Andrej Romanovič Čikatilo
Assassino da guinness dei primati

In tutti i tempi, non sono mai mancati personaggi che, con le loro malefatte, hanno fatto rabbrividire la gente normale, cioè la gente che, quale appartenente alla specie umana, ritiene che questa debba essere rispettata e non ignominiosamente maltrattata ed eliminata, spesso per futili motivi, sempre che ci siano.

Di questa triste schiera fa parte anche Andrej Romanovič Čikatilo, un Russo nato a Yabluchnoye, un villaggio dell’Unione Sovietica, nel 1936, che, grazie ai suoi criminosi atti contro il prossimo, si è ammantato dei nomignoli più abietti che si possano addossare a una persona: «Macellaio di Rostov», «Mostro di Rostov», «Lo squartatore rosso»; tutto questo grazie al suo atroce comportamento nei confronti dei suoi simili. È stato un assassino spregevole, spietato, disumano, insensibile: alla fine, è risultato responsabile dell’uccisione di 53 persone, fra uomini, donne e bambini, senza distinzione di sesso e di età.

Quando era ancora bambino, il mondo attorno a lui era in fermento: richiami alle armi dei riservisti e delle nuove leve e preparazione di mezzi di offesa e di difesa, in quanto si stava preannunciando l’inizio del Conflitto Mondiale, che non si fece molto attendere. Infatti, scoppiò dopo pochi anni e, dopo furiose battaglie, lo stivale nazista riuscì a calpestare il suolo sovietico, per lo meno per quanto riguarda la sua parte europea. Furono tempi duri per i Russi, soggetti ad angherie per chi non si comportava da collaboratore con il nemico.

La madre di Čikatilo, Anna, fu una delle vittime dello strapotere di soldati teutonici, per cui fu diverse volte maltrattata e stuprata e i risultati portarono alla nascita di una sorella, Tatiana: è l’ipotesi più credibile. Sicuramente, una vita da incubi, trascorsa fra i bombardamenti e l’inferno in cui era costretta a vivere la madre, tanto che egli cominciò a odiare visceralmente gli invasori.

La vita con la madre (il padre Roman in guerra fu catturato dai nazisti e solamente nel 1949 fece ritorno a casa) non era delle più facili. Il bambino dormiva insieme con lei e, essendo incontinente, qualche volta si bagnava e la madre, invece di consolarlo e di cercare, qualora fosse stato possibile, di aiutarlo a superare questa spiacevole e umiliante debolezza fisica, lo mortificava e, come se non bastasse, lo picchiava. Certamente, il tutto serviva per fare incattivire il suo animo. Forse egli ritenne che la severità della madre, che successivamente ebbe problemi psichici, nei suoi confronti fosse una reazione violenta, naturalmente ingiustificata, alle cattiverie che i Tedeschi le riservavano; infatti, egli aveva iniziato a pensare quanto sarebbe stato bello prendere i suoi seviziatori, portarli in un bosco e, prima di farli fuori, seviziarli crudelmente.

Finita la guerra, Andrej Čikatilo si iscrisse a una scuola, dove si comportò da buono studente e dalla quale uscì con il relativo diploma. Non riusciva, però, a familiarizzare con i compagni di scuola, tanto che divenne vittima del loro bullismo, anche perché, essendo questi venuti a conoscenza che era incontinente, era fatto segno da umiliazioni, quando queste non sfociavano in aggressioni fisiche vere e proprie.

Tentò di iscriversi all’Università di Mosca, ma non fu ammesso.

Comunque, dopo aver completato i suoi impegni con lo Stato, si traferì a Rodionovo-Nesvetajskaja, dove trovò un impiego con la qualifica di tecnico telefonico.

Nel 1954, cominciò a sentire gli ardori della gioventù e, invece di tentare la via intrapresa dai giovani – diciamo – normali, aggredì un’amica tredicenne della sorella. A quel punto, questa, vedendolo così imbranato nel trovarsi una ragazza e affinché non combinasse altri guai, gliela procurò lei, facendogli sposare la sua amica Feodosia Odnacheva, di tre anni più giovane; dal matrimonio nacquero due figli, Lyudmila e Yuri. Purtroppo, lui aveva problemi riguardo la vita sessuale e, infatti, stando alle indiscrezioni, fu l’inseminazione effettuata con una siringa ripiena dei suoi spermatozoi che lo rese padre due volte.

In ogni modo, le cose sembravano andare per il meglio quando, dopo essersi laureato nel 1971 in Lingua e Letteratura Russa presso la Libera Università d’Arte di Rostov, divenne insegnante elementare a Novošachtinsk e, nel contempo, si iscrisse al Partito Comunista. Malauguratamente, non fu un buon docente: tanto è vero che non riusciva a trattare i suoi allievi con il dovuto rispetto, per cui continuò a insegnare, sì, ma uscendo da un istituto per entrare in un altro, perché risultava che abusasse dei suoi allievi e, quando i dubbi sul suo operato si trasformavano in realtà, l’organizzazione della scuola preferiva licenziarlo, per non incorrere nel rischio del diffondersi di una mala fama sull’istituto, se si fosse denunciata la sua condotta riprovevole: insomma – conclusione più o meno logica –, meglio mandarlo fuori dai piedi e dimenticarlo.

Cessato l’insegnamento, fu assunto come commesso, incarico che gli consentiva di viaggiare per il suo Paese.

Era il 1978, quando si trasferì con la famiglia a Šachty, una cittadina non lontana da Rostov, sede di aziende minerarie, dove fu acquistata una casa in pieno bosco. E qui, con la prima vittima, iniziò la sua carriera di assassino seriale. Alla fermata dell’autobus trovò una bambina disperata, che aveva perduto lo scuolabus. Le offrì un passaggio, convincendola che l’avrebbe portata a casa e l’avrebbe scusata con la madre per il ritardo, evitandole un sicuro rimprovero. Con la scusa che la sua auto era dall’altra parte del bosco, vi entrò e qui tentò di stuprarla; alla sua violenta reazione, la pugnalò a morte, le tagliò la lingua e ne dilaniò quel corpo, che non si preoccupò affatto di nascondere, ma che lasciò in bella vista dov’era caduto. Questa azione malvagia fu una vera maledizione per il suo comportamento futuro, poiché gli procurò una soddisfazione tanto grande da raggiungere l’orgasmo.

Così iniziò quel percorso che lo avrebbe spinto a continuare questa forma di godimento sessuale mascherato, puntato sulla violenza contro donne e bambini, perché si era convinto che era l’unica via percorribile per essere soddisfatto fino in fondo. Secondo quanto si è riscontrato, se da un lato la sua colpevolezza era evidente, dall’altro lato gli andò bene, giacché il delitto fu attribuito a un altro, un venticinquenne già incriminato per una malefatta analoga, che fu pertanto condannato a morte e giustiziato.

Dopo una sosta – si fa per dire – nella sua attività, nel 1982 riprese le sue vesti di assassino a pieno ritmo, affrontando giovani disadattati, vagabondi o similari nelle fermate degli autobus o nelle vicinanze della stazione ferroviaria e, dopo averli convinti a seguirlo nel bosco vicino, ripeteva il suo rito letale.

Nell’estate dell’anno successivo, uccise quattro persone fra donne e bambini. In quelle occasioni, provava ad avere rapporti sessuali sui disgraziati in suo potere, ma non riusciva a combinare nulla, diventando una bestia feroce, specialmente se la donna avesse avuto l’ardire e l’insolenza di prenderlo in giro per la sua impotenza: senza indugio, la pugnalava a morte. In qualunque modo, il risultato era sempre lo stesso: solamente l’atto di uccidere garantiva la sua soddisfazione sessuale. Insomma, sembra di sentirlo dire: «Non ci vuoi stare? Meglio così: meno fatica e massimo piacere!», e via, la coltellata fatale.

Ciò che fa scalpore è la circostanza secondo la quale in Russia, a quei tempi, si riteneva che fatti del genere potessero accadere solamente nei Paesi con regime non comunista, essendo – si diceva – una depravazione caratteristica delle Nazioni dominate dal capitalismo. Insomma, le autorità andavano tranquillamente per la loro strada, e gli assassinii continuavano a verificarsi. Questa forma di ignoranza era talmente consolidata, che i bambini non erano avvertiti del pericolo che poteva derivare dall’incontro con persone sconosciute.

Con questi presupposti, negli anni Ottanta del secolo scorso, la fantasia popolare, che è irrefrenabile, iniziò a formulare le sue ipotesi, basate sulla convinzione che le barbarie fossero da attribuire a stranieri, che uccidevano soprattutto i bambini, per preparare il terreno a una futura invasione del suolo patrio (inspiegabile il collegamento); inoltre, si cominciò a pensare, fra l’altro, che si trattasse di uccisioni compiute da bestie feroci e perfino da lupi mannari.

Intanto, furono ritrovati i corpi di sei ammazzati (più tardi, si venne a sapere che le vittime erano 14). A quel punto, le autorità russe non potevano più far finta di niente e girarsi dall’altra parte, per cui da Mosca inviarono a Rostov un gruppo di investigatori, capeggiato dal maggiore Michail Fetisov, con lo scopo di cercare di far luce su tutte quelle uccisioni. Questi concentrò le sue indagini nella zona attorno a Šachty, affidandone la direzione all’esperto medico legale Viktor Burakov. Furono passati al setaccio tutti i dementi della zona e quelli sicuramente autori di stupri e scelleratezze sessuali. Chi aveva un alibi, era lasciato libero, mentre gli altri erano soggetti a interrogatori molto pesanti dai quali, però, era assai difficile trarre conclusioni, quando si trattava di malati di mente; si sa che uno di loro si suicidò in cella. Anche gli omosessuali furono messi sotto torchio. Tutto il lavoro compiuto riguardò l’interrogatorio e la schedatura di circa 150.000 persone, ma non si cavò il classico ragno dal buco, tanto che l’indagine fu un insuccesso e di conseguenza venne abbandonata.

A questo punto, sembra di poter dire che chi intendeva ammazzare la gente aveva campo libero, tanto che nell’anno 1984 furono uccise 15 persone e la polizia cercò il colpevole (o i colpevoli) attraverso l’impiego di agenti in abiti civili, che controllavano i punti in cui le future vittime potevano essere avvicinate da estranei, per esempio nelle fermate degli autobus e nelle stazioni dei treni.

Durante uno di questi controlli, la condotta di una persona a una fermata degli autobus di Rostov fece scattare i sospetti degli addetti, tanto che fu arrestata: era Čikatilo. Avendo trovato che era inquisito in merito a furtarelli denunciati da un datore di lavoro, fu trattenuto, per rivangare se ci fossero altri nei nel suo passato. Trovarono che certi crimini erano stati commessi da lui, ma non assassinii, per cui la condanna fu lieve: un anno di prigione, ridotto poi solamente a tre mesi, trascorsi i quali fu rimesso in libertà alla fine del 1984. Del resto, dall’accusa di assassinio andò assolto, anche se erano state avanzate certe ipotesi e molti dubbi che lo avrebbero potuto mettere con le spalle al muro. Le conoscenze sui fluidi corporei e sul DNA di oggi sarebbero state sufficienti per incriminarlo, ma allora, per giustificarsi, si pensò che ci fossero stati scambi nei campioni, e pertanto non si fece nulla. I Russi che seguivano le analisi avevano centrato il problema, però non solo non furono creduti da chi di dovere, ma furono pure ridicolizzati. E alla fine, Čikatilo, non volendo la giustizia spendere ulteriori denari per fare le ricerche giuste, fu rimesso in libertà.

Solamente più tardi si ebbe la sicurezza del suo coinvolgimento nei delitti, ma nel frattempo sciaguratamente i delitti erano continuati.

Il nostro trovò lavoro a Novočerkassk, ma non si fece troppo onore. In compenso, l’anno dopo uccise due donne in momenti diversi; poi, nel 1987, nel mese di maggio, uccise un ragazzo durante una trasferta per lavoro a Revda in Ucraina, quindi a giugno fece un’altra vittima a Zaporižžja e un’altra ancora a San Pietroburgo, nel mese di settembre.

Già nel 1985 la polizia si era interessata al costante ripertersi di uccisioni, quando aveva incaricato delle indagini Issa Kostiyev, il quale cominciò a esaminare a fondo ogni fatto delittuoso di sua conoscenza e mise sotto torchio i delinquenti aventi predilezione per le malefatte a fondamento sessuale; inoltre, furono fatti controlli nei punti delicati delle zone di Rostov.

Čikatilo, conscio dei pericoli che correva, commise i suoi reati alla larga dalla città e nel 1988 si permise di compiere un altro omicidio, mentre la polizia aveva affidato a uno psichiatra le ricerche sugli omicidi seriali.

In ogni modo, la sua attività criminale non ebbe mai soste, come lo dimostrano prima l’uccisione di una persona a Krasny-Sulin nella primavera, per accelerare la sua malvagia attività durante l’anno, con otto omicidi, di cui due perpetrati a Šachty. E, dopo una lunga pausa, si dedicò all’uccisione di sette ragazzi e di due donne nel 1990.

Il fatto che praticamente i corpi delle vittime fossero regolarmente scoperti, pungolò gli agenti della polizia, che iniziarono, in divisa nelle zone centrali e in borghese in quelle periferiche, a pattugliare sia le stazioni ferroviarie, sia le fermate e i capolinea degli autobus, sia i parchi e le zone isolate di Rostov e dei dintorni. Poiché dove erano in servizio i poliziotti in divisa sicuramente l’assassino non si sarebbe fatto vedere, preferendo le zone maggiormente isolate, qui gli agenti erano non riconoscibili. Anzi, per attirarlo e farlo cadere in trappola, molti di loro si erano travestiti da prostitute o da disadattati o nomadi e giravano avanti e indietro nelle zone di ritrovamento dei corpi delle vittime.

Quando il 6 novembre uccise e deturpò il corpo di Sveta Korostik, Čikatilo fu fermato da un poliziotto che pattugliava il territorio nelle vicinanze della stazione ferroviaria, insospettito dal fatto che lui stava uscendo da un bosco, pur non essendo vestito degli abiti che normalmente sono indossati dai cercatori di funghi e portando una borsa di plastica che era inadatta a raccoglierli. Inoltre, gli abiti erano stazzonati e, per di più, sul volto aveva sfregi compatibili con una difesa da parte di una donna per mezzo di unghie. Controllò i suoi documenti e poi lo lasciò andare; peccato non gli sia venuta la curiosità (come professionalmente sarebbe stato corretto) di esaminare il contenuto della borsa: si seppe poi che conteneva i seni della donna. L’agente in ufficio stese il suo rapporto con le generalità di Čikatilo. Nello stesso giorno furono trovati i corpi di due persone, a poca distanza l’uno dall’altro, nei pressi della stazione di Leschoz, una delle quali sicuramente era stata uccisa il giorno stesso della compilazione del rapporto.

La polizia, però, non riteneva di avere a disposizione prove tanto schiaccianti nei suoi confronti da autorizzarne l’arresto e il conseguente processo. Così, si decise di tenerlo costantemente sotto controllo, seguendone i movimenti e filmandolo, da parte di poliziotti in borghese. Finché, una sera, uscì dalla sua abitazione con un contenitore da birra e, dopo aver inutilmente cercato di circuire bambini, entrò in un bar, dove acquistò la bevanda e, avendo tentato ancora di avvicinare dei pargoletti, gli agenti decisero di arrestarlo. Il fermo non poteva durare più di dieci giorni, per cui si doveva decidere se trattenerlo o lasciarlo libero. Intanto, fu trovato un altro corpo e, siccome si trattava di un sedicenne molto robusto e sul luogo del delitto si riscontrarono tracce che denunciavano una lotta fra vittima e carnefice, e per di più Čikatilo aveva una ferita da morso in un dito, che non aveva fatto curare, i sospetti cominciarono a trasformarsi in certezza.

Un’osservazione particolare va fatta in merito al modo con cui gli investigatori riuscirono a far confessare i suoi delitti. Chi lo interrogava partì da lontano, facendogli credere che sicuramente l’assassino seriale non potesse essere altro che una persona con grossi problemi psichici e che i suoi delitti non fossero altro che una forma di «richiesta di aiuto» per risolverli. Questo fu un «modus operandi» centrato, giacché Čikatilo cadde nella trappola, in quanto ritenne che, qualora avesse confessato i suoi delitti, erano buone le probabilità di essere ritenuto malato di mente e, perciò, non perseguibile penalmente. Uno psichiatra, Alexander Bukhanovsky, con il quale ebbe una lunga conversazione, fu talmente abile da entrare nelle sue simpatie e, alla fine, da carpire la sospirata confessione. Per completare la faccenda, Čikatilo aiutò gli investigatori fornendo loro le prove necessarie per farlo processare.

Così, alla fine, confessò che le sue vittime furono 53, mentre ai poliziotti ne risultavano... solamente 36, o perché erano fuori dai territori della sua attività criminale o perché irriconoscibili oppure perché i corpi non erano stati trovati; risulta, nientemeno, che certe parti di corpi siano state da lui mangiate.

Però, ciò era più che sufficiente per poterlo processare: in effetti si potrebbe commentare che ciò che avevano a disposizione «bastava e avanzava»!

Come accade sempre, quando in un carcere entra qualcuno che sia stato condannato per motivi bestiali (crimini a sfondo sessuale, in particolare se commessi su bambini), gli altri detenuti tendono a starne alla larga o maltrattarlo o finanche a decretarne un’esecuzione sommaria; e il timore di un’azione punitiva nei suoi confronti era nell’aria, poiché diversi parenti delle vittime lavoravano nelle prigioni o erano addirittura secondini. Per tutto ciò, Čikatilo era mantenuto sotto controlli severi e sotto l’occhio di telecamere. Anzi, furono proprio queste a tradirlo, nel senso che riportavano il suo comportamento normale quand’era in cella, mentre quando era con gli investigatori si comportava in maniera stravagante.

Mangiava regolarmente, leggeva libri e giornali, scriveva articoli per un giornale locale, restava in contatto con i suoi familiari e avanzava lamentele contro il Governo e tutti.

Alla fine, il 4 aprile 1992 ci fu il processo, durante il quale egli si comportò in maniera tale da essere considerato demente, come del resto la difesa cercò di dimostrare. Tuttavia, le risposte coerenti alle domande fatte dai giudici e il piacere che manifestava nel raccontare i suo delitti furono sufficienti ai giudici per riconoscergli la sanità di mente. Da notare che durante il processo era isolato in una gabbia di ferro posta al centro dell’aula, fra le urla dei parenti delle vittime, che chiedevano ad altissima voce che il carnefice fosse affidato alle loro mani, per poterlo giustiziare direttamente; gli svenimenti e le risse non si contarono. Il processo fu concluso a luglio e la sentenza terminò con la dichiarazione che Čikatilo era condannato a morte per ciascuno dei 52 omicidi commessi, su 53.

Durante il periodo anteriore all’esecuzione, avvenuta il 14 febbraio per un colpo di pistola sparatogli alla testa, direttamente dietro l’orecchio destro, nella prigione di Rostov, il suo comportamento fu fuori del normale, con accuse di ingiustizia da parte del Governo e di esponenti politici, con scenate pietose, addirittura togliendosi i pantaloni a proposito della sua impotenza, e per giunta vantandosi di avere eliminati individui di nessun valore e di peso per la società, come prostitute, alcolisti, sbandati, ragazzi fuggiti da casa o altro ancora.

Il tentativo di un appello al Presidente Russo Boris El’cin per fargli ottenere la grazia non ebbe nessun effetto.

(febbraio 2022)

Tag: Mario Zaniboni, Andrej Romanovič Čikatilo, Yabluchnoye, Unione Sovietica, serial killer, Macellaio di Rostov, Mostro di Rostov, squartatore rosso, Feodosia Odnacheva, Partito Comunista, Šachty, Rostov, Michail Fetisov, Viktor Burakov, Issa Kostiyev, Sveta Korostik, Alexander Bukhanovsky, Boris El’cin.