La rivoluzione fiorentina del 1859
Aspetti del Risorgimento in Toscana
Sono trascorsi 160 anni dal fatidico 27 aprile 1859, quando il Granduca Leopoldo II di Lorena venne «cacciato» da Firenze ed ebbe origine quel Governo provvisorio che sotto l’egida di Bettino Ricasoli – il non dimenticato «Orso dell’Appennino» – avrebbe condotto la Toscana, dopo pochi mesi, al plebiscito per l’annessione al Regno d’Italia. Si tratta di una ricorrenza da ricordare, perché se ne possono trarre ancor oggi diverse considerazioni interessanti, a cominciare da quella del ruolo civile di un beninteso moderatismo.
Anzi tutto non risponde al vero che il Granduca sia stato «cacciato» anche se l’ambiente era teso, alla luce di quanto stava accadendo nell’Italia Settentrionale con la guerra italo-franco-austriaca e con le rinnovate speranze dei patrioti dopo le tante delusioni di dieci anni prima. Dal Forte di Belvedere i cannoni erano stati puntati direttamente sulla città, ma il «Babbo», come Leopoldo veniva confidenzialmente chiamato dai suoi concittadini, diede ordine di non sparare, raccolse pochi effetti personali e prese la carrozza assieme alla famiglia per imboccare la Via Bolognese e dirigersi verso Vienna. Sapeva meglio di tanti che il corso della storia è spesso ineluttabile, e diede una rara manifestazione di saggezza, tanto più apprezzabile in un’epoca caratterizzata da frequenti colpi di coda dell’assolutismo.
Tutto si risolse in poche ore, e senza il benché minimo spargimento di sangue: più recentemente, a proposito di altri contesti si è parlato di Rivoluzioni dei garofani, o al massimo di velluto, ma per analogia si potrebbe dire che quella fiorentina del 1859 fu addirittura di bambagia, tanto che ebbe modo di compiersi in una mezza giornata, al termine della quale, come ha raccontato Raffaello Lambruschini che ne fu storico e cronista, «la Rivoluzione andò a desinare» mentre i liberali potevano dedicarsi al folclore, stornellando un motivo di improvvisa attualità: «L’albero è fiorito, codini andate a letto, il babbo nun torna più».
Quanta civiltà, in quella Toscana che quasi ottanta anni prima era stata la prima nel mondo a eliminare la pena di morte, e in quella Firenze i cui popolani, al passaggio della carrozza granducale, salutarono con deferenza togliendosi il cappello! Del resto, non fu un caso se all’atto del plebiscito, che non è mai la quintessenza della democrazia, la percentuale dei suffragi per il Regno separato espressi nell’ex Stato Lorenese fu largamente superiore a quelle del resto d’Italia: il 5% fiorentino, contro lo 0,1‰ che qualche anno più tardi, al termine della Terza Guerra d’Indipendenza, avrebbe sancito l’unione del Veneto, quasi a riscattare il triste epilogo della Serenissima per mano di Napoleone.
Come non ricordare che Leopoldo II era stato un Sovrano di grande apertura, al cui confronto quelli che governavano altri Stati Italiani esprimevano una reazione assoluta? Il Governo granducale aveva creato infrastrutture ferroviarie e stradali, aveva bonificato la Maremma, aveva animato una fiorente vita culturale, e soprattutto, aveva manifestato un’alta tolleranza nei confronti del movimento liberale, tanto da ospitare un folto numero di patrioti e di uomini di lettere, come Giacomo Leopardi, Nicolò Tommaseo, e quel Giampiero Vieusseux che vive tuttora nella felice realtà dell’omonimo Gabinetto. Basti rammentare che lo stesso Francesco Domenico Guerrazzi, esponente della Sinistra repubblicana livornese, reo di avere pronunziato una forte orazione antilorenese in memoria di Cosimo Del Fante, venne confinato per sei mesi a Montepulciano, dove ebbe a soggiornare tranquillamente in compagnia del buon vino locale.
Un’occasione in cui il Granduca aveva conquistato la gratitudine, se non anche l’affetto dei Fiorentini, fu la grande alluvione del 1844, quando l’Arno invase la città e il Granduca diresse personalmente le opere di soccorso, non senza ospitare nella reggia di Palazzo Pitti un significativo numero di sfollati. Anche questo fu un episodio destinato a conservare per parecchi anni un buon rapporto fra Monarchia e popolo. Lo stesso avvenne in occasione della «crisi lucchese» quando diventarono operative le statuizioni del Congresso di Vienna dando luogo all’incorporazione del Ducato in seno alla Toscana, e quando le proteste locali furono risolte con efficace tempestività da Leopoldo, recatosi personalmente nei nuovi territori per fornire tutte le assicurazioni e le garanzie del caso.
Firenze aveva conosciuto, nella sua lunga storia, pagine dure e vicende drammatiche come attestano, fra i tanti, gli esempi di Francesco Ferrucci (giustamente ricordato nell’inno nazionale italiano), di Pier Capponi, o quello emblematico di Dante; e altre, ancora più fosche, simboleggiate crudamente dall’uccisione proditoria del filosofo Giovanni Gentile a opera gappista (1944), avrebbe conosciuto in tempi successivi. Eppure, durante il Regno granducale, improntato a un conservatorismo che si può certamente definire illuminato, ben lontano dai canoni reazionari della Santa Alleanza, anche «l’ingrato popolo maligno che discese da Fiesole ab antico», come lo avrebbe bollato senza appello il sommo Poeta, aveva dimostrato una governabilità largamente superiore alle attese e alle tradizioni: segno non casuale di quanto possano scelte di governo improntate alla cooperazione, sebbene non disgiunte dalla doverosa fermezza di cui i Ministri Lorenesi, da Vittorio Fossombroni in poi, seppero dare costanti e valide attestazioni.
Il Granduca, che non sarebbe più tornato a Firenze, dopo diversi anni di esilio a Vienna si stabilì a Roma, dove chiuse la sua vicenda terrena nel 1870, pochi mesi prima di Porta Pia, quasi a testimoniare la permanenza di un vincolo affettivo nei confronti dell’Italia: una nuova realtà politica e istituzionale che non poteva prescindere dal suo irreversibile disegno unitario, ma che non avrebbe mancato di apprezzare, anche in sede storiografica, l’opera costruttiva di Leopoldo II.