Il treno della morte
La strage di Balvano del 3 marzo 1944. Orrori e responsabilità nell’eclissi della Patria
Riflessioni attuali nell’80° anniversario dell’eccidio

Un tragico primato italiano è quello della massima sciagura ferroviaria mondiale avvenuta in assenza di fattori naturali, deragliamenti e altre cause tecniche: si tratta della strage di cui fu vittima la stragrande maggioranza dei viaggiatori presenti sul treno partito da Napoli nel pomeriggio del 2 marzo 1944 e diretto a Potenza. Il numero dei caduti non è stato mai definito con precisione[1] ma i corpi senza vita deposti al mattino successivo sul marciapiede della stazione di Balvano, nell’entroterra della Lucania, comprese 16 vittime poi recuperate in galleria, furono verosimilmente 642.

Nella ricorrenza dell’80° anniversario è cosa buona e giusta ricordare quelle vittime innocenti, tanto più che il momento politico, fatta eccezione per diversi Consiglieri Regionali e Sindaci del comprensorio, non è stato sensibile alle celebrazioni tenutesi a Balvano, con l’intervento dell’Arcivescovo di Potenza, la scopertura di una targa celebrativa e la presentazione di una mostra fotografica, molto espressiva e pertinente. In altri termini, permane l’impressione che quella tragica vicenda sia stata rimossa dalla memoria collettiva nazionale, sempre più distratta da ricorrenti emergenze, e da interessi altrettanto cogenti.

In realtà, non era accaduto alcun disastro nel senso tradizionale della nomenclatura ferroviaria: più semplicemente, il convoglio 8.017 si era fermato all’interno della galleria detta «delle Armi» nel tratto compreso fra la stazione di Balvano e quella successiva di Bella-Muro. Ciò, a causa di un coacervo di fattori negativi, con importanza prioritaria per l’enorme sovraccarico, la cattiva qualità del carbone usato per alimentare le due motrici a vapore, la forza di traino ridotta, e soprattutto le condizioni ambientali che impedivano una normale aerazione del tunnel e avevano indotto un alto grado d’ingovernabilità delle ruote, accentuato dal blocco dei freni attuato dal frenatore di coda, privo di un’informazione esauriente. Di fatto, si ebbe una convergenza di fattori tecnici negativi dalle conseguenze tragiche.

Molto si è scritto su quella vicenda, ma non si può certo dire che la sua memoria sia rimasta viva nella coscienza popolare, fatta eccezione – appunto – per i distretti originari delle vittime, provenienti in larga maggioranza dalla Campania, e dalla stessa Basilicata (ma c’era persino un viaggiatore sardo). Non a caso, in una celebrazione del 2004, ricorrendo il 60° anniversario della strage, fu provocatoriamente suggerito che il 3 marzo diventasse «Giorno della Dimenticanza» tenuto conto che il momento politico non aveva voluto l’elevazione a ricordo annuale di una strage dovuta in buona misura a palesi responsabilità oggettive di matrice extra italiana. Infatti, in quel triste marzo 1944 la gestione della linea apparteneva alle forze militari d’occupazione, pur con l’utilizzo di manodopera italiana.

Bisogna rammentare che in quel tardo inverno del 1944 la guerra si era attestata sulla Linea Gustav, che tagliava l’Italia in due tronconi, correndo dal Tirreno all’Adriatico sulla direttrice Gaeta-Cassino-Ortona, dove la pressione degli Alleati s’infranse per parecchi mesi, nonostante il bombardamento della celebre abbazia benedettina, privo di effetti risolutivi, e nonostante altri tentativi di rottura del fronte, sia sul versante tirrenico, sia su quello adriatico. Ne consegue che Campania e Lucania (come da denominazione d’epoca della predetta Basilicata) erano retrovie ancora prossime al fronte medesimo, governate dall’Amministrazione Militare delle forze di occupazione, mentre il giovanissimo Regno del Sud poteva esercitare una mera sovranità formale e geograficamente minoritaria, anche nell’ambito del territorio italiano già «liberato». La stessa gestione ferroviaria era affidata alle predette forze, che amministravano le infrastrutture e il materiale rotabile in funzione delle proprie esigenze strategiche e tattiche, ovviamente prioritarie.

A Napoli, a Salerno e in tutta la zona percorsa dal treno 8.017 il massimo problema era quello di combattere la fame e di procurarsi il minimo indispensabile alla sopravvivenza. Fra le non facili scelte possibili c’era l’accesso all’entroterra lucano per barattare abiti, stoviglie e altre povere merci trasportabili, in cambio di legumi, olio, farina e altri generi di prima necessità, che non era impossibile trovare presso i contadini, pur con comprensibili difficoltà, comprese quelle di prezzo. Si disse, persino nel primo Consiglio dei Ministri del Governo Badoglio immediatamente successivo alla strage, che il treno era pieno di «contrabbandieri» e di «clandestini» ma il giudizio fu certamente avventato: in gran parte, trasportava persone in condizioni di forte indigenza, se non anche di disperazione, tra cui un numero non trascurabile di sbandati[2].

Le responsabilità morali di Pietro Badoglio e dei suoi Ministri a fronte della suddetta teoria, quasi che fossero affievolite dal fatto che qualcuno non avesse pagato il biglietto, sono fuori discussione. Nondimeno, va affermato subito che quelle maggiori furono dell’Autorità Militare Alleata, nei cui confronti il Governo Italiano era ovviamente vassallo, e totalmente impossibilitato a prestare una reale e fattiva cooperazione.

Spettava alle forze di occupazione gestire la circolazione ferroviaria, e quindi la composizione e la circolazione dei treni, tanto è vero che la ferrovia Battipaglia-Potenza era agibile per il servizio civile soltanto di mercoledì, mentre negli altri giorni era tollerato il trasporto notturno di viaggiatori nei carri merci dimessamente attrezzati allo scopo, come accadde il 2 marzo, quando il treno 8.017 fu programmato con criteri assurdi. A parte la dotazione di lignite jugoslava che aveva largamente peggiorato il rendimento di trazione rispetto al carbone fossile utilizzato prima dell’armistizio di settembre, la portata complessiva rimase notevolmente inferiore a quella delle due locomotive a vapore entrate in servizio a Salerno, a causa dell’elevato numero di passeggeri e delle merci. Entrambe le locomotive, tra l’altro, furono dislocate in testa, contro ogni buona regola, senza dire che i macchinisti potevano comunicare soltanto col mezzo acustico perché le posizioni delle cabine di guida erano sfalsate.

L’allestimento, il controllo e la gestione del convoglio restarono avulsi dalla normale diligenza operativa, con un pressappochismo tanto più grave perché pochi giorni prima era già accaduto un incidente analogo nella galleria di Baragiano, pochi chilometri oltre Balvano, dove il ferroviere Vincenzo Abbate aveva perso la vita. Per la qualità del carbone, che avrebbe avuto un ruolo importante nella tragedia, non erano mancate le proteste, ma gli Alleati furono irremovibili, anche perché le disponibilità erano relative, e naturalmente subordinate alle prioritarie esigenze belliche.

Il personale imbarcato sul treno 8.017 era costituito da sette Italiani, nel ruolo di macchinisti, fuochisti e frenatori, ma costoro non avevano la benché minima possibilità di opporsi alle decisioni dell’Autorità Militare e dovevano limitarsi a eseguire gli ordini, con margini di autonomia che nell’emergenza sarebbero stati nulli. A notte fonda, quando il convoglio era stato invaso dal fumo e dalle esalazioni nelle gallerie della tratta precedente, con ovvie conseguenze sulle condizioni dei passeggeri già oberati dal sonno, accadde l’irreparabile nella tratta fra Balvano e Muro: il convoglio, già in notevole ritardo, si bloccò nel tunnel «delle Armi» (con lunghezza di 1.968 metri, pendenza massima del 12,8‰, e con un solo binario come tutta la linea) per effetto congiunto del carico, dell’umidità delle rotaie, e per l’impossibilità di manovrare, mentre l’ossido di carbonio uscito dai forni delle locomotive (una delle quali con venti anni di servizio, laddove la seconda – di produzione austriaca – era stata requisita a fine della Grande Guerra) ristagnava in assenza totale di ventilazione, uccidendo per soffocamento, in tempi rapidi, buona parte di coloro che si trovavano sul «treno della morte».

I soccorsi, data la situazione, non furono tempestivi. Soltanto in prima mattina, intorno alle 5, fu possibile compiere un primo intervento di ricognizione con la locomotiva di un treno giunto in tempi successivi a Balvano, mentre il recupero del convoglio bloccato ebbe luogo soltanto alle 8,40 con l’ausilio di un’altra locomotrice giunta da Baragiano. Solo a quel punto ebbe inizio l’opera di allucinante composizione delle salme sui marciapiedi di stazione: un’opera comprensibilmente caotica, oltre che fortemente affrettata dai predetti ordini degli Alleati, che non fu possibile disattendere nemmeno nel breve termine.

Non mancarono fatti ancora più allucinanti. Basti ricordare i 16 caduti dal treno all’interno della galleria – di cui in premessa – verosimilmente nel tentativo di cercare un’improbabile salvezza: il bilancio ufficiale, come detto, sarebbe stato di 642 vittime, che avrebbe potuto essere inferiore qualora il medico condotto Dottor Orazio Pacella, accorso sul posto di primo mattino, avesse potuto utilizzare la sua scorta di adrenalina, unica disponibilità terapeutica del momento, nel tentativo di salvare chi dava ancora qualche segno di vita. Gli fu possibile soltanto in parte, come da testimonianza resa in tempi successivi a «Famiglia Cristiana», perché sopravvennero due ufficiali alleati che impedirono la prosecuzione di quell’opera umanitaria e certamente prioritaria, e che accelerarono oltre ogni logica di carattere umanitario l’inumazione dei cadaveri in fosse comuni (la temperatura era molto rigida, c’era la neve e quindi non sussisteva il pericolo immediato di epidemie).

Gli Americani, ovviamente, avevano altre priorità, a cominciare da quella di tenere sgombra la linea per il movimento dei treni militari: quella stessa notte, un convoglio carico di soldati diretti al fronte di Cassino era rimasto bloccato a Baragiano in attesa che fosse liberato il tunnel di Balvano. È verosimile ritenere, peraltro, che fossero soprattutto preoccupati di elidere, o meglio, di cancellare a buon mercato le proprie responsabilità.

Per quanto riguarda le vittime ritrovate in galleria, probabilmente straziate durante la manovra di recupero delle motrici e dei 45 carri, ne fu attuata la traslazione all’esterno soltanto a operazione conclusa. Si aggiunse qualche episodio di sciacallaggio a danno delle povere vittime, come quello perpetrato nei confronti del Professor Jura, diretto all’Università di Bari, alla cui salma sarebbe stato tagliato un dito per sottrargli l’anello (caso unico, perché quei morti non avevano gioielli ma oggetti da barattare, come il vecchio cappotto militare che un reduce aveva voluto mettere nel proprio bagaglio, nonostante le proteste della moglie, più propensa alla riutilizzazione per qualche figlio).

Sta di fatto che l’opera di riconoscimento e identificazione delle vittime fu affrettata e largamente parziale, anche per l’estrema difficoltà delle comunicazioni nell’Italia del 1944, senza dire della reticenza informativa di cui si diceva. Eppure, gli Alleati avrebbero potuto provvedere, se non altro, a fotografare i caduti, quasi tutti perfettamente riconoscibili perché, fatte salve le eccezioni di cui si è fatto cenno, avevano trovato un’angosciosa morte per soffocamento. Non fu possibile identificare nemmeno tutti i pochi superstiti, anche se dalle testimonianze emerge che alcuni di essi riportarono danni mentali permanenti.

Quanto all’accusa di Pietro Badoglio, secondo la quale i passeggeri del treno 8.017 sarebbero stati «di frodo», non è azzardato rammentare che, all’indomani di Caporetto (1917), il medesimo Generale aveva sollevato dubbi, assieme a Luigi Cadorna, sullo spirito combattivo dei soldati, ignorando le proprie responsabilità, o tentando di trasferirle sui quadri inferiori e sulla truppa. «Mutatis mutandis» è ciò che avvenne anche in quel plumbeo inverno del 1944 e nella nuova eclissi della Patria, senza dire che, come fu dimostrato, alcuni viaggiatori avevano pagato il regolare biglietto pur viaggiando in carro merci e in un convoglio gestito dall’Amministrazione Militare Alleata: in altri termini, se di frode si può parlare, questa sarebbe imputabile, con tutta evidenza, soltanto alla controparte, con danno esclusivo dei viaggiatori[3].

Su tale ultimo argomento un giudizio probante e definitivo è quello di Gennaro Francione, ex magistrato nipote di una vittima, secondo cui, anche per chi avesse usufruito del treno 8.017 senza titolo di viaggio, si sarebbe potuto parlare, al massimo, di un’illiceità amministrativa sanabile col pagamento di quanto dovuto, ma senza che venisse meno il diritto al risarcimento, a prescindere dalle responsabilità penali dei gestori da giudicare nelle sedi competenti.

L’interesse del Governo Italiano, rivolto a promuovere il silenzio e l’oblio, venne a coincidere con quello dell’Autorità Militare di occupazione, e la guerra, per parte sua, fece il resto, con i timori e le ansie che suscitava in tutti, a cominciare dalla popolazione civile. Fu così che di Balvano non si sarebbe più parlato per parecchio tempo, con lungo e colpevole silenzio: l’Amministrazione delle Ferrovie dello Stato aveva già rifiutato legittimamente ogni responsabilità[4], tanto che solo alla fine degli anni Cinquanta un modesto risarcimento fu erogato, a seguito di singole vertenze, ad alcuni eredi dei caduti, previo riconoscimento, non senza qualche forzatura, della qualifica di vittime civili di guerra.

In altri termini, è come se i caduti di Balvano fossero stati uccisi una seconda volta. È vero che c’era uno stato di belligeranza in atto; però, quei caduti (alcuni dei quali costretti anche all’anonimato a causa della fretta imposta per la sepoltura) non s’immolarono per un fatto riconducibile alla guerra, ma scomparvero per un’esigenza di vita propria e familiare, in un evento privo di qualsiasi collegamento sia ideologico sia politico, da attribuire alle sole predette responsabilità.

Il quotidiano inglese «Times» riprese in esame la storia di Balvano (1951) e ammise il silenzio dell’epoca e dei tempi successivi. Nondimeno, ritenne di poterlo interpretare in modo piuttosto semplicistico, alla luce dell’esigenza di «non deprimere ulteriormente il morale degli Italiani» impegnati nell’uscita dal conflitto e nella difficile opera di ricostruzione: una teoria non priva di aspetti surreali, perché l’approfondimento delle responsabilità avrebbe potuto e dovuto costituire, se non altro, una sorta di attenuante del dolore, tenuto conto che quelle attribuibili alle vittime erano inesistenti, e che le maggiori erano sicuramente istituzionali.


Note

1 La tragedia ferroviaria di Balvano è stata la più grave nella storia dell’Unità Italiana, ma il numero delle vittime è rimasto incerto, sia pure nell’ambito di una cifra complessiva superiore alle 600 unità, anche alla luce dell’ostracismo intervenuto immediatamente per una precisa scelta degli occupanti anglo-americani, e confermato in tempi successivi dal velo di silenzio scelto dai Governi Italiani del dopoguerra. In realtà, dalle ricostruzioni disponibili, fra cui quelle compiute anche in sede televisiva per le rievocazioni del 70° anniversario della strage (marzo 2014) in base ad attendibili testimonianze dei superstiti, le vittime recuperate sul treno sarebbero state 626, provenienti da oltre 60 Comuni Italiani, mentre altre 16 furono ritrovate in galleria nel corso delle successive ricognizioni: di qui, la stima conclusiva di 642 caduti. Resta da aggiungere che per parecchi non fu possibile l’identificazione, sia per l’impossibilità di raggiungere i congiunti e di trasferirli a Balvano per il possibile riconoscimento, sia per la rapida decisione degli Alleati di affrettarne la sepoltura in quattro fosse comuni.

2 La tragica vicenda dell’8 settembre continuava naturalmente a pesare, e si traduceva in quella di quanti, non avendo voluto o potuto aderire alla Repubblica Sociale Italiana, ovvero ai partigiani, stavano tuttora cercando un difficile ritorno ai luoghi d’origine, condizionato dalla pressoché totale indisponibilità di comunicazioni regolari, e reso maggiormente rischioso dalla necessità, per la gran parte di costoro, di dover comunque attraversare la linea del fronte con il forte pericolo di intercettazione per opera dei belligeranti.

3 La tesi del trasporto illegittimo, e compiuto per la maggior parte dei viaggiatori a vantaggio di presunti «contrabbandieri» continua incredibilmente a sussistere in alcune ricostruzioni dei fatti, tanto più opinabili nelle versioni che ne sono state fornite a livelli istituzionali. Sta di fatto che alle vittime di Balvano si può attribuire la sola «colpa» di essersi trovate nel momento sbagliato al posto sbagliato, in aggiunta a quella di avere cercato un obiettivo al momento arduo: quello di garantire, in primo luogo alle proprie famiglie, qualche antidoto sia pure temporaneo alla fame, pagando con il prezzo delle proprie vite le gravi colpe altrui. D’altro canto, in quel marzo del 1944 l’Italia era un Paese dimezzato, e peggio che mai, governato da Potenze in guerra all’ultimo sangue fra loro, mentre il suo popolo, per usare una congrua espressione di Alessandro Manzoni, altro non era se non «un volgo disperso che nome non ha».

4 Trascorso un ottantennio dalla strage di Balvano, si può tranquillamente affermare, a margine delle presenti riflessioni, che non ha senso imputare alle Ferrovie dello Stato alcuna specifica responsabilità. Tuttavia, l’occasione è congrua per mettere in luce che dopo quattro quinti di secolo la condizione infrastrutturale della linea rimane sostanzialmente invariata, con un ritardo nei confronti delle grandi direttrici italiane di trasporto su rotaia, aggravatosi visibilmente nel corso degli anni. Infatti, la tratta Battipaglia-Taranto, di fondamentale importanza per l’economia regionale lucana, e non solo, è sempre quella del 1944, con un solo binario di corsa, senza dire che Matera, secondo capoluogo di provincia regionale, continua a essere sprovvista del collegamento ferroviario con Ferrandina, quale stazione più vicina, nonostante la realizzazione dell’infrastruttura di base, ormai ampiamente datata, e priva di binari e traversine. Ebbene, nell’ambito del doveroso ricordo della tragedia di Balvano, anche queste considerazioni trovano diritto di menzione, e nella fattispecie, di conseguenti attribuzioni di responsabilità. Giova aggiungere che, dal canto suo, la bibliografia in materia resta notevolmente circoscritta, con specifico riguardo alla fondamentale opera di Gian Luca Barneschi (Il disastro dimenticato: treno 8.017, Editrice Mursia, Milano 2005) e quella di Patrizia Reso (Senza ritorno, Editrice Terra del Sole, Maiori 2013).

(giugno 2015; ripubblicato: aprile 2024)

Tag: Laura Brussi, Carlo Cesare Montani, Pietro Badoglio, Vincenzo Abbate, Orazio Pacella, Professor Jura, Luigi Cadorna, Gennaro Francione, Alessandro Manzoni, Gian Luca Barneschi, Patrizia Reso, Napoli, Balvano, Potenza, Lucania, Basilicata, Bella, Muro Lucano, Campania, Italia, Gaeta, Cassino, Ortona, Salerno, Battipaglia, Baragiano, Taranto, Matera, Ferrandina, Giorno della Dimenticanza, Linea Gustav, Abbazia di Montecassino, Regno del Sud, Autorità Militare Alleata, Consiglio dei Ministri, Treno 8.017, lignite jugoslava, Tunnel delle Armi, Grande Guerra, Università di Bari, Famiglia Cristiana, Ferrovie dello Stato, Times, Repubblica Sociale Italiana, partigiani.