Orrori della storia sovietica
La tragedia epocale dei bambini e dei giovani abbandonati in Russia (XX secolo)

La storia del mondo è costituita da un’interminabile serie di drammi individuali e collettivi che nel cosiddetto «secolo breve» ha fatto registrare un’agghiacciante accelerazione anche dal punto di vista dei numeri, coinvolgendo milioni di persone in tragedie infernali di cui troppo spesso si comincia a perdere persino il ricordo. Una di queste tragedie, da evidenziare anche alla luce di una durata decisamente abnorme, protrattasi fin quasi all’inizio del nuovo millennio, è quella che travolse l’esistenza di tanti bambini e giovani dapprima nella vecchia Russia, quale effetto della Grande Guerra, e poi nell’Unione Sovietica, in seguito alla Rivoluzione d’Ottobre, alla Guerra civile, alle successive persecuzioni contro i «nemici del popolo», e non ultime, alle carestie.

In materia, bibliografia e memorialistica sono relativamente limitate[1], ma permettono ugualmente di mettere a fuoco un dramma epocale dalle dimensioni davvero inusitate. Nel 1922, a otto anni dallo scoppio del Primo Conflitto Mondiale, e dopo gli eventi che ne scaturirono, non escluso il grave ristagno economico, si erano già avuti 16 milioni di Caduti, cui si era aggiunta la sciagura degli «unattended children» pari a non meno di sette milioni, destinata ad assumere un carattere ricorrente fino a diventare cronico.

Gli orfani di guerra e quelli causati dalle sanguinose vicende rivoluzionarie trovarono un sistema istituzionale che non era assolutamente in grado di confrontarsi con un problema di così ampio respiro. La servitù della gleba era stata abolita da alcuni decenni ma la mentalità rigidamente oligarchica delle classi dirigenti zariste era stata dura a morire, alimentando una Rivoluzione che dal canto suo si trovava costretta ad affrontare priorità ben più impellenti: dapprima, un lungo e drammatico conflitto civile, e poi la costruzione dello Stato comunista, in cui lo spazio per interventi assistenziali e previdenziali era rinviato a tempi futuribili, e al momento, pressoché inesistente. In altri termini, quei giovani, molti dei quali in età infantile, furono abbandonati a loro stessi: la cooperazione internazionale si fece premura di dare un supporto di forte impatto umano e civile accogliendo oltre quattro milioni di bambini russi, destinati in larga maggioranza agli Stati Uniti, ma gli altri rimasero in patria, in condizioni di totale abbandono.

Una parte minoritaria avrebbe trovato precarie occupazioni soprattutto nelle città, in quale condizione retributiva è facile immaginare; nondimeno, i venditori di fiori, giornali e sigarette, i facchini delle stazioni e i manovali delle imprese furono fortunati, per lo meno a fronte della maggioranza che non ebbe alternative se non quella di rifugiarsi nella delinquenza comune, nel tabacco, nell’alcol e nella droga, il cui spaccio ne trasse notevole e duraturo impulso.

Come sempre accade in siffatte situazioni, la prostituzione divenne una fonte prioritaria di sussistenza, in specie per le ragazze: secondo fonti del 1920, circa nove fanciulle su dieci non avevano avuto altra scelta, che peraltro era arrivata a coinvolgere persino bambine di sette anni e un numero significativo di maschi. Dal canto loro, gli appartenenti alle classi superiori, ivi compresi i militari e gli uomini della «nomenclatura» sovietica, non mostravano la benché minima comprensione, fino al punto da non escludere la tesi surreale di tare originarie, ignorando la lucida diagnosi di Fèdor Dostojevskij a proposito di tanti compatrioti derelitti: «Prima sfamateli, e poi chiedete loro la virtù».

La violenza nelle competizioni volte al controllo del territorio era all’ordine del giorno: le bande eccellevano nel furto e talvolta nelle uccisioni, nonostante gli arresti e le conseguenti pene detentive, determinando un clima di pericolo costante e un forte ostracismo da parte della cosiddetta «società civile» e della nomenclatura sovietica, la cui ostilità finiva per essere implementata anche dalla palese insufficienza degli interventi di polizia. Dal canto loro, quanti rifuggivano dall’inquadramento in associazioni a delinquere costituivano un problema nel problema, essendo a tutto disponibili: non poteva essere altrimenti, visto che arrivavano a nutrirsi di immondizie e a passare la notte in antiquati e luridi cassonetti.

Il dramma dei «besprizorniki» – lungi dall’avviarsi a soluzione dopo il consolidamento del potere comunista – si andò cristallizzando senza apprezzabili soluzioni di continuità. Anzi, finì per trovare motivi di ulteriore proliferazione nelle nuove leve di orfani rivenienti dalle purghe staliniane degli anni Trenta, quando milioni di Russi vennero imprigionati nei tristemente celebri «Gulag», senza dire delle esecuzioni capitali che si contarono a centinaia di migliaia: ciò, con la successiva aggiunta degli ulteriori, innumerevoli orfani causati dalla «Grande Guerra Patriottica» (1941-1945) che furono almeno due milioni e mezzo. Il Governo promosse una politica di adozioni che peraltro non superarono il 10%: cifra comunque ragguardevole se si pensa alle condizioni di estremo disagio in cui i cittadini dell’Unione Sovietica vissero quella stagione angosciosa. Poi, le cose andarono migliorando, sia pure molto lentamente: all’inizio degli anni Novanta, quando il Muro di Berlino era appena crollato, si contavano ancora 59.000 giovani «homeless» facendo emergere, oltre tutto, una crescita del 10% rispetto alla rilevazione del 1988.

Al fenomeno dei «besprizorniki» diede ampio risalto Indro Montanelli, inviato di guerra nel 1941 sul fronte russo-finlandese quando ebbe modo di constatare «de visu» la loro propensione a combattere con la massima durezza nelle operazioni più ingrate, dove si richiedevano doti disumane come il disprezzo della propria stessa vita. In conseguenza, il grande giornalista toscano si chiese se il «piccolo padre» Stalin li impiegasse nell’intento di accelerare la vittoria, o non piuttosto in quello di liberarsi – una volta per tutte – da un problema davvero pervicace come quello degli «unattended».

Giova aggiungere che taluni riferimenti di contenuto parzialmente analogo sono presenti anche nelle opere di Georges Simenon, Aleksandr Solgenitsin e Boris Pasternàk. Il primo, in occasione di un viaggio sul Mar Nero del 1933 con visite a Odessa e Batumi, si rese conto che la situazione era ben lungi dal potersi dire risolvibile, in specie quando udì la sua guida affermare che quei tanti, o meglio, troppi ragazzi avevano «il diavolo in corpo» per cui erano sostanzialmente irrecuperabili. Il secondo, invece, ha raccontato che nei campi della Siberia o della Kolyma i giovani orfani finivano per essere vittime degli altri prigionieri che li pestavano senza pietà, e non solo degli aguzzini di Stato, diventando gli ultimi degli ultimi; mentre Pasternàk ha fatto chiare allusioni alle liste di bambini senza nome mai ritrovati dalle famiglie superstiti nelle rare ricerche effettuate a mezzo stampa, e già rinominati tramite cognomi di fantasia, come nel caso della giovane Tanja descritto nel Dottor Zivago.

Concludendo: il comunismo propugnava la redenzione planetaria e la palingenesi sociale, ma il vecchio assunto machiavelliano secondo cui i popoli sono «oggetto di storia» vi avrebbe trovato conferme clamorose nonostante l’apparente superamento del Segretario Fiorentino con la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo, l’abolizione della schiavitù e il suffragio universale.

Sta di fatto che la tragedia dei bambini e dei giovani russi abbandonati durante un intero secolo e sacrificati alle esigenze di opposte ma analoghe ragioni di Stato come quelle delle oligarchie zariste o comuniste, costituisce un monito perenne, e una pagina da cui è doveroso rimuovere le permanenti cortine di silenzio: con ciò, restituendo visibilità storica alle Vittime di un sistema senza giustizia, e rimuovendo il fatalismo con cui l’anima russa – in talune condizioni di tempo e di luogo – è indotta ad accogliere le sventure causate dal destino (e dal carattere velleitario di reazioni popolari destinate all’insuccesso).

Quei bambini e quei giovani vestiti di stracci, che si spostavano da un capo all’altro del Paese aggrappati alle balestre dei vagoni ferroviari e cercavano un improbabile riparo dal gelo negli scantinati delle stazioni o delle fabbriche, non avevano potuto trovare ricovero, salvo poche eccezioni, nemmeno nelle scarse e fatiscenti strutture di vecchi orfanotrofi più simili a un lager che a un luogo di accoglienza: mai come in quei casi, il potere aveva manifestato il suo vero volto «demoniaco» – come da pertinente definizione di Gerhard Ritter – e sottolineato in maniera icastica quanto fosse giustificabile la contestazione moscovita del novembre 1989, in concomitanza con le tradizionali ma ripetitive celebrazioni della Rivoluzione sovietica, quando si era finalmente compreso, non senza sconforto, che la nuova Russia aveva compiuto «72 anni di marcia verso il nulla»[2].


Note

1 Oltre a una serie significativa di saggi monografici su riviste storiche, sia anglosassoni che russe, la bibliografia più esauriente disponibile sull’argomento è statunitense e britannica. Al riguardo si vedano: Alan M. Ball, And now my soul is hardened: Abandoned Children in Soviet Russia (1918-1930), University of California Press, London 1994; e Orlando Figes, A People’s Tragedy: the Russian Revolution (1891-1924), Penguin, New York 1996. Da parte italiana, si deve citare la recente opera di Luciano Mecacci, Besprizornye: Bambini randagi nella Russia sovietica (1917-1935), Casa Editrice Adelphi, Milano 2019, 274 pagine (con 35 fotografie fuori testo).

2 L’espressione è del politologo francese Jean François Revel (1924-2006) che fu Accademico di Francia, filosofo, storico, scrittore e giornalista, nonché «ghost-writer» del Presidente François Mitterrand.

(giugno 2020)

Tag: Carlo Cesare Montani, orrori della storia sovietica, bambini abbandonati in Russia, XX secolo, Fèdor Dostojevskij, Indro Montanelli, Georges Simenon, Aleksandr Solgenitsin, Boris Pasternàk, Nicolò Machiavelli, Gerhard Ritter, Alan M. Ball, Orlando Figes, Luciano Mecacci, Jean François Revel, François Mitterrand.