La Seconda Guerra per l’Indipendenza
Preparato in modo accurato ed iniziato sotto i migliori auspici, il conflitto che vide Piemontesi e Francesi schierati contro gli Austriaci non ebbe quei risultati che molti patrioti della Penisola si aspettavano. Per più di una ragione

Conclusa vittoriosamente la guerra in Crimea del 1855, l’Imperatore di Francia Napoleone III decise di avviare il suo progetto per dar lustro alla sua dinastia, soddisfare l’orgoglio dei Francesi ed aumentare la preponderanza politica del proprio Paese in Europa; aveva anzi risolto di prendere egli stesso il comando dell’esercito e far guerra grossa e corta per non dar tempo alle Potenze Europee, specialmente alla Prussia, di immischiarvisi. Era quindi inevitabile dover scardinare il dominio che l’Austria deteneva su larga parte del Continente. E Cavour, che era abilissimo uomo politico, comprese che questo ambizioso progetto avrebbe potuto tornare a vantaggio del Piemonte, che avrebbe potuto contare su un alleato agguerrito in vista di una ripresa delle ostilità con l’Impero Austriaco.

Nel luglio del 1858, mentre si trovava a Plombières, una piccola cittadina francese del dipartimento dei Vosgi, l’Imperatore mandò un invito a Cavour per fissare degli accordi precisi. Il luogo dell’incontro era stato scelto apposta per non destare il minimo sospetto all’Austria: Plombières era infatti un piccolo centro di villeggiatura e così poteva sembrare che Cavour e Napoleone III si fossero recati in quella cittadina col solo intento di trascorrere un periodo di vacanza. In pochi giorni, dal 20 al 22 luglio, l’Imperatore di Francia e il Ministro Piemontese giunsero ad un completo accordo basato su tre punti:

1) se l’Austria avesse attaccato il Piemonte, la Francia sarebbe intervenuta in suo aiuto con un esercito di almeno 100.000 uomini. In cambio dell’aiuto militare, avrebbe ottenuto il Territorio di Nizza e la Savoia;

2) in caso di vittoria, il Lombardo-Veneto, l’Emilia e le Marche sarebbe passati ai Savoia e si sarebbe costituito un Regno dell’Alta Italia, con Vittorio Emanuele II come Sovrano. La Toscana e parte delle Romagne sarebbero state affidate al Granduca di Toscana (presumibilmente, il principe Gerolamo Napoleone). Lo Stato Pontificio sarebbe stato limitato al Lazio. Il Regno delle Due Sicilie sarebbe stato dato al figlio di Gioacchino Murat;

3) a conferma dell’alleanza il principe Gerolamo Bonaparte, cugino dell’Imperatore, avrebbe sposato la principessa Maria Clotilde, primogenita di Vittorio Emanuele II.

Pur non rappresentando la soluzione ideale per raggiungere la tanto agognata Unità d’Italia, l’accordo soddisfaceva ciò che a Cavour premeva in quel momento, avere un potente alleato da contrapporre all’Austria.

Il 1° gennaio 1859 Napoleone III, ricevendo il corpo diplomatico per gli auguri di Capodanno, rivolse all’Ambasciatore Austriaco le sintomatiche parole: «Deploro che le nostre relazioni col vostro Governo non siano più così buone come nel passato». E pochi giorni dopo, il 10 gennaio, Vittorio Emanuele II, in occasione dell’apertura del Parlamento, pronunciò nel «discorso della Corona» le famose parole: «Nel mentre rispettiamo i trattati, non siamo insensibili al grido di dolore che da tante parti d’Italia si leva verso di noi».

«Se volete il mio aiuto, fatevi dichiarare guerra dagli Austriaci» aveva più volte ripetuto Napoleone III e Cavour, una volta rientrato in Italia, si diede ad energici e sicuri maneggi politici, a sollecitare un linguaggio aggressivo nella stampa e, soprattutto, pensò a Garibaldi: sapeva che sarebbe bastato un suo appello, per far accorrere migliaia di patrioti. Gli affidò l’incarico di formare un corpo di volontari e, come s’era aspettato, in poco tempo più di 10.000 patrioti, provenienti principalmente dal Lombardo-Veneto, accorsero in Piemonte per arruolarsi; lo stesso Cavour ne favorì l’esodo, accogliendoli con simpatia nell’esercito piemontese.

Com’era da prevedere, l’Austria non tollerò quei preparativi militari e il 23 aprile 1859 mandò al Piemonte l’ordine di smobilitare il corpo di volontari entro tre giorni. Naturalmente il Piemonte rifiutò e l’Austria gli dichiarò guerra, cadendo nel tranello teso da Cavour. Il Ministro, uscendo dalla seduta del Parlamento, esclamò: «Esco dall’ultima Camera Piemontese. La prossima sarà quella del Regno d’Italia!». Aveva inizio la Seconda Guerra per l’Indipendenza Italiana.

Nelle prime ore pomeridiane del 29 aprile 1859, le truppe austriache varcarono il confine del Ticino: erano più di 120.000 uomini con 656 cannoni ed avevano ricevuto l’ordine di sconfiggere l’esercito piemontese prima dell’attivo dei Francesi; le guidava il Generale Giulay, un Ungherese che da nove anni reggeva le province italiane in nome dell’Imperiale Real Governo, buon soldato ma poco noto come condottiero, a cui si faceva torto di non aver mai visto da vicino il fuoco delle battaglie. Cavour – aiutato anche dalla stagione eccezionalmente piovosa – rispose facendo allagare tutte le campagne tra Vercelli e Pavia e dopo cinque giorni di marcia faticosa in mezzo all’acqua, gli Austriaci non erano ancora riusciti ad impegnare battaglia coi Piemontesi, che da parte loro si erano ritirati in attesa dei rinforzi; per giunta, la Cancelleria Militare di Vienna, estremamente puntigliosa nel voler dirigere le operazioni dalla capitale, provocava irresolutezze, contrasti, l’inerzia dell’offensiva austriaca. Bastarono quei cinque giorni perché l’esercito francese, forte di ben 120.000 soldati e 276 cannoni, giungesse in Italia parte per terra (Moncenisio) e parte per mare (attraverso l’Appennino Ligure); gli uomini erano armati con fucile e carabina rigata, abituati ad una tattica basata principalmente sull’azione offensiva; si affiancarono a 60.000 Piemontesi in ottime condizioni di addestramento, e in più fiduciosi ed entusiasti.

Cavalleggeri del Reggimento Piemonte Reale

Cavalleggeri del Reggimento Piemonte Reale fotografati nel febbraio 1859

I Franco-Piemontesi adottarono un piano strategico geniale, fingendo di ammassarsi sulla destra del Po, per trarre in inganno gli Austriaci, mentre in realtà il grosso dell’esercito doveva puntare con la massima rapidità su Milano. La prima battaglia si svolse il 20 maggio a Montebello, tra Alessandria e Pavia; le case del villaggio vennero prese ad una ad una, con un’accanitissima lotta corpo a corpo, finché il nemico, scacciato anche dalla chiesa e dal cimitero, fu costretto a ritirarsi sotto le cariche della cavalleria sarda. Dieci giorni dopo, gli scontri si riaccesero presso Palestro: gli Austriaci avevano piazzato i loro pezzi d’artiglieria in una spianata, da dove iniziarono a sparare senza interruzioni contro le truppe di Vittorio Emanuele. Dopo alcune ore di combattimento, i bersaglieri e i fanti della divisione Cialdini riuscirono ad occupare il paese, ma gli Austriaci il giorno dopo sferrarono un poderoso contrattacco. Le rogge e le risaie ostacolarono però i movimenti, e la resistenza delle truppe di Cialdini fu tenace. In aiuto dei Piemontesi giunse il 3° Reggimento Zuavi (il nome derivava da «Zuava», una popolazione dell’Algeria): gli Zuavi costituivano un corpo speciale di fanteria dell’esercito francese; era stato chiamato così per la prima volta nel 1830 un corpo di milizia di Algerini a servizio della Francia.

La battaglia si fece accanitissima, con lo stesso Vittorio Emanuele impegnato dove più grande era il pericolo. Ad alcuni Zuavi, che gli gridarono: «Sire, non è questo il vostro posto!», egli rispose: «Non temete, miei bravi, qui vi è gloria per tutti!» e, spronato il cavallo, guidò all’assalto i suoi soldati. Dopo alcune ore di lotta, gli Austriaci furono costretti a ritirarsi su Robbio, dopo aver perduto circa 3.000 uomini e 7 cannoni; la sera stessa gli Zuavi, pieni d’ammirazione per Vittorio Emanuele, lo nominarono cameratescamente loro «caporale d’onore».

La battaglia di Palestro

Luigi Norfini, La battaglia di Palestro, con al centro Vittorio Emanuele II, 1863

Accortosi delle manovre nemiche che puntavano su Milano, Giulay, per tagliare la strada ai Francesi, con una serie di ordini e contr’ordini, marce e contromarce che procurarono confusione e stanchezza, si schierò a Magenta, in una vasta pianura intensamente coltivata e fitta di filari di pioppi, gelsi, vigne ed olmi. Il 4 giugno il Generale Francese Mac-Mahon e quello Italiano Alfredo Fanti (quest’ultimo giunse però a battaglia quasi ultimata) affrontarono l’esercito austriaco, riuscendo vincitori dopo un’intera giornata di battaglia. Mac-Mahon ebbe da Napoleone III il bastone di Maresciallo e il titolo di «duca di Magenta». Ripetutamente sconfitto, Giulay ritirò le sue truppe nel cosiddetto Quadrilatero, formato dalle fortezze di Peschiera, Mantova, Verona e Legnago.

L’8 giugno, quattro giorni dopo la vittoria di Magenta, Vittorio Emanuele II e Napoleone III fecero il loro ingresso a Milano. Entrati dall’Arco del Sempione, percorsero Piazza Castello, Via Monte di Pietà, Via Monte Napoleone, la Corsia dei Servi (l’attuale Corso Vittorio Emanuele II) fino a Piazza del Duomo tra una marea di gente esultante e sotto una continua pioggia di fiori. «Viva Vittorio Emanuele! Viva Napoleone! Viva l’Italia!» gridavano i Milanesi al passaggio dei due Sovrani. Il giorno seguente, percorrendo vie adorne di tappeti, drappi, bandiere e fiori, Vittorio Emanuele e Napoleone si recarono in Duomo per assistere ad un grandioso Te Deum di ringraziamento.

Ingresso a Milano di Vittorio Emanuele II e Napoleone III

Ingresso a Milano di Vittorio Emanuele II e Napoleone III dall'arco del Sempione l'8 giugno 1859, XIX secolo

Nel frattempo anche Garibaldi col suo corpo di 6.000 volontari, i «Cacciatori delle Alpi», aveva riportato fulminee vittorie nel settore alpino: il 23 maggio aveva varcato il Ticino, sbaragliato il presidio di Sesto Calende e fatto l’ingresso a Varese, con gran festa della popolazione. Il 26 maggio gli Austriaci riuscirono a rioccupare la città, ma Garibaldi li costrinse alla ritirata e ad abbandonare sul campo due cannoni. In poche settimane anche Como, Lecco, Bergamo e Brescia – dove le popolazioni erano in fermento – furono liberate, e Garibaldi puntò verso il Trentino.

Per non dar tregua al nemico, i Franco-Piemontesi superarono Milano marciando velocemente verso il Quadrilatero. A dirigere le operazioni austriache era intervenuto – insieme a nuovi rinforzi – lo stesso Imperatore Asburgico, Francesco Giuseppe (il Giulay era stato deposto per incapacità), consapevole che lo scontro successivo avrebbe deciso le sorti della guerra. E lo scontro avvenne il 24 giugno, sulle alture di Solferino e San Martino, a poca distanza dal lago di Garda: una zona ricca di villaggi e fitta di vegetazione, facilmente praticabile ovunque, ma scarsa d’acqua (unico ruscello è il Redone).

I Francesi, guidati personalmente dall’Imperatore, si lanciarono all’attacco del colle di Solferino. La battaglia si accese subito violentissima: piazzati sull’altura, gli Austriaci erano in netto vantaggio e potevano sparare di continuo sugli assalitori. Risuonò nell’aria un preciso comando: «Avanti cavalleggeri, viva l’Imperatore!»; con le baionette abbassate e al rullo di 100 tamburi, i Francesi avanzarono combattendo impavidi all’arma bianca, sotto l’infuriare dell’artiglieria nemica. Dopo molte ore di lotta gli Austriaci abbandonarono l’altura, ma solo per lanciarsi con rinnovato slancio al contrattacco. Per due volte i Francesi presero la collina e per due volte il nemico riuscì a riprenderla. Solo al terzo disperato assalto i Francesi riuscirono a piazzarsi saldamente sull’altura. Erano le 4 del pomeriggio: il furioso combattimento era durato ben 12 ore!

Tra i combattenti francesi a Solferino c’era anche Henri Dunant, che, impressionato dal miserevole stato nel quale piombavano i soldati feriti, fondò di lì a poco la Croce Rossa Internazionale.

Nel frattempo, anche a San Martino si combatteva. 30.000 Piemontesi erano alle prese con un numero press’a poco uguale di Austriaci, ma guidati dal loro miglior Generale, il Benedek, un condottiero bravo, fermo ed intelligente, affiancato da truppe valorose. Era dalle 9 del mattino che i soldati di Vittorio Emanuele tentavano di occupare la posizione, tenuta con tenacia dal nemico. «Coraggio, figli d’Italia» esclamò ad un tratto il Re, «o prendiamo San Martino, o gli Austriaci faranno fare a noi San Martino» (di solito, l’11 novembre, giorno di San Martino, scadevano i contratti degli affitti e avvenivano i traslochi. «Fare San Martino» significava quindi sloggiare da una casa). Un furioso temporale obbligò una sospensione della battaglia fino alle 17. Spronati dal loro Sovrano, i Piemontesi si lanciarono ad un ennesimo assalto; la lotta tra le cascine era durissima e i soldati di Vittorio Emanuele subivano gravi perdite, ma – sostenuti dal fuoco delle batterie – acquistavano man mano terreno. Dopo quattro ore di battaglia, gli Austriaci cominciarono a dare evidenti segni di stanchezza; alle 8 e mezza di sera, favorito dall’oscurità, il nemico abbandonò la posizione battendo in ritirata sotto la carica di uno squadrone di cavallieria di Monferrato. Vittorio Emanuele non perse tempo ad indirizzare ai suoi soldati un proclama, che terminava con parole rimaste famose: «Soldati! Nelle precedenti battaglie ebbi spesso l’occasione di segnalare all’ordine del giorno i nomi di molti di voi. Oggi porto all’ordine del giorno l’esercito intero!».

L’artiglieria della III Divisione alla battaglia di San Martino

Sebastiano De Albertis, L’artiglieria della III Divisione alla battaglia di San Martino, 1887, Gallerie di Piazza Scala, Milano (Italia)

La duplice battaglia, alla quale avevano preso parte 300.000 uomini, era costata 17.295 perdite ai Franco-Piemontesi e 21.737 agli Austriaci, cifre impressionanti per quei tempi.

La gioia degli Italiani dopo le grandi vittorie di Solferino e San Martino era indescrivibile: ormai si era convinti che la liberazione del Veneto fosse cosa fatta. Gli Alleati avevano varcato il Mincio; Peschiera era cinta d’assedio; Venezia era bloccata dalla flotta franco-piemontese; Garibaldi e Cialdini erano pronti sui monti a minacciare la destra degli Austriaci; nuove truppe erano in arrivo dalla Francia. Invece, Napoleone III decise di porre immediatamente fine alla guerra. Gravi preoccupazioni lo assillavano: temeva che la Prussia intervenisse in aiuto dell’Austria con un potente esercito, e in più molti Francesi lo accusavano di essersi impegnato in una guerra lunga che avrebbe procurato ben pochi vantaggi alla Francia. Ma la ragione principale era che la situazione gli era sfuggita di mano: a Firenze, a Parma, a Modena, nelle Romagne le popolazioni si ribellarono, cacciando i loro Sovrani, e Cavour vi inviò dei Commissari Regi in rappresentanza di Vittorio Emanuele. L’intento di Napoleone non era la creazione in Italia di uno stato indipendente, bensì il sostituirsi all’Austria come Nazione preponderante, cosa che ormai gli veniva preclusa. Così, contravvenendo agli accordi di Plombières e all’insaputa di Vittorio Emanuele, l’11 luglio 1859 Napoleone III s’incontrò a Villafranca di Verona con l’Imperatore d’Austria per firmare un armistizio. Questo prevedeva che l’Austria cedesse la Lombardia a Napoleone III il quale, a sua volta, l’avrebbe ceduta al Piemonte; il Veneto, invece, sarebbe rimasto all’Austria.

Napoleone III e Francesco Giuseppe a Villafranca

Enrico Gonin su disegno di Carlo Bossoli, Napoleone III e Francesco Giuseppe si incontrano presso Villafranca, XIX secolo

«Povera Italia!» esclamò Vittorio Emanuele, leggendo i patti di Villafranca, dichiarando poi: «Accetto per quanto mi riguarda». Cavour era furibondo: accusò (giustamente) Napoleone III di tradimento e cercò di convincere il Re a continuare da solo la guerra; siccome il Sovrano non era di questo parere, Cavour, in segno di protesta, abbandonò il Governo, dimettendosi e venendo sostituito dal Generale Lamarmora. Ritornò poco dopo quando, grazie anche all’appoggio inglese, grandi plebisciti in Toscana, Parma, Modena, per iniziativa di Bettino Ricasoli e Luigi Carlo Farini, proclamavano l’11 e il 12 marzo 1860 l’annessione di quei territori al Piemonte; la Francia rinunciò ad opporsi e ricevette Nizza e la Savoia, oltre a 60 milioni per le spese di guerra. Altri 100 milioni furono pagati all’Austria per l’annessione della Lombardia. La Seconda Guerra per l’Indipendenza terminava così ad un passo dalla vittoria totale, lasciando gli Italiani amareggiati e delusi.

(dicembre 2017)

Tag: Simone Valtorta, Risorgimento Italiano, Seconda Guerra d’Indipendenza, Regno di Sardegna, Impero Austriaco, Piemonte, Quadrilatero, Vittorio Emanuele II, Garibaldi, guerra di Crimea, Napoleone III, Cavour, accordi di Plombières, Gerolamo Napoleone, Gioacchino Murat, Maria Clotilde, 1° gennaio 1859, discorso della Corona, Giulay, battaglia di Montebello, divisione Cialdini, Zuavi, battaglia di Palestro, Mac-Mahon, Alfredo Fanti, Cacciatori delle Alpi, battaglia di Magenta, Francesco Giuseppe, battaglia di Solferino, Henri Dunant, Benedek, battaglia di San Martino, armistizio di Villafranca, Generale Lamarmora, Bettino Ricasoli, Luigi Carlo Farini.