Memorie di un combattente della Repubblica Sociale Italiana
Amleto Elio Patriarca[1]

La storia personale di tanti uomini della Repubblica Sociale Italiana che si distinsero nel campo dell’Onore, e che fa parte a buon diritto di quella generale, è tornata alla luce in tempi anche recenti, grazie alla memorialistica lasciata da questi protagonisti a futura memoria, e grazie alle scoperte postume negli archivi di famiglia, testimoni muti di episodi che soltanto in apparenza potrebbero definirsi minori.

Una di queste storie riguarda Amleto Elio Patriarca che nacque a Scauri, in provincia di Littoria (oggi Latina) il 15 gennaio 1924 e che visse nel contiguo abitato di Castelforte fino a 16 anni. Nel 1940, quando la guerra era scoppiata in Europa già dal settembre precedente, con un fraterno amico d’infanzia decise di arruolarsi nella MVSN (Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale) alla luce dei comuni ideali patriottici, e previa domanda fu chiamato a Littoria.

Qui, il Segretario della Federazione provinciale gli disse che come minorenne doveva tornare a casa, ma dopo parecchie insistenze Amleto Elio ottenne di essere inquadrato nei reparti. Nel frattempo anche l’Italia era scesa in campo (10 giugno 1940) e dopo la rapida vittoria sul fronte francese, tanti volontari partirono per l’Africa, da dove non sarebbero più tornati.

Patriarca ignorava le cose della vita e il suo patriottismo non gli impediva di avere una legittima paura, anche se in breve tempo aveva acquisito il conforto di tanti amici. Fu trasferito a Padova, dove rimase tre mesi in addestramento: al termine, fu destinato alla Milizia Contraerea assieme a una decina di compaesani e inviato dapprima a Portogruaro, in provincia di Venezia, poi a Fiume e infine a Trieste. Durante questi spostamenti il Gruppo rimase per alcuni giorni anche a Basovizza, sull’altipiano carsico, che in tempi successivi avrebbe assunto una tragica notorietà: se vi fosse rimasto, avrebbe rischiato di finire nella voragine.

Erano passati circa tre anni da quando Amleto Elio aveva lasciato il paese d’origine. Nel frattempo era diventato maggiorenne, anche ai fini della leva, per cui fu arruolato nell’Esercito (CXXVIII Reggimento di Fanteria). Quando sopraggiunse l’8 settembre 1943 si trovava a Firenze col reparto: nel caos più totale non sapeva cosa decidere ma gli ufficiali superiori dissero a tutti che si doveva andare a casa perché la guerra era finita. Patriarca e gli altri partirono in modo avventuroso e impiegarono più giorni per compiere fortunosamente il percorso da Firenze a Minturno: gli ultimi 100 chilometri, da Roma in poi, con 10 ore di treno. A casa fu accolto con un grande abbraccio ma ebbe l’immenso dolore di apprendere che suo padre era stato ucciso dai partigiani. La guerra aveva prematuramente colpito negli affetti più cari.

Riprese la vita di paese, ma per breve tempo: una mattina giunse improvvisamente un battaglione della Wehrmacht impegnato nei cruenti combattimenti sul fronte italiano. Ci fu un rastrellamento che si chiuse con l’arresto di 36 uomini, fra cui Amleto Elio: furono caricati su camion, condotti nel carcere militare di Gaeta e costretti a subire condizioni spaventose, mancando persino acqua e luce. Erano in preda al terrore, e convinti di essere destinati alla fucilazione anche se, naturalmente, non avevano alcuna «colpa» dell’armistizio.

Invece, dopo tre giorni ebbe luogo il trasferimento a Frosinone, e la notte successiva i prigionieri furono fatti salire su un treno merci; subito dopo, i vagoni – quasi a confermare la sorte infausta – furono immediatamente sprangati, e i prigionieri stessi reclusi in condizioni non meno orribili delle precedenti. Seguì la partenza, priva di alcuna notizia circa la destinazione, ed ebbe inizio un viaggio angoscioso. Era impossibile fuggire, ma in Toscana il convoglio fu fermato e i prigionieri poterono scendere per qualche istante, sorvegliati dalle sentinelle armate; nondimeno, qualcuno riuscì a parlare col macchinista concordando un rallentamento che consentisse di evadere attraverso un’apertura che alcuni animosi erano riusciti a praticare sul pavimento del vagone. Un compaesano di Amleto Elio volle provarci, purtroppo con esito infausto.

Dopo 70 ore di viaggio allucinante, il treno giunse in Germania, nei pressi di Monaco. I prigionieri erano diventati 2.000 e furono subito divisi: i Cattolici da una parte e gli Ebrei dall’altra, sempre guardati a vista e sistemati in baracche in ognuna delle quali c’erano 10 letti a castello e una stufa. Il vitto era minimo: la razione di patate, rape rosse e 20 centimetri di pane non era tale da placare i morsi della fame, che si tentava di esorcizzare con gli scarti della cucina, ma invano.

Contiguo a quello italiano c’era un campo di prigionieri russi e polacchi che stavano relativamente meglio perché erano assistiti dalla Croce Rossa Internazionale. Tuttavia, fu possibile qualche baratto, e Amleto Elio scambiò un paio di scarpe e una cintura per un pugno di cibo. Era la legge perversa della fame.

La giornata degli IMI (Italiani Militari Internati) era sempre uguale: appello sul piazzale, cani lupo pronti ad azzannare chi non avesse rispettato gli ordini, disposizioni secche e perentorie da parte dei padroni del campo, depressione fisica e morale, ma nello stesso tempo, una speranza dura a morire. E soprattutto, fame: uno strazio infinito, da provare per credere.

Una mattina, il fatto nuovo. Il comandante del campo disse che Benito Mussolini era stato liberato e che si era costituita la Repubblica Sociale Italiana: ebbene, chi avesse voluto poteva arruolarsi subito nelle nuove Divisioni repubblicane in fase di costituzione, e tornare in Italia al termine dell’addestramento. Bastava esprimere la scelta con un passo avanti. Lo fece un’ampia maggioranza.

Le condizioni di vita cambiarono immediatamente quanto a cibo, sistemazione logistica, vestiario, libertà di movimento. Amleto Elio fu aggregato alla Divisione «San Marco» che dopo tre mesi di esercitazioni fu inviata in Liguria, con destinazione Savona e impiego immediato nell’attività anti-guerriglia.

Tutti compresero che l’immediato futuro sarebbe stato drammatico, tanto più che i partigiani potevano contare sui mezzi forniti dagli Alleati e su notevoli aiuti popolari: Amleto Elio vide morire un commilitone proprio accanto a lui, con la gola squarciata da un proiettile della Resistenza.

Durante un rastrellamento, era entrato in una casa col fucile spianato e stava per andare via non avendo trovato segni di vita, quando vide una scarpa che spuntava da sotto un letto: era un partigiano, ma poco più che un ragazzino, tremante di paura. Amleto Elio gli disse di restare dov’era e di aspettare che la pattuglia si fosse allontanata: nella sua testimonianza, afferma di non avere fatto il proprio dovere, ma si dichiara fiducioso di avere compiuto un’opera buona.

In seguito, il reparto fu trasferito a Imperia con compiti analoghi mentre la guerra proseguiva con sorti sempre peggiori per le forze dell’Asse. Patriarca, grazie a un colonnello comprensivo che gli aveva fornito notizie della famiglia, precisando che i nonni si trovavano a Piove di Sacco, ebbe una licenza e prese il treno per Padova: era in divisa repubblicana, e tutti lo guardavano «in un certo modo».

La nonna non si era più ripresa dal dolore per il figlio ucciso dai partigiani e aveva lasciato il paese in preda alla disperazione: le fu di conforto poter abbracciare Amleto Elio. Questi non tornò alla sua Divisione perché la guerra finì prima del termine della licenza, ma sopravvennero nuovi guai. Subito dopo il 25 aprile 1945 venne da lui un partigiano col fazzoletto rosso al collo che gli intimò di seguirlo: dapprima nella locale caserma dei Carabinieri e poi nelle carceri di Padova, dove incontrò tanti camerati nelle sue stesse condizioni. Quello della fucilazione era un rischio concreto: due prigionieri, colpevoli soltanto di essersi battuti nel campo dell’Onore, furono passati per le armi senza processo.

Amleto Elio ebbe maggiore fortuna. Sottoposto a giudizio dopo vari mesi di detenzione e di vessazioni, con un avvocato d’ufficio perché non aveva soldi per pagarsi una vera difesa, il tempo fu galantuomo e valse a promuovere la comprovata consapevolezza che nulla poteva essergli imputato. Il giovane Patriarca aveva vinto la lotteria della sopravvivenza.

Al pari di tanti altri, molti dei quali non riuscirono a superare quella stagione plumbea ma che erano stati protagonisti di scelte consapevoli, aveva avuto una sola colpa: quella di amare l’Italia.

(Elaborazione dal diario manoscritto di Amleto Elio Patriarca)


Note

1 Amleto Elio Patriarca è «andato avanti» nel 2011, all’età di 87 anni. Qui, si è voluto dare nuova voce alla sua testimonianza diretta di Italiano e di combattente; e nello stesso tempo, onorare degnamente una sensibilità etica che costituisce esempio e lezione, avendo espresso indomita fedeltà alla Bandiera della Patria con la coerenza di tutta la vita. La testimonianza in parola è tratta da un memoriale manoscritto, opera del reduce, e riveduto nella sola parte formale, restando invariati sia lo spirito sia i fatti, narrati nell’originale stile quasi tacitiano.
Alcuni episodi sono davvero tragici: si pensi al commilitone che perde la vita nell’improbabile tentativo di fuga dal treno che stava trasportando i prigionieri verso la Germania, oppure alle fucilazioni che erano all’ordine del giorno a «liberazione» avvenuta. Erano di routine, invece, la fame e le angherie che imperversavano nei campi di prigionia, e sono a più forte ragione da comprendere – anche alla luce di questa condizione – le scelte, peraltro maggioritarie e spesso convinte sul piano ideologico, in favore della Repubblica Sociale Italiana.
Altri momenti, invece, illustrano senza bisogno di soverchie chiose l’umanità e la «cultura» socio-politica dei giovani volontari. A questo riguardo è davvero icastica la scena che segue alla scoperta del giovanissimo partigiano nascosto sotto il letto, durante una perlustrazione: Amleto Elio, contrariamente a ciò che gli sarebbe stato imposto dalla legge ferrea della guerra, gli risparmia la cattura, gli dice di aspettare la fine delle operazioni, ed esce nella consapevolezza di avere mancato agli obblighi militari, ma felice di avere compiuto «una buona azione». Ancora una volta, Amleto Elio rinnova la scelta in favore delle «alte non scritte e inconcusse leggi» che, già cantate da Sofocle per bocca di Antigone, vivono nel cuore degli uomini giusti affermando la priorità del diritto naturale nei confronti di quello positivo.
Amleto Elio avrebbe potuto odiare ma non si è lasciato coinvolgere da bassi sentimenti di rivalsa, o peggio, di vendetta, sebbene a guerra finita molti lo guardassero «in un certo modo». In effetti, una volta rientrato in Italia nei ranghi della nuova Divisione «San Marco» aveva accettato l’ordine di impegnarsi nelle operazioni anti-guerriglia invece di quelle in prima linea contro il nemico «ufficiale» che sarebbero state certamente preferite. Comunque sia, l’episodio del partigiano «graziato» dimostra chiaramente che, nel giudizio di Amleto Elio, costui non poteva essere amico ma che nello stesso tempo era un essere umano da trattare come tale: torna alla mente il «caro nemico» di cui ai ricordi di Don Luigi Stefani, indimenticabile Cappellano della «Tridentina», esule da Zara e grande uomo di fede e di azione.
Le riflessioni di Amleto Elio non lasciano spazio a qualsiasi ipotesi avversativa o dubitativa, diventando l’espressione di un pensiero comune a tanti combattenti della Repubblica Sociale Italiana: quello di onorare la Patria nel segno dell’«ethos», anche se le sorti del conflitto parvero difficili sin dall’inizio, per diventare disperate nel breve termine. Quei ragazzi seppero mantenere l’impegno sino alla fine senza lasciarsi condizionare da tentazioni di tradimento, spesso con olocausto della vita, e in ogni caso con l’unico conforto di avere fatto una scelta conforme alla voce della coscienza: se non altro per questo meritano rispetto anche da parte di quanti si impegnarono sul fronte opposto, e soprattutto, da parte dell’ampia maggioranza attendista.
Il contributo di Amleto Elio Patriarca alla conoscenza di uomini e cose dei terribili anni Quaranta, in questo senso, non è privo di un suo effettivo valore genuino. Scoperto quasi casualmente negli archivi familiari, propone riflessioni non effimere, e dimostra che la sensibilità e il patriottismo degli umili non hanno nulla da invidiare a quelli altrui. Anzi!

(marzo 2019; ripubblicato: novembre 2021)

Tag: Laura Brussi, Carlo Cesare Montani, Amleto Elio Patriarca, Seconda Guerra Mondiale, fascismo, Benito Mussolini, Sofocle, Antigone, Don Luigi Stefani, Scauri, Littoria, Latina, Castelforte, Europa, Italia, Africa, Padova, Portogruaro, Venezia, Fiume, Trieste, Basovizza, Firenze, Minturno, Gaeta, Frosinone, Toscana, Germania, Monaco di Baviera, Savona, Liguria, Imperia, Piove di Sacco, Zara, Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, CXXVIII Reggimento di Fanteria, Wehrmacht, Croce Rossa Internazionale, Italiani Militari Internati, Repubblica Sociale Italiana, Divisione San Marco, Divisione Tridentina, Resistenza, RSI.