Antonio Farinatti: Eroe del nostro tempo
Una vicenda umana e patriottica conclusa nella foiba di Vines (1943)

Con i suoi Caduti, nell’ordine di tante decine di milioni, se non altro a seguito delle due Guerre Mondiali, il terribile «secolo breve» ha lasciato un segno incancellabile nella coscienza collettiva, ivi compresa quella italiana. Da questo punto di vista, la grande storia trova supporti a non finire in quelle individuali, con un coacervo di tragedie che a loro volta hanno coinvolto tante famiglie, private degli affetti più cari e rimaste senza giustizia perché i responsabili di altrettanti delitti hanno fruito dell’impunità, se non anche di onori. Ciò è quanto accadde con particolare e drammatica frequenza nell’ultimo biennio del Secondo Conflitto Mondiale e in quello successivo, soprattutto nelle regioni settentrionali e più specificamente in Venezia Giulia, Istria e Dalmazia, accomunate nella «morte della Patria» di cui alla pertinente definizione di Ernesto Galli della Loggia, e nella scomparsa di ogni «pietas».

In quella stagione plumbea, accanto al tradimento e alla viltà di tanti, emersero esempi di alto valore morale e di fedeltà alle «alte non scritte e inconcusse leggi» che Sofocle aveva cantato sin dall’era precristiana. Un esempio che è giusto porre in evidenza a due terzi di secolo dai fatti è quello dato da Antonio Farinatti, Maresciallo Capo della Guardia di Finanza di Parenzo, che all’indomani del plumbeo 8 settembre escluse a priori l’ipotesi di una fuga ignominiosa restando fedele alla Bandiera e soprattutto al dovere di prestare ogni possibile aiuto alla popolazione civile della città istriana su cui stava per abbattersi l’onda d’urto della violenza slava, di cui non erano mancate anticipazioni probanti.

Antonio Farinatti

Foto di Antonio Farinatti

Uomo d’onore e sensibile sin da giovanissimo ai valori di un beninteso patriottismo, nel 1922 – quando era appena diciassettenne – aveva preso parte alla Marcia su Roma quale aderente alla Sezione della nativa Migliaro, in agro di Ferrara, e nell’anno successivo era stato insignito della «Medaglia commemorativa» coniata per la circostanza. Nondimeno, comprese subito che per servire al meglio la Patria avrebbe dovuto vestire una divisa istituzionale: scelse quella della Guardia di Finanza presentando la domanda di arruolamento avallata dall’assenso paterno, richiesta per legge giacché l’aspirante era ancora minorenne (all’epoca la maggiore età si raggiungeva al compimento del ventunesimo anno). Superate brillantemente le prove d’ingresso, Antonio fu arruolato nell’ottobre del 1923.

Dopo il corso d’addestramento frequentato a Verona[1], nel febbraio successivo ebbe l’onore di giurare fedeltà alla Patria e col 1° marzo entrò ufficialmente nel Corpo delle Fiamme Gialle con destinazione iniziale alla Brigata confinaria di Piedicolle (Gorizia) e con una lunga serie di trasferimenti successivi, secondo la prassi dell’epoca, seguita da meritori avanzamenti: Porto Nogaro, Cortina d’Ampezzo, Cernobbio, Piazzola, dove conobbe Angela Giulia che in seguito sarebbe diventata sua moglie e madre delle sue figlie. Poi fu destinato a Predazzo, dove completò la preparazione ottenendo il brevetto di sciatore, e quindi a Maslianico, Bormio, Maddaloni, Licata, Palma di Montechiaro, Firenze, Cesenatico, Bellaria, Ravenna. Giunto al maggio del 1938, fu inviato a San Pietro del Carso, in agro di Postumia: una nuova stazione di confine, in quella Venezia Giulia che avrebbe visto compiersi il suo tragico destino. Diventato Maresciallo all’inizio del 1940, le tappe successive furono Postumia città, e nell’ottobre del 1941 la Brigata litoranea di Parenzo, sulla costa occidentale dell’Istria.

Nel maggio del 1942 Antonio fu premiato con l’ultimo, importante avanzamento: quello al grado di Maresciallo Capo. In tale veste, era in servizio anche all’atto dell’armistizio (8 settembre 1943) quando la mancanza di ogni congrua direttiva da parte del Governo di Pietro Badoglio diede luogo allo sfascio militare italiano e alla diffusa ricerca di una salvezza assai problematica. Furono tanti coloro che, con ogni mezzo, tentarono la fuga: anche a Parenzo, il tentativo coinvolse l’Arma dei Carabinieri, che del resto aveva già ricevuto ordine superiore di ritirata, e in misura minore, la stessa Guardia di Finanza. Dal canto suo, Farinatti non ebbe dubbi sin dal primo momento e rimase al suo posto di Capo e, nello stesso tempo, in quello non meno importante di «pater familias», organizzando con le forze residue un servizio di Pubblica Sicurezza tramite pattuglie miste aventi lo scopo di assicurare l’ordine pubblico. Alla stregua dei documenti resi disponibili dalla storiografia locale, le Guardie «tennero bene» con un costante servizio di sorveglianza anche notturna[2].

I partigiani di Tito entrarono a Parenzo al mattino del 14 settembre. Erano una cinquantina e provvidero subito a dichiarare l’annessione della città alla Jugoslavia: nonostante i tentativi del Vescovo Monsignor Raffaele Radossi, iniziarono le perquisizioni, le confische e gli interrogatori, cui fecero seguito «i primi fermi e gli arresti di cittadini colpevoli solo di essere Italiani». Farinatti dovette assistere al saccheggio delle caserme, sia della Guardia sia dell’Arma e alla loro trasformazione in carceri ma tentò di indurre al ragionamento quanti sembravano più inclini a qualche possibile moderazione, senza curarsi del rischio personale, come da testimonianze dei Parentini esuli. Non ebbe successo, né in quelle condizioni poteva averne: nella notte fra il 20 e il 21 settembre fu prelevato nella sua abitazione da «elementi slavi» sotto gli occhi atterriti della consorte e delle figlie, la più piccola delle quali aveva quattro anni.

Il destino di Antonio e degli altri arrestati, nel numero di un’ottantina, era già segnato, e nel caso del Maresciallo lo era a più forte ragione perché doveva scontare il «peccato originale di avere preso parte alla Marcia su Roma, come ricordava il nastrino che indossava sulla propria uniforme»[3]. Trasferito nel carcere di Pisino e, dopo il bombardamento tedesco del 24 settembre, dentro le più sicure mura del Castello di Montecuccoli, riuscì a far partire una lettera non ancora priva di speranze il giorno 27, chiedendo alla moglie alcuni generi di prima necessità. La rapida avanzata della Wehrmacht per avere ragione dei partigiani fece il resto, accelerando la tragica conclusione della prigionia che per Farinatti ebbe luogo nella foiba di Vines in un momento imprecisato: probabilmente il 4 ottobre, anche se nella partecipazione della famiglia si fa riferimento al giorno successivo. Ciò avvenne senza trascurare l’agghiacciante rituale dei polsi legati dal filo di ferro fino alla frattura, delle sevizie, dell’accoppiamento ad altra Vittima e del cane nero destinato a latrare per l’eternità con lo scopo di negare ai Caduti, secondo una tradizione slava, persino la pace nell’aldilà.

Il resto è noto. Le Spoglie mortali furono recuperate il 25 ottobre dalla squadra dei Vigili del Fuoco al comando dell’eroico Maresciallo Arnaldo Harzarich. Quelle riportate alla luce a Vines furono 82, delle quali soltanto 51 poterono essere riconosciute: nel caso di Farinatti, a opera della moglie, che nonostante la benevolenza dei Parentini prese subito la decisione di lasciare l’Istria, innanzi tutto con la traversata dell’Adriatico a bordo di un peschereccio, per trasferirsi a Cernobbio nella casa paterna unitamente alle figlie: prima avanguardia di un esodo che sarebbe diventato quasi plebiscitario con la sola eccezione di pochi seguaci del nuovo regime.

Nel 2001 la «Famiglia Parentina» di Trieste, previa autorizzazione di competenza croata, riuscì a installare a Parenzo una lapide commemorativa degli infoibati locali, tra cui il Maresciallo Capo Antonio Farinatti. Dopo alcuni mesi, per ordine dello «Zupano» locale, fu scalpellato il riferimento ai Martiri delle foibe che evidentemente non era gradito, in barba alla conclamata collaborazione conciliatrice nel quadro della cosiddetta amicizia fra Italiani e Croati. Davvero, un ottimo esempio di «pietas» e di sensibilità; ma questa è un’altra storia.

Sebbene con ritardo obiettivamente inescusabile, la riconoscenza formale della Patria al Maresciallo Farinatti è sopraggiunta con espressioni ufficiali soltanto nel nuovo millennio: più precisamente nel 2008, con la consegna alla figlia Stefania della Medaglia di cui alla Legge 30 marzo 2004 numero 92 istitutiva del Ricordo, e soprattutto con quella della Medaglia d’Oro al Merito che avvenne in forma solenne nel Municipio di Cernobbio il 10 febbraio 2009, presenti le Autorità civili e militari, con una motivazione assai chiara e probante[4]. Giova aggiungere che, sempre nel 2008, la Bandiera di Guerra della Guardia di Finanza è stata insignita, a sua volta, della Medaglia d’Oro al Merito Civile, in riconoscimento dello «strenuo baluardo dell’italianità e dell’integrità territoriale» e per il contributo alla tutela delle comunità locali di Venezia Giulia, Istria e Dalmazia, e al soccorso dei profughi. Certamente tardi, ma meglio che mai!


Note

1 Per tutta la vicenda umana e militare dell’Eroe è fondamentale il testo di Gerardo Severino e Federico Sancimino, Antonio Farinatti: l’Eroe di Parenzo, Edizioni Carmelina, Ferrara 2019, 72 pagine. Trattasi di un testo assai attendibile che ha carattere ufficiale perché entrambi gli Autori appartengono alla Guardia di Finanza: il primo col grado di Maggiore, in possesso di notevoli esperienze anche in ambito storico, e il secondo come componente del Comitato di Studi. Una prima sintesi sull’argomento, a firma dello stesso Gerardo Severino, era già stata pubblicata da «L’Arena di Pola», Trieste 28 febbraio 2008, pagina 8.

2 Luigi Papo de Montona, L’Istria e le sue foibe: storia e tragedia senza la parola fine, Edizioni Settimo Sigillo, volume I, Roma 1999, pagina 90. Furono recuperate le armi di quanti erano fuggiti e si affrontò coraggiosamente una situazione resa già difficile da coloro che, «animati da falsi ideali politici, smaniavano di mettere le mani addosso ai ricchi patrimoni della laboriosa comunità italiana».

3 Gerardo Severino e Federico Sancimino, Antonio Farinatti: l’Eroe di Parenzo, Edizioni Carmelina, Ferrara 2019, pagina 50. Assieme a Farinatti caddero il Maresciallo Torquato Petracchi (infoibato a Villa Surani) responsabile locale dell’Arma dei Carabinieri e poi decorato con Medaglia d’Argento, il Colonnello Angelo Baraia, parecchi dirigenti, impiegati e operai dell’Azienda Carboni Italiani (Miniera di Arsia) compreso il direttore tecnico Alberto Picchiani; e tanti cittadini di Parenzo appartenenti a tutte le classi sociali, tra cui l’ostetrica Maria Nappi Battelli e la bidella Giovanna Della Picca: chiaro esempio di pulizia etnica ancor prima che socio-politica.

4 «Antonio Farinatti: con profondo spirito patriottico ed eroico coraggio, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 si adoperava nella difesa delle comunità italiane rimaste esposte alla rivolta della popolazione croata. Catturato da elementi partigiani sopportò con fiero contegno e serena fermezza intimazioni, minacce ed inaudite sevizie. Legato ai polsi con filo di ferro spinato venne barbaramente fatto precipitare in una foiba. Luminosa testimonianza di amor patrio ed elevatissimo senso del dovere. Ottobre 1943 – Parenzo (Pola)». Conviene precisare che a Parenzo la popolazione croata era una sparuta minoranza, e che le violenze furono opera precipua dei partigiani «liberatori» giunti alcuni giorni dopo l’armistizio.

(gennaio 2021)

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