La Decima Flottiglia MAS ed il Comandante Junio Valerio Borghese
Gli uomini della Decima MAS seppero scrivere, durante tutto il corso della Seconda Guerra Mondiale, pagine di autentico eroismo, riconosciuto dal nemico ma, purtroppo, non dai Governi dell’Italia postbellica

Esistono pagine fondamentali della storia d’Italia su cui la storiografia non è stata ancora esaustiva, come nel caso della Decima MAS, anche se non mancano parecchie monografie più o meno d’epoca dedicate a singoli episodi ed a specifiche figure combattentistiche, generalmente eroiche. Ora, una nuova opera, assai documentata ed esauriente ma non priva di un coinvolgimento a tratti appassionato[1], ha inteso colmare una lacuna di notevole dimensione restituendo visibilità ad una grande formazione militare di altissimo valore individuale e collettivo, che fu operante durante la Seconda Guerra Mondiale, dapprima sotto le bandiere del Regno d’Italia, e poi nei venti mesi della Repubblica Sociale.

Pur dedicando attenzioni maggioritarie all’ultimo biennio del conflitto, il nuovo studio sulla Decima ha riservato uno spazio opportunamente significativo anche al periodo compreso fra il 1940 ed il 1943, quando furono compiute le maggiori imprese marittime, tra cui quelle oltremodo gloriose di Alessandria d’Egitto, Gibilterra, Malta e Suda, per non dire delle tante altre operazioni nel Mediterraneo Occidentale ed Orientale, nel Mar Nero, ed in ulteriori scenari di guerra.

Fino all’armistizio dell’8 settembre 1943 la Decima, che aveva assunto questa denominazione in ossequio all’omonima Legione di Giulio Cesare, passata alla storia per le straordinarie doti di coraggio, dedizione e fedeltà nei confronti delle istituzioni e del condottiero, si era distinta per eccezionali atti di eroismo tradotti in 34 Medaglie d’Oro, e per alcuni successi di straordinaria rilevanza militare e di altrettanto probante efficacia propagandistica, alla cui base c’erano un esemplare spirito di corpo ed una competenza tecnica d’avanguardia, ma nello stesso tempo, la volontà e la capacità di battersi fino all’estremo sacrificio nella «guerra del sangue contro l’oro».

Dopo la svolta storica del 25 luglio 1943, col voto del Gran Consiglio, la caduta di Benito Mussolini e l’avvento del nuovo Governo di Pietro Badoglio, nel giro di sei sole settimane sopravvennero la resa incondizionata del 3 settembre (annunciata dopo cinque giorni) e lo sfascio totale delle forze armate italiane, con l’unica significativa eccezione della Decima, tanto più importante perché parecchi combattenti che non vollero accettare la scelta del disonore, simboleggiata dall’ingannevole consegna della flotta nei porti del nemico, affluirono subito al Comando del Muggiano, presso La Spezia, per chiedere di arruolarsi nei reparti di Junio Valerio Borghese, che si era immediatamente rifiutato di riconoscere il tradimento della parola data e la deposizione delle armi. Nel giro di poco tempo, l’organico della Decima sarebbe rapidamente salito a 20.000 unità.

Junio Valerio Borghese

Junio Valerio Borghese durante il periodo della Repubblica Sociale Italiana (ante 1945)

Il 14 settembre, precedendo di parecchi giorni la proclamazione della Repubblica Sociale, Borghese fu capace di stipulare una sorta di «trattato» con il Comando delle forze armate tedesche in Italia, in cui si nominava lo stesso Borghese – già insignito di Medaglia d’Oro al Valor Militare – quale Capo supremo della Decima, e si dichiarava la volontà di proseguire la guerra al fianco del vecchio alleato, sotto bandiera italiana: la sola che, espunto lo stemma sabaudo col semplice ausilio delle forbici, in quei giorni plumbei e concitati non fosse stata ammainata nelle regioni occupate dall’esercito tedesco.

Continuare l’impegno bellico era obiettivamente difficile soprattutto per la Marina, che dopo il trasferimento della flotta a Malta ed a Bona e la tragedia dell’ammiraglia Roma era rimasta priva di gran parte delle sue navi. Nondimeno, Borghese ed i suoi non si persero d’animo, decidendo di trasformare diversi reparti in forze di terra destinate a coprirsi di gloria, dapprima sul fronte di Nettunia e poi su quelli dell’Appennino Tosco-Emiliano e della Venezia Giulia: nel primo caso, ancor prima che potessero scendere in campo le quattro Divisioni della Repubblica Sociale Italiana agli ordini di Rodolfo Graziani, nel frattempo ricostituite in Germania. Poi, a decorrere dal maggio 1944, tutte le forze di Borghese vennero unificate nella nuova «Divisione Decima».

Vale la pena di sottolineare che il motto assunto dalla «Flottiglia» durante il servizio per il Regno d’Italia («Per il Re e la Bandiera») venne immediatamente sostituito con una scelta di chiaro valore simbolico («Per l’Onore») quasi a sottolineare con questa espressione di sintesi assoluta la priorità dei valori che si volevano affermare, e per cui gli uomini di Borghese si videro riconoscere tre Medaglie d’Oro, oltre a 96 d’Argento e 122 di Bronzo, senza contare 245 Croci di Guerra al Valor Militare e 122 encomi solenni: un patrimonio che, pur nella pochezza dei mezzi disponibili, nella subordinazione alle strategie tedesche ed in qualche incomprensione con le alte sfere della Repubblica Sociale Italiana, ed in particolare col Ministero della Marina, attesta senza ombra di dubbio un impegno sul campo particolarmente sentito, e lungi da ogni facile retorica.

Le Medaglie d’Oro in questione[2] vennero conferite al Guardiamarina Alessandro Tognoloni (Cisterna, 24 maggio 1944); al Sottotenente Alfonso Guadagni (Nisida, 14 giugno 1944); ed al Capitano Umberto Bardelli, già pluridecorato al Valore (Ozegna, 8 luglio 1944). Altre quattro onorificenze del massimo livello si trovavano ancora in proposta alla fine di aprile del 1945, quando i reparti della Decima si sciolsero, in parecchie occasioni con l’onore delle armi, come accadde a Milano il giorno 26 alla presenza del Comandante Borghese (ma in altre circostanze, specialmente nella Venezia Giulia, col sacrificio pressoché totale dei suoi uomini), mentre alcuni combattenti perseverarono nell’impegno militare fino a maggio inoltrato. È d’uopo aggiungere, peraltro, che queste Medaglie, al pari di tutte quelle concesse dalla Repubblica Sociale Italiana, non sono mai state riconosciute dalla Repubblica Italiana, con un ostracismo pervicace, ed a settant’anni dai fatti, obiettivamente iniquo: motivo non ultimo per cui nel dopoguerra, non appena prosciolto dalle accuse che gli erano state rivolte in modo altrettanto opinabile, Borghese si sarebbe affrettato a costituire l’Associazione Decima MAS, con il compito precipuo di assistenza ai suoi ex combattenti, discriminati dall’Italia ufficiale.

È giusto avere finalmente riconosciuto alla Decima di avere operato, nella generalità dei casi, in modo conforme alle regole dell’onore, e di essersi battuta con alto spirito patriottico sulla falsariga dell’eroismo espresso nel primo triennio di guerra dai vari Luigi Durand De La Penne, Luigi Faggioni, Antonio Marceglia, Spartaco Schergat, Teseo Tesei, Salvatore Todaro, Licio Visintini, e via dicendo; ma resta qualche dubbio sulle riserve concernenti il fatto che fra il 1944 ed il 1945 l’impiego di importanti forze agli ordini di Borghese sia stato destinato alla repressione della guerriglia partigiana, e quindi, ad uno scontro fratricida. Nella realtà, in parecchi casi ciò avvenne per necessità tattiche imposte dalle circostanze e dalle direttive tedesche, mentre gli uomini della Decima premevano per essere destinati al fronte e manifestavano un esemplare entusiasmo quando giungeva finalmente l’ordine di affrontare gli Anglo-Americani nella valle del Senio, o gli Slavi di Tito nelle zone del confine orientale: non a caso, scrissero pagine di celebre valore nella battaglia di Tarnova della Selva, dove il rapporto col nemico era di uno a sette, o nell’ultima difesa di Cherso, Veglia e Lussino, dove la sperequazione delle forze in campo fu ancora più alta.

D’altro canto, le efferatezze compiute a danno della Decima ad opera dei partigiani, compresi quelli italiani, sono ben documentate, talvolta allucinanti, e giustificano una reazione che a far tempo dalla metà del 1944 si fece progressivamente più intensa, in specie dopo la proditoria uccisione del Capitano Bardelli, anche se non mancarono episodi di pur difficile collaborazione, al pari di quanto accadde con le forze armate del Sud, soprattutto durante gli ultimi tempi della guerra, nell’intento di salvaguardare gli impianti industriali e le grandi infrastrutture dalla distruzione sistematica che l’occupante tedesco aveva programmato prima del ritiro. E poi, si diede anche il caso, sia pure marginale, di scontri armati tra le forze ufficiali della Repubblica Sociale Italiana e quelle del Governo Sabaudo.

La Decima non avrebbe potuto essere quella che fu, senza il carisma del Comandante Borghese, ma nello stesso tempo, senza uno spirito di corpo pari a quelli del Risorgimento o dei Volontari della Prima Guerra Mondiale. Del resto, l’adesione era assolutamente libera, ed anche se non mancarono casi di convenienza e di opportunità, presumeva l’adesione spontanea ai valori patriottici e nazionali di un combattentismo per molti aspetti apartitico, se non proprio apolitico: del resto, nei reparti di Borghese il rancio era uguale per tutti, al pari del panno delle divise, ed il Comandante pranzava al tavolo dei marinai, nello spirito di un autentico cameratismo in cui la disciplina non aveva bisogno di essere imposta perché faceva parte della cultura comune. Lo stesso dicasi per l’autorizzazione data ai combattenti di ogni grado circa il possibile utilizzo di qualsiasi tipo di arma.

Marò del Battaglione Lupo

Marò del Battaglione Lupo della X Flottiglia MAS, 1944

In tutto questo, non è difficile cogliere qualche spunto autenticamente rivoluzionario, che colloca l’esperienza di Borghese in un’ottica etica che rammenta quella del migliore dannunzianesimo, all’epoca della Reggenza italiana del Carnaro e della sua avanzatissima Carta costituzionale[3]. Quando il Comandante afferma di amare i suoi marinai e di vivere la loro vita «condividendone i disagi e le scarse gioie» compie una sorta di rottamazione «ante litteram» delle vecchie burocrazie militari, tanto più significativa in un principe dell’aristocrazia romana: del resto, a guerra largamente finita, dopo quattro anni di detenzioni ed un processo che lo avrebbe scagionato di massima parte delle colpe reali o presunte che gli vennero attribuite, Borghese avrebbe affermato senza mezzi termini che, quando si accorse del crollo totale di istituzioni, strutture e comandi, comprese che «era necessario interpretare in senso rivoluzionario la nuova realtà» e dare «direttive atte a rompere decisamente con gli schemi di un passato e di una tradizione che non avevano retto alla prova dei fatti»[4].

Queste parole stanno a significare che, oltre le alte pregiudiziali dell’onore ed il forte disprezzo del tradimento, Borghese – assieme agli uomini più in vista della Decima – aveva vagheggiato una sorta di ordine nuovo per cui si sarebbe impegnato, sia pure in maniera forzatamente velleitaria, ma consapevole del fallimento ormai irreversibile del vecchio mondo politico, quando assunse la più alta carica onorifica nel Movimento Sociale Italiano (1952) ovvero quando diede vita al Fronte Nazionale (1968). Da questo punto di vista, si può dire che l’esperienza della Decima, pur nei suoi limiti e nelle sue contraddizioni, costituisce un momento di utile riflessione: se non altro, sulle ragioni morali che indussero tanti giovani a reagire in maniera non conformista a quella stagione che Ernesto Galli della Loggia avrebbe puntualmente definito «morte della patria» e che hanno trovato un’espressione molto significativa anche nell’intervista a Sergio Nesi, combattente ai massimi livelli della Decima[5].

Come si sa, il nome di Borghese venne coinvolto nel «presunto» tentativo di golpe maturato all’inizio degli anni Settanta: prescindendo dall’analisi di una pagina di storia che esula da quella della Decima, si può soltanto presumere che le sue convinzioni di un trentennio prima avessero sedimentato nelle opzioni successive, lasciando una traccia destinata ad emergere nel lungo termine come un fiume carsico. Nello stesso tempo, si deve aggiungere che, nella fattispecie, avrebbe tratto le conseguenze degli eventi con virile e matura consapevolezza, scegliendo l’ultimo esilio in terra di Spagna, dove scomparve il 26 agosto 1974; successivamente, le spoglie del Comandante vennero traslate a Roma per trovare l’ultimo riposo nella Basilica di Santa Maria Maggiore.


Note

1 Massimiliano Capra Casadio, Storia della Decima «Flottiglia Mas» (1943-1945), Edizioni Mursia, Milano 2016, 480 pagine.

2 Diversamente dagli altri insigniti di Medaglia d’Oro della Decima, caduti per mano del nemico, il Guardiamarina Alessandro Tognoloni venne gravemente ferito negli scontri che fecero seguito allo sbarco alleato sul fronte di Nettunia, dopo avere affrontato i carri armati americani con le sole armi della rivoltella e delle bombe a mano. I suoi lo diedero per morto, ma il nemico, ammirato da tanto valore, provvide a curarlo e poi ad inviarlo negli Stati Uniti quale prigioniero «non collaboratore». Tognoloni sarebbe rientrato dopo una lunga detenzione nel campo di Hereford, il cui comandante, nell’accomiatarsi da lui, gli disse che, se fosse dovuto andare ancora in guerra, avrebbe «voluto avere combattenti come Voi». Dopo il rientro in Italia, Tognoloni è stato apprezzato architetto, e primo ideatore del «Campo della Memoria» di Nettuno, oggi Sacrario Nazionale.

3 Carlo Cesare Montani, La Carta del Carnaro nella retrospettiva storica e nella sua attualità, in Lo Statuto della Reggenza Italiana tra storia, diritto internazionale e diritto costituzionale a cura di Augusto Sinagra, Edizioni Giuffrè, Milano 2009.

4 Giorgio Pisanò, Gli ultimi in Grigioverde: Storia delle Forze Armate della Repubblica Sociale Italiana, Edizioni FPE, Milano 1967-1969, pagina 1.040.

5 L’intervista al Comandante Nesi, a sua volta pluridecorato ed Autore di varie monografie sulla Decima, è pubblicata in appendice all’opera di Capra Casadio. In tutta sintesi, ripropone la validità di una scelta etica basata sul carattere prioritario dell’onore, e nello stesso tempo, la totale «indifferenza» di Borghese e dei suoi uomini circa le sorti della guerra, perché l’importante non è tanto vincere o perdere ma comportarsi in modo eticamente apprezzabile.

(maggio 2017)

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