Le Brigate Nere
Le formazioni fasciste costituite in funzione antipartigiana si macchiarono talvolta di delitti atroci; nel dopoguerra, la violenza di alcune bande fu ideologicamente allargata al fenomeno fascista «in toto», creando così il «mito» del fascismo come «Male assoluto»

Nato dopo la defezione dell’Italia dall’alleanza con la Germania e dal conseguente armistizio con gli Alleati (8 settembre 1943), il movimento partigiano assunse col tempo – e con l’avanzata delle truppe angloamericane che risalivano la Penisola – un’iniziativa di lotta sempre più aperta, aggressiva e coordinata, anche in forza di operazioni nemiche di rastrellamento svolte in forma blanda e con forze limitate. La Repubblica Sociale Italiana veniva così a trovarsi stretta fra due fuochi, con l’offensiva alleata da una parte e il rischio di destabilizzazione interna dall’altra: in questo contesto, la lotta al ribellismo diventava un elemento decisivo per la sopravvivenza della Repubblica. Alessandro Pavolini, segretario del Partito Fascista Repubblicano, era rientrato a Salò dopo la visita in Toscana che lo aveva convinto come le uniche strutture che avessero retto erano state quelle del Partito: da qui, l’idea di militarizzare il Partito e creare delle squadre speciali da impiegare esclusivamente in chiave antipartigiana. Le Brigate Nere nacquero, così, ufficialmente il 30 giugno 1944, con decreto legge numero 466 firmato dal Duce.

Alessandro Pavolini

Foto di Alessandro Pavolini, anno 1940 o prima

Pavolini era nato nel 1903 a Firenze da una famiglia alto borghese: laureatosi in Legge all’Università del capoluogo toscano e in Scienze Sociali a Roma, fu letterato, giornalista, drammaturgo, scrittore e uomo politico. Aveva un temperamento sostanzialmente mite (ma affascinato dalla violenza) e una cultura raffinata; onesto e coraggioso, quest’uomo di 50 anni era ossessionato dall’idea della bella morte, con le armi in pugno: «Ciò che conta è morire con coraggio» e «Non sono un vigliacco, voglio morire bene» sono due sue frasi. Aveva anche un esasperato senso dell’onore e una smania di intransigenza giacobina: fu il più duro a volere la distruzione del fascismo corrotto del passato e la punizione di coloro che avevano provocato la fine del regime a cui appartenevano, i congiurati del 25 luglio 1943.

Il suo ideale era che le Brigate Nere dovessero essere «una famiglia che combatte una guerra di religione». Il leitmotiv della morte ritornava ancora una volta nelle macabre insegne e nelle funeree uniformi: teschio nero sul berretto, camicia e maglione nero, pantaloni grigioverdi alla zuava, distintivo della brigata di appartenenza con colori rosso-nero sul taschino e fascetti rossi sul bavero.

Manifesto di propaganda

Manifesto di propaganda del 1944 per l'arruolamento nelle Brigate Nere

All’Ambasciatore Rahn, Pavolini spiegò che «gli Italiani non temono il combattimento, quelli che sono fedeli al Duce lo sono per davvero. Non amano, però, essere chiusi in caserma, inquadrati, irregimentati, dover sottostare all’addestramento, portar vistose e pesanti divise. Il movimento partigiano ha successo perché il combattente nelle file partigiane ha l’impressione di essere un uomo libero. […] Bisogna, quindi, creare un movimento antipartigiano sulle stesse basi e con le stesse caratteristiche». Il compito stabilito per le Brigate Nere era la difesa dell’ordine nella Repubblica Sociale Italiana, la lotta contro i banditi e i fuorilegge (ossia i partigiani) e la liquidazione di eventuali nuclei di paracadutisti nemici.

I brigatisti neri (così chiamati in risposta a quelli di parte «rossa») furono tra i 31.000 e i 40.000; insieme a loro c’era anche un consistente numero di Ausiliarie. Sorsero 41 Brigate territoriali (una per ogni capoluogo di provincia), 7 mobili e 6 autonome, oltre a un nucleo di corrispondenti di guerra e a un tribunale di guerra; ogni Brigata portava il nome di un fascista caduto per la causa repubblicana. Il comando generale fu fissato a Maderno, sul Lago di Garda (all’inizio del 1945 sarebbe stato spostato a Milano), la paga base a 1.500 lire (cinque volte superiore a quella dei legionari della Guardia Nazionale Repubblicana). I Tedeschi ne accolsero la nascita con sollievo (significava una maggiore copertura alle spalle del fronte), anche se rimarranno poi inorriditi dalla brutalità adoperata da qualche Brigata Nera in rastrellamento: lo stesso comandante delle SS in Italia, Karl Wolff, parlerà di «eccessi terroristici».

Le Brigate Nere erano una sorta di esercito personale di Pavolini: vi confluivano idealisti e delinquenti, patrioti e mercenari, esaltati e sbandati, accoliti fedeli alla causa e a volte delinquenti e disperati che si abbandoneranno all’ultimo saccheggio, consci ormai dell’inevitabile disfatta e senza dunque più nulla da perdere; c’erano gli ex componenti delle squadre d’azione, vecchi fascisti ultraquarantenni fedeli a Mussolini (ma anche uomini del 1872-1873 così come dodicenni e tredicenni), giovani corrigendi liberati dalle carceri minorili, disertori pescati durante i rastrellamenti, ragazzi imprigionati perché renitenti alla leva. Il senso che si voleva dare alle Brigate, e che molti sentivano con sincerità, era la purezza dell’ideologia del fascismo delle origini che si trasforma in durezza cristallina; ma la loro entrata in azione drammatizzò i contorni della guerra civile italiana introducendo ulteriori elementi di violenza e di esasperazione. Ha scritto Ricciotti Lazzero che «non vi furono mai, nella nostra storia recente, reparti di più basso livello morale e tecnico-militare, e fu subito evidente a tutti, anche a Mussolini, che quell’insieme di giovani e vecchi, riottosi alla disciplina... non contava militarmente e poteva soltanto costituire un tampone alla guerriglia dal punto di vista poliziesco. Alla prova del fuoco, quelle poche volte in cui vennero chiamate accanto ai Tedeschi a far numero in azioni difficili, le Brigate Nere, che pur ebbero molti morti, dimostrarono – sempre salve le eccezioni – di essere del tutto impreparate... Squallido e lugubre il loro stile, nefande certe loro azioni di vendetta. I Tedeschi, che li controllavano e li conoscevano molto bene, avendo l’esperienza dei Cosacchi, dei Mongoli, degli Ucraini, dei Croati e di tutti gli altri collaborazionisti, non permisero mai che si affacciassero al fronte, dove avrebbero rappresentato un pericolo gravissimo».

Ciò che sostiene Ricciotti Lazzero non è del tutto vero. Certo è che l’esordio delle Brigate Nere, impegnate nell’agosto del 1944 in un ciclo operativo contro i partigiani piemontesi, non fu dei più entusiasmanti: l’11 del mese reparti della Prima Brigata Nera Mobile, della Brigata Nera Augusto Felisari di Cremona e della X MAS si inoltravano nella Valle Locana, verso le pendici del Gran Paradiso, e con loro erano lo stesso Pavolini, il principe Valerio Borghese, il federale di Torino Giuseppe Solaro e il suo vice Lorenzo Tealdy, il federale di Brescia Antonino Melega, il colonnello Edoardo Facdouelle e il tenente colonnello Enrico Quagliata. L’attacco partigiano, condotto da un centinaio di garibaldini e di giellisti che operavano nella zona di Cuorgnè, scattò nel primo pomeriggio e fu diretto direttamente contro i gerarchi: Pavolini veniva ferito ai glutei, Borghese si ritrovava il braccio sinistro trapassato da una pallottola, Tealdy era colpito a una gamba, Quagliata restava ucciso. Numerosi rastrellamenti antipartigiani si susseguirono fra il 1944 e i primi mesi del 1945 nelle alture pre-alpine di tutto il Nord Italia, allo scopo di «ripulire» le zone infestate da bande di «ribelli», e se i risultati furono inferiori alle aspettative questo fu dovuto a vari fattori che sono indipendenti dal valore delle truppe repubblicane coinvolte.

In primo luogo, le Brigate Nere agivano prevalentemente alla luce del sole e costituivano bersagli comodi perché più facili da sorvegliare, mentre gli attacchi partigiani avvenivano di sorpresa o col favore delle tenebre, mediante imboscate o attentati. In secondo luogo, pur capeggiati o rinforzati da migliaia di elementi dell’esercito regio ante-8 settembre, generalmente ben poco vennero osservate dall’ala armata della Resistenza le regole elementari del codice d’onore militare (quelle che vietano la vigliaccheria del 10 contro 1 e l’attacco alle spalle, e soprattutto che impongono il rispetto delle condizioni stipulate al momento della resa del nemico). Infine, favoriti dalle alture dove stavano rintanati, negli scontri a fuoco di vasta portata i partigiani ebbero quasi sempre il vantaggio di poter mirare comodamente e a colpo sicuro, mentre le colonne o i singoli fascisti sorpresi giù nelle valli inizialmente non potevano che sparare all’impazzata contro un nemico pressoché invisibile. L’ultima Brigata in ordine assoluto a deporre le armi sarà la Biagi di Pistoia, in Valtellina.

Squadristi della VI Brigata Nera A. Cristina di Novara

Squadristi della VI Brigata Nera A. Cristina di Novara, una delle meglio armate, durante un'azione contro i partigiani in Val Grande (autunno 1944)

Talune Brigate Nere furono l’espressione più violenta e disperata dell’ultimo fascismo e andranno in buona parte ben oltre i compiti loro affidati, rispondendo con eguale atrocità alla spietatezza dei nuclei partigiani operanti in montagna: sembrava di essere tornati all’atmosfera del 1921 ma con un’intensità e una violenza centuplicate. A ogni caduto fascista a causa degli attentati partigiani (con vittime eccellenti e del tutto ingiustificate come il filosofo Giovanni Gentile, assassinato sotto gli occhi del figlio minore e in modo tanto brutale da spaccare persino il fronte antifascista) seguiva la rappresaglia, a volte tremenda e alla cieca. «Lo Stato, in quanto tale» affermerà secco e amaro Mussolini in occasione del suo ultimo bagno di folla al Teatro Lirico di Milano, il 16 dicembre 1944 «non può adottare metodi che lo degradano. Mazzini mandò un commissario per insegnare ai giacobini che era lecito combattere i papalini, ma non ucciderli extra legge o prelevare le argenterie dalle loro case. Chiunque lo faccia, specie se per avventura avesse la tessera del Partito, merita doppia condanna. Nessuna severità è in tal caso eccessiva, se si vuole che il Partito, sia veramente un organismo di assoluta purezza politica, degno erede dell’idea rivoluzionaria...»

Il tema della violenza è uno dei più dibattuti ancora oggi. Ha scritto Claudio Pavone, nel suo saggio Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza (Bollati Borlinghieri, Torino 1991) che «l’orgoglio resistenziale non deve farci affrettatamente concludere che di questo atteggiamento verso l’uccisione di altri uomini siano stati eredi soltanto i fascisti della Repubblica Sociale Italiana: i quali lo furono certo in misura crescente e prevalente, perché quel comportamento era congruo alla natura di fondo della loro cultura: ma tracce se ne rinvengono anche tra i resistenti». In realtà, ci sono più che tracce: le stragi fasciste sono oggi note per via della tradizione radicata di antifascismo militante e istituzionalizzato che ha caratterizzato la nostra vita culturale per decenni, quelle partigiane sono meno conosciute per gli stessi motivi ma ci furono, e furono tremende. I partigiani, come i fascisti, ritenevano di combattere una «guerra giusta» e per questo di poter uccidere senza pietà, senza distinzione e senza limite, a volte senza motivo: credevano di possedere la verità e allora si arrogavano il diritto di sterminare l’avversario, di togliergli la forza e la parola, di farlo scomparire dal creato – una vera e propria «guerra di religione». Con la liberazione giunse, inevitabile, il momento delle vendette: è stato calcolato che alla fine dell’aprile 1945 i partigiani abbiano ucciso tra i 12.000 e i 15.000 fascisti, ormai sconfitti, ma la strage continuò anche dopo, e le vittime reali furono molte di più (tra i 45.000 e i 50.000 uomini e donne, non tutti fascisti, assassinati dopo la guerra, secondo le stime oggi più accreditate).

Pavolini troverà la morte il 28 aprile 1945. Quando il convoglio sul quale viaggiava anche Mussolini cercando di raggiungere la Valtellina fu bloccato dai partigiani, uscì sparando dal camioncino adattato ad autoblinda con fogli di lamiera. Ferito al viso e altrove, si gettò nel Lago di Como e fuggì a nuoto; inseguito in barca, fu colpito alle gambe con un fucile a pallini, poi in testa con un remo. Venne fucilato in piazza, mentre gridava: «Viva l’Italia!» Forse non fu la morte eroica in cui sperava; ma, date le circostanze, forse non avrebbe potuto averne una migliore.

Oltre alle Brigate Nere, furono utilizzate contro la Resistenza anche le altre forze dell’esercito della Repubblica di Salò (scarsamente usate sul fronte contro gli Anglo-Americani), la X MAS comandata dal principe Junio Valerio Borghese (presente su tutti i fronti di guerra con ampia autonomia di movimento) e, in chiave esclusivamente antipartigiana, la Brigata Autonoma Mobile Ettore Muti fondata da Francesco Colombo, autonominatosi Colonnello, composta da 3.600 uomini, due terzi dei quali di stanza a Milano e gli altri in Piemonte. La Muti utilizzò metodi spesso brutali che indussero Mussolini a esortare il federale della città, Vincenzo Costa, a «spazzarmi via la teppaglia che sta disonorando Milano»; furono uomini della Muti, su precisa volontà tedesca, a fucilare per rappresaglia, in Piazzale Loreto, i 15 partigiani detenuti a San Vittore (agosto 1944); ma furono ancora militi della Muti ad assistere per 12 mesi la popolazione milanese nelle sue necessità alimentari. I reparti della Muti furono assaliti e trucidati dalle bande partigiane negli ultimi giorni di guerra; lo stesso Colombo verrà fucilato dai partigiani a Lenno, sul Lago di Como, il 28 aprile 1945.

Le bande Carità e Koch (la prima a Firenze, la seconda inizialmente a Roma e in seguito a Milano) non erano tanto bande fasciste quanto bande irregolari autenticamente criminali operanti in clandestinità dal fascismo ufficiale; le torture ai prigionieri fino a estorcerne le confessioni desiderate e le sevizie d’ogni genere ne accrebbero negativamente la fama.

Tali eccessi contribuiranno non poco a far sì che l’opinione pubblica proiettasse all’ideologia e all’intera esperienza storica del fascismo le violenze di una parte dei suoi uomini. Un’immagine volutamente cristallizzatasi dal dopoguerra in poi, che per evidenti finalità politiche (i partiti di Sinistra utilizzarono spesso lo spauracchio del «ritorno del fascismo» per tenere il potere ergendosi a difesa della popolazione) servirà a calare un imbarazzante sipario tanto sul fascismo nel suo complesso che sull’eroismo al fronte di tanti suoi giovani volontari.


Bibliografia

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Giordano Bruno Guerri, Fascisti, Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano 1995, pagine 272-275

Giovanni Curatola, Ritmi littori, Aurora Edizioni, Stradella (Pv) 2002, pagine 258-262, 273

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(agosto 2021)

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