzo di pane secco; a mezzogiorno una zuppa di patate non sbucciate, senza sale. […] Completamente sfinita alla fine crollai. Mi si rispedì al villaggio. Durò però parecchi giorni prima che potessi raggiungere la meta perché ogni tanto dovevo fermarmi. Quando alla fine giunsi al villaggio dov’ero stata da ultimo con mio marito, altre donne mi dissero che nel frattempo si erano portati via gli uomini dai 15 ai 60 anni. Di questi 2.000 uomini non ne rivedemmo uno solo, né sapemmo nulla di preciso sul loro destino.

Nel periodo che seguì fummo sempre più spesso portate fuori dal villaggio o dovemmo compiere lavori agricoli, livellare i buchi delle strade, trebbiare biade. La nostra sorte era di ricevere maltrattamenti in quantità. Se non servivamo più, ci abbandonavano dove ci trovavamo, sovente dietro le linee del fronte. Dovevamo allora rintracciare i nostri familiari con lunghe marce estenuanti. Spesso però interi convogli di donne e giovani sane venivano stipati in carri bestiame e spediti in Russia. All’ultimo momento riuscii a sottrarmi con la fuga da un simile convoglio di 1.100 fra donne e ragazze dei nostri villaggi.

Quasi non bastasse, sopravvenne la fame. Disseppellivamo le patate dai solchi. In certe cascine di solitarie fattorie abbandonate, a volte trovavamo ancora del grano. Toglievamo le spighe e pestavamo i chicchi. Vecchie e bambini morirono presto. Più preoccupante fu la sorte dei lattanti. Le madri non avevano latte e si doveva assistere alla morte dei neonati. I nostri canti liturgici risuonavano spesso su nuove tombe, e il vento spandeva le tenui voci.

Le madri dovevano sopportare strazi innumerevoli e prodigarsi senza fine. Disperati e piangenti, i bambini tendevano le braccine, i grandi guardavano con muta ira, immobili, quando le madri venivano sospinte verso i convogli destinati alla Russia. Non fu chiesto mai, deportando donne e uomini, quale fosse il loro mestiere o se appartenessero al Partito.

Nelle nostre marce passammo attraverso molte città e villaggi. Quasi ovunque lo stesso spettacolo di devastazione. Non si erano rispettati neppure i cimiteri, i monumenti stavano rovesciati, le fosse calpestate. Più tardi dovemmo tornare nei villaggi sgomberati. Eravamo malate, spossate, miserabili, ma si andava a casa nostra. Molte case erano occupate dai militari, però trovammo posto in abbondanza, perché mancavano tante, tante persone. Ci eravamo abituate agli spaventi, ci eravamo indurite, tuttavia ammutolimmo trovando case insudiciate, stoviglie spezzate, mobilio frantumato, persone e animali putrefatti, biancheria e abiti gettati nelle concimaie.

Le peggiori deportazioni erano ora cessate. Dovevamo ulteriormente lavorare sodo senza nulla ottenere per nutrirci. La tempesta degli stupri però si placò lentamente. Al loro posto vedevamo giornalmente autocarri carichi di persone, per lo più uomini, provenienti dai territori conquistati. Passavano per la strada principale del nostro villaggio diretti a Posen dove si cominciò a caricarli per mandarli in Russia. Stavano in piedi sui carri, pigiati l’uno contro l’altro e ci gridavano parole d’addio.

Poi un mattino giunse un militare polacco, a cavallo. Già ovunque in precedenza erano apparse nei villaggi delle unità della milizia polacca. Saccheggiavano al punto che persino i Russi, ormai sazi, qua e là intervennero. Tutti gli abitanti tedeschi del villaggio furono improvvisamente convocati in piazza. Chi non si affrettò fu strappato da casa a frustate e bastonate. Fummo circondati da uno stretto cordone e dovemmo restare sino al calare della sera sotto l’ardente sole di luglio. Comprendemmo allora che era vero ciò che gli uomini della milizia polacca ci gridavano schernendoci: la Pomerania diventava terra polacca».

(ottobre 2021)

Tag: Simone Valtorta, violenze dei soldati dell’Armata Rossa, Seconda Guerra Mondiale, Alexander Werth, guerra totale, Pomerania, 1945, Oskar Mackow, Die sowietische Okkupation des Landes hinter Oder und Neisse, Guenther H. Zahn, Woizneck, crimini delle truppe d’occupazione sovietiche.