La cattiva erba del fanatismo
Una testimonianza toccante e drammatica, che mostra una volta di più – se ce ne fosse bisogno – l’assurdità e l’inumanità della guerra, e dell’ultimo conflitto mondiale in particolar modo

Gli episodi che si svolgono nei caotici tempi di guerra sono sempre tanti, tragici, commoventi, raramente consolatori. Quello che mi accingo a raccontare è avvenuto nella primavera del lontano 1945.

Si era alla vigilia della temuta «invasione» del territorio ferrarese da parte delle truppe alleate. Solo, di quando in quando, il rombo di qualche mezzo militare, gommato o gommo-cingolato, dipinto a tinte mimetiche difficilmente intuibili sotto lo strato abbondante di fango che lo ricopriva, rompeva la calma innaturale del pomeriggio; correva a forte velocità sulla strada provinciale e spariva in un baleno alla vista, restituendo la scena alle sue forzate immobilità e silenziosità. Passò anche uno di quei carretti strani usati dai militari tedeschi per portare derrate alimentari, trainato da uno scheletrico ronzino e condotto da un paio di soldati a capo scoperto e male in arnese.

In lontananza, un colpo di cannone, seguito da qualche sparo e da qualche raffica di mitragliatrice, ruppe per un momento il silenzio tombale; poi, più nulla. Il tutto rimase immoto e silente, come se il paesaggio fosse stato trasformato in un plastico, statico nel presente e, come tale, proiettato nel futuro.

Verso il tramonto, si cominciò a sentire, molto lontano, il rumore prodotto dagli scarichi di potenti motori diesel, accompagnati, man mano si avvicinava, dal caratteristico cigolio (che i cineasti amano inserire nella colonna sonora dei loro film di guerra, come se non fossero mai soggetti a manutenzione e oliati) dei cingoli dei carri armati e dal grattamento esercitato sul suolo, quando, nell’affrontare le curve, sono alternativamente bloccati.

Poi, il rumore cessò, quando era giunto non molto distante dalla mia casa e s’iniziarono a sentire grida di gioia e di felicità, che esprimevano un ineffabile senso di liberazione. In compagnia del mio nonno materno, mi avviai verso la strada provinciale; qui, incontrammo il parroco del nostro paese (Cassana), Don Giuseppe Manzoli, e con lui ci dirigemmo verso il bivio che separa le vie per Porotto e Mantova-Modena, dove si accalcava un nutrito gruppo di uomini, donne e bambini che, vocianti, esprimevano rumorosamente la loro gioia per la liberazione dal nazi-fascismo in atto.

Solamente allora ci fu chiaro il perché di tutta quella confusione: alcuni carri armati inglesi (forse Sherman) stazionavano poco prima del suddetto bivio e i carristi stavano familiarizzando con la popolazione, felice e sollevata nello spirito, perché i pericoli della ritirata tedesca erano superati. In effetti, pare che le informazioni in possesso degli Inglesi parlassero di grossi contingenti tedeschi annidati fra le case di Porotto e Cassana, pronti a opporre un’ostinata resistenza all’avanzata nemica. Più tardi si seppe la ragione della decisione presa dalle truppe di occupazione di avanzare senza colpo ferire.

Riporto quanto giunse alle mie orecchie di bambino. Gli abitanti di Via Ladino in Porotto dissero che la scena che si era svolta sotto i loro occhi aveva un qualcosa di irreale: sul primo dei carri armati, che avanzavano completamente chiusi, seduto a fianco della torretta, era una persona in borghese. Era il medico condotto del paese, Dottor Roccati, il quale, sotto la sua personale responsabilità (e che responsabilità, si deve riconoscere!), si era avvicinato ai soldati inglesi, fermi presso Poggio Renatico, affermando che non era vero che i nostri abitati fossero gremiti di soldati tedeschi, armati di tutto punto e pronti a una strenua difesa, ma che, al massimo, c’era solo qualche nido di cecchini. Un atto che, a definirlo eroico, è assolutamente riduttivo: egli mise a repentaglio la propria vita per la salvezza sua e della sua famiglia, ma anche di tutta la popolazione, e per la tutela delle abitazioni. Le ragioni portate avanti dal dottore e la sua disponibilità a esporsi in prima persona, convinsero il comando inglese, per cui, invece di posizionare l’artiglieria pronta a sparare e, magari, di eseguire un bombardamento aereo a tappeto, mandò in avanti una piccola colonna di carri armati in avanscoperta, con la guida del dottore.

Le indicazioni fornite dal medico si rivelarono esatte: i carri armati furono fatti segno solo da alcuni isolati colpi di arma da fuoco. Furono individuati i punti da cui erano stati sparati: il campanile della chiesa di Porotto e l’abbaino del grande Palazzo Roncarati, situato al centro del paese. Un colpo di cannone ben assestato e qualche scarica di mitragliatrice (erano gli spari sentiti in distanza) misero fine alla grande «controffensiva» organizzata dai Tedeschi.

La gente era lì, a gridare, vociare, abbracciarsi, ringraziare e a scambiare amichevoli pacche sulle spalle. E mentre noi bambini sgranocchiavamo le tavolette di cioccolato offerte dai militari britannici, si sentì gracchiare la radio del primo mezzo blindato. Dopo un breve scambio di battute fra il radiotelegrafista e, presumibilmente, con la sala operativa, in una lingua per noi incomprensibile, il comandante, fattosi improvvisamente serio, invitò bruscamente la gente ad allontanarsi e a sgombrare la strada («Go Home!», urlò). I carristi si ritirarono all’interno dei loro mezzi, che si richiusero come tante testuggini. Noi non capimmo un accidenti, ma fu chiaro che stava per succedere qualcosa di grave e di pericoloso, per cui la cosa migliore da fare era quella di lasciare il campo libero e allontanarsi al più presto. Così mio nonno e io accompagnammo il parroco verso la sua chiesa, senza far caso più di tanto a una motocicletta, proveniente dalla parte di Ferrara, che, ad alta velocità, si dirigeva al bivio. Eravamo giunti vicini alla chiesa, quando il crepitio della raffica di una mitragliatrice si sovrappose al rumore della moto, seguito da alcuni colpi di pistola e, quindi, da un’altra mitragliata. Atterriti, tutti e tre saltammo nel prato, giù in basso, del sagrato della chiesa, rotolando sull’erba; il parroco finì in mezzo a un groviglio di filo spinato, utilizzato dalla guarnigione tedesca del centralino, situato nella sagrestia e bombardato qualche giorno in precedenza, per predisporre eventuali «cavalli di Frisia». Mio nonno e io dovemmo impegnarci seriamente per togliere il prete dall’incomoda posizione: in altri momenti, meno drammatici, sarebbe stata una situazione comica, con tutto il rispetto per la persona; ma non lo fu allora. Alla fine, comunque, raggiungemmo quatti quatti le nostre abitazioni.

Il giorno successivo, con mio nonno andai alla fontana, che si trovava a circa un chilometro da casa, passando per il luogo dov’era avvenuto l’incontro con i militari inglesi il giorno precedente. Spingevamo un carretto a mano, a due ruote alte, sul cui pianale avevamo caricato grosse damigiane per procurare la scorta d’acqua per i bisogni familiari di una settimana almeno. Giunti al «Palazzone Tedeschi», mezzo bruciato, avemmo la brutta sorpresa di vedere a terra, sul ciglio della strada, il corpo supino di un giovane tedesco, con i capelli biondi tagliati all’hitleriana, con una bella giacca militare, calzoni e stivali alla cavallerizza, e un paio di staffe, disordinatamente appoggiato sulla spalla sinistra. Pensammo che fosse il risultato di ciò che era successo la sera precedente; e la «radio pompa» confermò tale supposizione in pieno.

Quello che segue è il frutto del racconto fatto a diverse voci, mentre le damigiane, prima di altri e poi le nostre, erano lentamente riempite di acqua. Il Comando Tedesco, non essendo a conoscenza dell’avanzata operata dagli Inglesi, aveva mandato due soldati per far saltare per primo il ponte sul Canalino di Cento – acque alte – e sul Canale Tassone – acque basse – (che erano paralleli, mentre ora sono stati uniti a formare un canale unico) della strada per Modena e poi quello sugli stessi canali, posto all’ingresso di Porotto. I ponti erano stati minati in precedenza. Probabilmente il biondino, quando ha ricevuto l’ordine di partire, non era in servizio attivo, considerato l’abbigliamento, e si è messo immediatamente a disposizione, così com’era vestito, data l’urgenza, dimenticandosi le staffe sulla spalla. Quando i due militari tedeschi sulla motocicletta si trovarono la strada sbarrata dal primo carro armato, il pilota bruscamente frenò, facendo mettere il mezzo di traverso; gli Inglesi spararono una raffica di avvertimento, forse in aria; al che il pilota, invece di arrendersi, estrasse la pistola e sparò contro il bestione d’acciaio; e la mitragliatrice sparò ancora. Chi ha avuto il coraggio di tirare fuori il naso dal suo nascondiglio ha raccontato che, allora, il pilota sparò prima alla testa del camerata, il biondo visto morto, e poi alla propria. Secondo i testimoni, a morire fu il passeggero, mentre l’altro fu raccolto e portato via ancora vivo.

Il vedere quel bel ragazzo, che sembrava avere solamente qualche anno più di me, scompostamente adagiato sul ciglio della strada, suscitò un ineffabile senso di tristezza. Non avevo una grande conoscenza della vita, allora, ma comunque mi fece pensare a dove possa portare la cecità dovuta al fanatismo, all’inutilità della guerra e all’orrore che essa può indurre in tutti quelli che aborriscono la violenza di qualsiasi natura e forma.

(aprile 2019)

Tag: Mario Zaniboni, cattiva erba del fanatismo, Seconda Guerra Mondiale, territorio di Ferrara, testimonianza sulla Seconda Guerra Mondiale in Italia.