Repubblica Italiana
Un esperimento di ardua sovranità nazionale al servizio di Bonaparte (1802-1805)

Il 26 gennaio 1802 la Repubblica Cisalpina, sorta in stretta aderenza istituzionale a quella francese, assunse una decisione storica: quella di trasformarsi in Repubblica Italiana, che costituiva una novità assoluta voluta da Napoleone per promuovere un clima di maggiore disponibilità nei confronti di un dominio che stava assumendo i caratteri essenziali dell’assolutismo. In effetti, era italiana per modo di dire, perché la sua sovranità si estendeva su 12 soli capoluoghi provinciali, sei dei quali erano lombardi (Milano, Brescia, Bergamo, Como, Mantova, Cremona), cinque emiliani (Reggio, Modena, Bologna, Ferrara, Forlì) e uno piemontese (Novara), ma tanto bastava per dare qualche soddisfazione al nascente patriottismo, espressione ancora incerta del principio di nazionalità importato da Oltralpe.

L’atto costitutivo fu immediata espressione di subordine, essendo stato mutuato dai cosiddetti Comizi di Lione, e quindi da una volontà politica non autoctona, pur essendo stato chiarito che la definizione di Repubblica Italiana intendeva preludere ad altre annessioni: cosa non certo teorica, tenuto conto delle tendenze espansionistiche manifestate dall’astro napoleonico in tutte le direzioni. In effetti, l’assunto avrebbe trovato realizzazione durante il successivo Regno d’Italia.

L’esperimento repubblicano ebbe breve durata, concludendosi nel giro di un triennio. Infatti, il 26 maggio 1805 la Repubblica cessò improvvisamente di esistere per trasformarsi in Regno d’Italia, collocando sul proprio trono nuovo di zecca proprio Napoleone, incoronato Re nel Duomo di Milano (con Eugenio di Beauharnais nel ruolo di Viceré) dopo essere diventato Imperatore dei Francesi. Non c’è che dire: le modificazioni politiche dell’epoca erano veloci ma proponevano un invito alla riflessione che avrebbe lasciato qualche traccia duratura.

Dal punto di vista costituzionale, la Repubblica Italiana aveva accolto il principio democratico dandosi una Carta costituzionale sul naturale modello di quella francese: dopo l’articolo 1 che proclamava quella cattolica quale religione di Stato, il successivo articolo 2 statuiva che la sovranità appartiene al popolo, con un’affermazione che non sarebbe mancate in tante Costituzioni successive, sino all’epoca contemporanea.

Il Governo era affidato a una Consulta di otto membri, presieduta da Bonaparte e assistita da un Consiglio legislativo di almeno 10 membri e da sette ministri con incarichi rispettivi per Affari Esteri, Interni, Tesoro, Finanze, Giustizia, Guerra e Culto. Il quadro si completava con un Corpo legislativo di 75 membri eletti dai tre collegi dei possidenti, dei commercianti e dei cosiddetti dotti, da rinnovare nella misura di un terzo ogni due anni. Questa complessa architettura fu soltanto apparente, perché il Presidente Bonaparte aveva il potere di nomina dei consiglieri e dei Ministri, ivi compresi il Vice Presidente e il Segretario di Stato. Quanto al Corpo legislativo, unica istituzione espressa da un elettorato assai ristretto, Napoleone si affrettò a dichiararne la decadenza dopo tre mesi dall’insediamento, avvenuto il 14 giugno 1802.

In buona sostanza, si trattava di una Repubblica «Monarchica» che peraltro venne addolcita dagli impegni del «Sovrano» sugli altri fronti civili e militari, e dal conseguente decentramento del potere esecutivo nelle mani di un Vice Presidente come Francesco Melzi d’Eril, che lo avrebbe esercitato in ovvio subordine alle direttive di base, ma nello stesso tempo, con un buon margine di autonomia, in specie nella gestione ordinaria.

Negli anni precedenti Melzi aveva parlato di quanto fosse necessario avere un’Italia «libera e da tutti indipendente» ma il suo programma si sarebbe orientato subito verso una sorta di rigido moderatismo in cui convivevano un accentuato conservatorismo sociale e la ferma tutela del diritto di proprietà assieme a concessioni nei confronti del sentimento nazionale e alla sistematica paura del giacobinismo. Il tutto, nell’ambito di legami «indissolubili» con la Francia, che proprio in quanto tali avrebbero favorito la riforma giudiziaria, una politica ecclesiastica innovatrice rispetto alle tendenze laiche della Cisalpina e l’abbandono di ogni residua suggestione rivoluzionaria.

Sul piano interno, il triennio di Melzi si distinse per l’oculatezza amministrativa, anche a seguito di un forte rinnovo dei quadri[1] indiziati di precedenti propensioni alla corruzione, e di un potenziamento dei poteri di polizia certamente gradito a Napoleone, che ebbe un ruolo attivo anche nel contenimento del brigantaggio. Non mancarono momenti di chiusura quasi settaria come nel rifiuto all’adesione di Parma o in quello all’accoglienza dei profughi veneziani, sospettati di residue simpatie a sfondo rivoluzionario, per non dire dell’atteggiamento nettamente preclusivo nei confronti della rivolta di Bologna che nell’estate del 1802 avrebbe accolto volentieri un aiuto proveniente dal Nord. Nella tutela della proprietà le maggiori attenzioni vennero riservate a quella dei terreni agricoli confermando una propensione classista che divenne più evidente nel 1803 con la restituzione ai vecchi proprietari delle terre precedentemente confiscate, e che peraltro non avrebbe chiuso la porta agli elementi migliori della Cisalpina, come Melchiorre Gioia.

Quello stesso 1803 fu un anno di risultati potenzialmente positivi, a cominciare dal Concordato, dal consolidamento del debito pubblico, dall’adozione di incentivi all’esportazione, e per alcuni aspetti, dalla creazione di un esercito di leva forte di 20.000 uomini nelle cui file si sarebbero diffusi spunti significativi di un pur embrionale patriottismo. Per converso non mancarono gli insuccessi, come quelli diplomatici culminati nel mancato riconoscimento della Repubblica Italiana da parte di Regno Unito, Russia e Danimarca, cosa peraltro comprensibile visto che la diplomazia era strettamente legata alle direttive di Parigi e che la Repubblica non mancò di inviare alcuni contingenti miliari a supporto delle guerre di Napoleone, in specie contro l’Inghilterra. Del pari, non ebbero successo alcuni tentativi di espansione verso Ticino, Trentino, Parma, Lucca e Genova, diversamente da quanto sarebbe accaduto qualche anno più tardi col Regno d’Italia.

Uno degli effetti più importanti, se non altro in prospettiva, fu l’acquisizione di nuove consapevolezze in senso «nazionale» da parte di chi aveva maggiori rapporti con la Francia. Al riguardo, conserva motivi di notorietà l’esempio di Federigo Ermolao, giovane combattente dell’esercito repubblicano che nel 1804, scrivendo da Boulogne, affermava che quei militari erano «troppo giovani per pensare alla libertà» ma nello stesso tempo, che bisognava essere soprattutto soldati e che sarebbe derivata «più gloria» dalle unità combattenti che non «da tutte le possibili leggi» della Repubblica.

Non tanto fra le righe, con questi intendimenti il principio di nazionalità cominciava a manifestare qualche sussulto, non senza qualche concessione militarista che avrebbe avuto un ruolo non marginale durante il Risorgimento.

Come si diceva, la Repubblica sarebbe stata rapidamente travolta dagli eventi del 1805, quando lo stesso Melzi venne bruscamente liquidato. Assumendo la corona d’Italia, Napoleone non disdegnava di essere assimilato a un novello Carlo Magno, pur macchiandosi di un vero e proprio delitto come il rapimento e l’uccisione del Duca di Enghien, mentre Genova votava l’annessione alla Francia anziché al nuovo Regno Italiano e i vari fratelli e congiunti dell’Imperatore amavano impadronirsi di altri troni di livello più o meno ragguardevole, come quello di Lucca (con l’aggiunta di Piombino) per Felice Baciocchi marito di Elisa, e quello di Parma, Piacenza e Guastalla per Paolina, cui avrebbe fatto seguito negli anni successivi la corona di Napoli per Giuseppe, poi surrogata col Regno di Spagna, origine non ultima delle mutate sorti napoleoniche[2]. In realtà, la via del tramonto sarebbe stata lunga, e avrebbe avuto bisogno della disastrosa campagna di Russia per una svolta decisiva.

Per taluni aspetti, il nuovo Stato Italiano di Napoleone fu un paradosso: in politica estera, partecipe dell’espansionismo francese, ma in politica interna artefice di un difficile «contemperamento» fra il conservatorismo di Melzi e gli spunti innovativi mutuati dalla grande Rivoluzione in campo giuridico e amministrativo, pur avendo rinunziato sul nascere alla vocazione democratica dell’Ottantanove, che se mai ci fu, rimase esclusivamente nella Carta costituzionale, o meglio nella sua lettera. Da questo punto di vista, fu una breve prova delle contraddizioni che, in ben altro afflato etico e politico, avrebbero contrassegnato il futuro Risorgimento.

Quanto alla forma repubblicana, caduta nel 1805 per un provvedimento interno al sistema imperiale, sarebbe passato quasi un secolo e mezzo prima della nuova espressione compiutamente costituzionale in quella suffragata dal referendum popolare del 1946, non potendosi tenere conto, se non sul piano puramente storico, delle brevi esperienze maturate nelle Repubbliche di Roma o di Venezia. Nondimeno, quella che era sorta nel 1802, pur nei suoi limiti politici e nel suo appiattimento sullo strapotere di Parigi, fu un’esperienza fertile di effetti importanti sia nel breve che nel medio e lungo termine, avendo diffuso anche in Italia, o per lo meno in alcune sue plaghe assai ricettive, la consapevolezza di nuovi valori che non erano soltanto quelli del secolo dei lumi, ma anticipavano la forza trainante dell’idea nazionale, destinata a prorompere sin dai moti del 1820-1821 e a proseguire nella crescente maturità del Risorgimento, elitaria quanto si voglia, ma pur sempre idonea a fare l’Italia.


Note

1 Con l’ovvio beneplacito di Melzi, il Ministro delle Finanze Giuseppe Prina avrebbe dato un contributo prioritario all’epurazione licenziando in un solo giorno 133 impiegati e rendendosi inviso sia alle classi superiori che a quelle inferiori per una rigida applicazione del fiscalismo napoleonico, senza dire della vita privata «troppo brillante». Nel 1814, in ben diverso contesto, il Prina (che aveva conservato l’incarico anche nel Regno d’Italia governato dal Viceré Eugenio di Beauharnais) sarebbe andato incontro a un’orribile fine quando venne fatto oggetto di un linciaggio nelle vie di Milano durato diverse ore, sulle cui matrici sono rimaste tesi contrastanti che da una parte lo spiegano con iniziative austriacanti e dall’altro con un’ispirazione di stampo risorgimentale attribuita a Federico Confalonieri, il futuro prigioniero dello Spielberg e compagno di Silvio Pellico.

2 Il nepotismo di Napoleone avrebbe avuto seguito anche negli anni successivi alla caduta della Repubblica Italiana sebbene la strategia delle annessioni fosse diventata prioritaria: nel 1807 con quella dell’Etruria, direttamente alla Francia, e poi con quelle di Trentino e Tirolo al nuovo Regno d’Italia, seguite dalle Legazioni (1808) e dai resti dello Stato Pontificio (1809). In tal modo il Regno ebbe modo di acquisire una dimensione più ampia quantunque effimera, come non era stato possibile per la Repubblica. Ultimo atto delle particolari attenzioni di Napoleone per l’Italia fu il conferimento del titolo di «Re di Roma» all’infelice figlio avuto da Maria Luisa (1811).

(agosto 2020)

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