Il Tricolore Italiano
Giuseppe Compagnoni e la nascita della nostra bandiera: una storia poco conosciuta

Il Tricolore Italiano nacque nel 1797, precisamente il 7 gennaio. La Repubblica Cisalpina era stata proclamata da dieci giorni e i rappresentanti di Bologna, Ferrara, Modena e Reggio Emilia, che formavano il Congresso dei Cento, si riunirono a Reggio, per sistemare la nuova Costituzione, che non era del tutto coincidente con quella che Napoleone importò dal suo Paese. In quell’occasione, si decise pure quali colori dovesse avere la bandiera italiana. Essa derivò, come quelle di altri Stati Europei, dalla bandiera francese e sarebbe stata composta di tre bande, della stessa dimensione. Prima il verde, partendo dall’asta, poi il bianco, infine il rosso. La scelta delle tonalità non ha origini certe. Una prima versione, che è definita piena di un significato piuttosto romantico, vuole che il verde derivi dai toni predominanti del verde delle pianure, il bianco dal colore abbagliante delle nevi perenni delle Alpi e degli Appennini e il rosso dal sangue versato dai nostri eroi nelle lotte combattute per cacciare lo straniero e unire la Penisola in uno Stato unico. Una seconda versione fa riferimento alle virtù teologali: il verde per la speranza, il bianco per la fede e il rosso per la carità. Qualcun altro ritiene che il bianco rappresenti la purezza e la lealtà dei patrioti caduti per l’unità della Patria, mentre il verde resta quello della speranza e il rosso quello del sangue dei patrioti stessi.

Ora, questo vessillo, che fu colto con entusiasmo dalle menti rivoluzionarie che iniziavano ad agitare il popolo peninsulare, fu proposto da una persona alla quale la storia sembra non aver dato il giusto merito: era Giuseppe Compagnoni, che aveva visto la luce il 3 marzo 1754 a Lugo di Romagna.

Forse, proprio per questo suo merito, cioè per quello di mostrare agli Italiani ogni giorno che passa la «sua» bandiera, il minimo che si possa fare sta nello spendere qualche parola in ricordo dell’impulsivo Romagnolo.

A quell’epoca, il giovane Giuseppe ricopriva il ruolo di segretario dell’Amministrazione Centrale di Ferrara. A prima vista, il personaggio sembrava non fosse nulla di eccezionale e al di fuori di ogni norma, ma invece sì, lo era, eccome, perché in lui esistevano due personalità estreme che, toccandosi, facevano scintille: infatti, mentre da una parte egli era uno dei più estremisti fra gli oppositori del potere temporale della Chiesa, e si era formato nella Romagna dove già iniziavano a germogliare le prime tendenze anarchiche, dall’altra nello stesso tempo – ed è ciò che maggiormente fa notizia – egli era un sacerdote; eh sì, avete inteso bene, proprio un prete. A Ferrara si trovava come un pesce fuor d’acqua, poiché qui ancora padroneggiavano ed erano preminenti il tradizionalismo e il convenzionalismo, anche se si iniziava a intravedere una parvenza di reazione a quell’immobilismo voluto dallo Stato Pontificio che, dalla devoluzione del Ducato Estense alla Chiesa, ha segnato la storia cittadina, costringendo i Ferraresi, più che a vivere, a vegetare nei cosiddetti «secoli bui», che hanno contrassegnato un periodo di cui ben poco si ritiene sia memorabile o, almeno, degno di essere ricordato. Che fosse in atto una specie di rinnovamento lo dimostrano i risultati del referendum indetto per l’instaurazione della Repubblica Cisalpina: i «NO» vinsero, tuttavia i «SÌ» furono inferiori solamente per alcuni voti.

Perciò, se fosse stato per la sola città di Ferrara (per fortuna nelle altre città interessate i «SÌ» furono vincenti), la Repubblica Cispadana sarebbe rimasta solo una chimera. Era stata, una parte dei Ferraresi, troppo consenziente al potere del Papato oppure temeva i potenziali possibili contraccolpi da attribuire a radicali cambiamenti? Comunque, il nuovo Stato sembrava meritevole di avere il Tricolore. Ma non si può certo dare torto del tutto al clero per la nascita di quello Stato, che tarpava le ali del Papato. Del resto, a Ferrara il Cardinale Mattei, considerato uno con poca apertura mentale, si mostrò ostile alla nuova Costituzione definita addirittura «luciferina». Nella città estense, dunque, vi erano due personaggi che, pur dovendo essere dalla stessa parte, ci si può chiedere come potessero convivere: di questi l’uno, che non si sa come potesse sopportare l’autorità del secondo, e l’altro che, a sua volta, non si sa come potesse far finta di niente per il comportamento di quell’insubordinato ribelle. Sicuramente, nell’animo del Cardinale era la voglia di colpire il prete, accusandolo di eresia o di qualcosa di analogo, ma non lo fece, forse per quieto vivere.

Era un «prete rosso», come forse si direbbe oggi, oppure no? Era un periodo particolare, nel quale ci si cominciava ad accorgere che qualcosa doveva accadere, e il Compagnoni si sentì talmente al di fuori della Chiesa da abbandonare l’abito talare. I fatti della sua vita, però, sembrano dimostrare che, in fin dei conti, pur essendo «spretato», era pur sempre un religioso. E ciò che lo dimostra è che, poiché la nuova Costituzione imponeva che le cariche politiche non potessero essere affidate ad appartenenti al clero, la sua qualità di sacerdote, o di ex sacerdote che fosse, gli impediva di mantenere il suo incarico, per cui lo lasciò, nello stesso tempo chiedendo all’Università locale di creare per lui una cattedra di Diritto Costituzionale; cosa che fu fatta, malgrado le rabbiose polemiche che erano sorte. Fu una decisione importante, perché fu la prima cattedra di quel modello istituita al mondo, mentre la seconda lo fu a Parigi, però ben trent’anni dopo. Il Compagnoni, girando per diverse città, quali Bologna, Torino, Venezia, ebbe modo di trovarsi in ambienti rispondenti alla sua natura e alla sua indole illuministica su base liberale. Durante la sua attività di docente, durata abbastanza poco, ebbe modo di avere grandi soddisfazioni, tenendo anche conferenze e curando la stampa di un giornale. Nella prima orazione che tenne all’Università, ringraziò quegli studenti che, nonostante i «bassi intrighi dei nemici delle libertà e degli uomini», erano accorsi per ascoltarlo. Più avanti spiegò di quali intrighi si trattasse: «Sì bella e salutare istituzione era da frati e da preti e dalla numerosa ciurmaglia ignorante riguardata come un’opera d’iniquità, e costoro a dozzine corsero per tutte le case ove erano giovani in stato di venire a quella scuola, dando ammonizioni caritatevoli dirette a salvarli da tanto flagello».

Compagnoni si trovò in dissidio violento con il potere di chi reprime e toglie la libertà in senso politico e sociale. Secondo il suo parere, a dominare il popolo erano due forme di legislazione, il diritto civile e il diritto canonico i quali, pur essendo in disaccordo tra di loro, al momento di dominare il popolo si alleavano, perché avevano interessi comuni. Ritenne che la democrazia rappresentativa fosse un fatto positivo e le sue lezioni erano profonde quando parlavano di libertà, indipendenza, sovranità popolare. Si oppose alla pena di morte. Quando lasciò la cattedra e fu eletto deputato della Repubblica Cisalpina, fra le altre cose propose la legalizzazione della poligamia, che, secondo lui, era conforme al diritto naturale.

Sfumati in malo modo i sogni di grandezza di Napoleone, anche per Compagnoni la luce si spense, mettendo termine a tutte le sue speranze e a tutte le sue illusioni. A Ferrara, il regime tornò a essere quello anteriore alla Rivoluzione, riportato forse a un misero dormiveglia. Ci fu ancora qualcuno che tentò di togliersi di dosso l’egemonia della Chiesa, tanto da effettuare il tentativo di una rivoluzione nel 1809, ma la conclusione fu disastrosa e tragica: le truppe austriache, sotto il comando del Generale Grabinski, provocarono una strage, che si completò poi nella fortezza cittadina con l’uccisione di centinaia di Ferraresi che ne erano scampati. Il Risorgimento, purtroppo, era ancora un mito irraggiungibile.

Compagnoni scrisse una piccola opera intitolata Le veglie di tasso, e si divertì lasciando che per anni molti letterati fossero convinti che fosse uno scritto proprio del Tasso, sicuramente con il sorriso sulle labbra. Scrisse altre opere, di cui negò la paternità e lasciò il mondo a Milano nel 1833.

Ferrara non ricorda questo suo cittadino, pur se straordinario; e dispiace. Il nome di una via della zona periferica della città è l’unico segno della sua vita ivi trascorsa e magari qualcuno, come il Don Abbondio di manzoniana memoria, vedendo il nome scritto sul muro, invece di Carneade, si chiederà: «Giuseppe Compagnoni? Chi era costui?».

(giugno 2020)

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