Re Gioacchino Murat
Un uomo al servizio della causa nazionale italiana ancora poco conosciuto. Documenti inediti

La figura di Gioacchino Murat che a Pizzo Calabro viene ricordato perché qui trovò la morte nel 1815 è stata a lungo mistificata. E tutt’ora continua a esserlo.

La storiografia ufficiale lo vuole prima in lotta di collisione col cognato Imperatore Napoleone I, pronto a tradirlo per ottenere un posto al sole.

Poi impegnato nelle vicende rivoluzionarie del 1815 che lo volevano farsi promotore di un’Unità Nazionale Italiana «ante litteram», che non aveva al suo attivo le giuste premesse.

I miei studi risorgimentali che ho pubblicato in rete attestano che tale versione dei fatti non è suffragata da approfondita documentazione.

Riporto un articolo che ho trovato, pubblicato in rete, e confuto alcune posizioni «ufficiali».

«Il Re di Napoli Gioacchino Murat, durante i 100 giorni di Napoleone, dichiarò guerra all’Impero Austriaco per impedire il tentativo di restaurazione dei Borbone sul trono napoletano e, allo stesso tempo, per sostenere l’Imperatore Francese. L’esercito di Gioacchino Murat si propose come campione d’indipendenza italiana ma fu sconfitto a Tolentino, in provincia di Macerata, dalle truppe austriache. Dopo la sconfitta di Murat, il 7 maggio, l’Austria restituì allo Stato Pontificio i territori del Centro Italia occupati dai soldati di Murat. Con la Convenzione di Casalanza, Austria e Inghilterra vietarono a Ferdinando IV di Borbone di licenziare i funzionari e i militari murattiani. Truppe austriache col Principe Leopoldo di Borbone entrarono a Napoli, mentre da Messina Ferdinando IV di Borbone si appellava ai popoli del Regno di Napoli perché il suo ritorno sul trono avvenisse in maniera pacifica. Ferdinando IV di Borbone, inoltre, emanò un proclama dove rassicurava i suoi sudditi che nessuno di loro sarebbe stato inquisito per le sue opinioni politiche e che egli avrebbe garantito il diritto di ogni Napoletano a mantenere gli impieghi civili, i gradi e gli onori di cui aveva goduto sotto Murat. Re Gioacchino trovò riparo in Francia e in questo modo si concluse la prima battaglia del Risorgimento Italiano».[1]

Ma di quale Risorgimento parlano questi articoli? Sclerotizzato, amorfo. Dobbiamo entrare dentro le segrete cose, verificare cosa realmente accadde nel periodo.

Degli attriti e delle divisioni all’interno della famiglia Bonaparte si è fatto tesoro a lungo e tutt’ora gli storici continuano a mettere questo aspetto in evidenza per sottolineare a esempio come Re Gioacchino si fosse addirittura inimicato la moglie quando, in modo poco accorto a detta degli storici, volle continuare la sua battaglia senza tener conto delle profferte del Metternich. Oppure viene sottolineato che la stessa Carolina Bonaparte fosse assetata di potere come molti altri suoi fratelli e che al momento del secondo matrimonio di Napoleone con Maria Luisa d’Asburgo la stessa si trovasse a Parigi, qui chiamata dal fratello Imperatore per divenire una sorta di soprintendente generale all’evento, incarico prestigioso che l’Imperatore le aveva offerto col preciso obiettivo di allontanarla da Murat, che considerava, a detta degli storici, un pericolo per lui. Approfittando del fatto che la sorella era particolarmente ghiotta di ruoli politici decisivi.

In realtà in quel caso Carolina Bonaparte tornò a Napoli dal marito. E anche in questo caso gli storici si spendono a definire la cosa dovuta all’amore materno di Carolina anziché alla devozione verso il marito Gioacchino Murat.

In realtà l’allora Re di Napoli, come del resto l’intera famiglia Bonaparte, avevano sì attriti e difficili situazioni politiche da gestire, ma rimasero in simbiosi sempre per poter accogliere non solo la loro indubitabile fortuna, ma anche quei valori rivoluzionari di cui l’intero nucleo familiare si era fatto promotore. Qui presento al riguardo documenti inediti rinvenuti grazie a precise situazioni che mi sono trovata io stessa a gestire; e che smentiscono categoricamente molte posizioni sin qui assunte dalla storiografia ufficiale. Le vicende in sintesi.

Mi sono occupata con la mia tesi di laurea di un sacerdote lucchese bonapartista, Gioacchino Prosperi, che uno studioso lucchese mi aveva presentato come personaggio interessante da trattare.

In effetti, vissuto il personaggio dal 1795 al 1873, divenne per il suo Duca Carlo Ludovico di Borbone-Parma addirittura il predicatore della Corsica.

In verità il predicatore era a servizio ancor più di Luciano Bonaparte, dei suoi figli di secondo letto e del partito bonapartista córso allora molto diffuso sull’Isola Bella, perorando la causa mazziniana che i Bonaparte in quel periodo seguivano nelle vicende rivoluzionarie italiane.

Gioacchino Prosperi mi ha proiettato in un mondo che io conoscevo solo dai libri di storia e non attraverso documenti inediti e di ben altra portata, rinvenuti in Lucca sia all’Archivio di Stato che alla Biblioteca Statale.

Avevo poi all’attivo un mio stato di famiglia che datava dal 1767 e la persona che mi ha suggerito il personaggio mi ha anche detto a chiare lettere che lo stesso Prosperi aveva a che fare, anche in via parentale, con i miei nonni.

A volte esistono situazioni familiari incredibili, perciò sul momento non gli ho creduto. Però toccando con mano il personaggio ho potuto appurare che lo studioso non mentiva. E che questi nonni ritrovati erano al centro delle questioni politiche bonapartiste e di tutto il Risorgimento successivo. Grazie a tali situazioni ho rivisitato e relazionato il periodo, quasi «a mia insaputa».

Gioacchino Murat, quando Napoleone Bonaparte era relegato all’Isola d’Elba, prima dei 100 giorni, collaborava già alacremente con Eugéne de Beauharnais, il figlio adottivo di Napoleone Bonaparte, che a Milano aveva inteso creare uno Stato, con l’intento di rappresentare il Nord Italia sul piano politico; Stato che mai decollò ma che lo vide favorevole a farsi Italiano. Sicuramente il Beauharnais non ascoltò i suggerimenti di Melzi d’Eril, il quale lo esortava ad allontanarsi dal padre Imperatore. E infatti Eugené si prodigò per permettere a Napoleone di allontanarsi dall’Isola d’Elba.

Gioacchino Murat, di riflesso, in quel periodo, avrebbe dovuto, escludendo lo Stato Pontificio, restare Re nel Sud della Penisola.

La collaborazione tra i due uomini di Stato, il Beauharnais e il Murat, che ci fu, la storiografia spesso la mette in penombra, considerandola poco significante.

Esisteva tra i due uomini di Stato, stanti i documenti rintracciati, una sorta di mediazione di patrioti di stampo bonapartista in un piccolo Stato, peraltro particolarmente attivo in epoca napoleonica. Sto parlando del Principato di Lucca e Piombino.

Tale Stato fu voluto dallo stesso Napoleone per sostenere, ritengo, luoghi elettivi della sua stessa famiglia.

La quale, prima di recarsi in Corsica, con origini toscane, aveva avuto una sua presenza a Sarzana e a San Miniato al Tedesco, oggi provincia di Pisa ma all’epoca dei fatti diocesi di Lucca. Il personaggio della mia tesi e la sua corposa famiglia avevano ruoli strategici in diocesi. E come ricorda lo storico lucchese Salvatore Bongi nella sua pubblicazione sulla Lucca del tempo, un Ordine religioso cittadino, cui afferirono questi patrioti, i Chierici Regolari della Madre di Dio, fu l’ultimo in città a venir requisito dalla Sovrana Elisa Bonaparte e dall’Imperatore, addirittura nel 1810.

Lo storico Bongi accenna a fantomatiche lettere tra Elisa e Napoleone, in cui l’Imperatore Francese avrebbe esortato la sorella a smantellare anche i Chierici, richieste puntualmente disattese dalla Sovrana. In realtà queste affermazioni di Salvatore Bongi sanno tanto di «boutade».

Napoleone mai avrebbe permesso fino al 1810 alla sorella di decidere contro la sua volontà in merito. Era lui a governare.

Le fantomatiche lettere probabilmente non sono mai esistite. Un modo, quello di Salvatore Bongi, per depistare in epoca post napoleonica sulle reali motivazioni che tennero in vita fino al 1810 questo Ordine di Chierici.

Qualche anno prima infatti, come appare dai documenti, i Chierici Regolari avevano accolto nel loro seno il rivoluzionario córso Pasquale Paoli e i suoi obiettivi politici.

Una lettera rinvenuta lo attesta.

Tutti sappiamo quanto in epoca pre rivoluzionaria i Bonaparte fossero vicini a Pasquale Paoli. Addirittura Carlo Buonaparte, padre dell’Imperatore, ne era stato il segretario personale.

Non casualmente dunque il Principato di Lucca e Piombino fu affidato alla sorella Elisa, che in effetti governò in prima persona negli anni in cui rimase al potere. Era sposata con Felice Baciocchi, un nobile Córso, anche lui di origini toscane, che afferiva per sua stessa origine peraltro ai medesimi luoghi citati.

Se a pensar male si fa peccato ma ci si azzecca, forse è doveroso fare alcune osservazioni.

Questo Principato di Lucca e Piombino permise di mantenere in vita non solo l’autonomia di una città, Lucca, che era stata fino al 1799 indipendente per quasi 1.000 anni; ma consentì anche al porto labronico, molto importante già all’epoca nel Mediterraneo sul piano strategico, di perfezionare una sua autonomia gestionale. Che lo porterà nel corso del Risorgimento a essere il fiore all’occhiello dei patrioti toscani e córsi.

Gioacchino Murat ebbe come suo principale agente segreto proprio un avvocato lucchese, Giuseppe Binda.

Non lo conoscevo come personaggio se non grazie ad alcuni accenni su di lui sentiti pronunciare in casa da bambina, tipo «lo diceva il Binda» in riferimento a questioni che io non saprei assolutamente definire.

Non conoscevo neppure dalla storiografia ufficiale il reale peso politico di quest’uomo.

Viceversa una lettera rintracciata alla Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze rende giustizia dei fatti.

Il 1° gennaio 1815, quando Napoleone Bonaparte preparava la sua partenza dall’Isola d’Elba, in comunione col figlio Eugéne, un patrizio lucchese amico di Giuseppe Binda, Lorenzo Pierotti, scriveva all’abate Ranieri Zucchelli del Duomo di Pisa di aver preso contatti in Piemonte col futuro Ministro dell’Interno Sabaudo, il conte Fabrizio Lazzari, nipote per parte materna del Generale Piemontese Napoleonico Rege de Gifflenga, per sostenere la causa napoleonica e dunque lo stesso Eugéne de Beauharnais. E con lui Napoleone Bonaparte.

I patrioti napoleonici lucchesi dunque facevano carte false quando Napoleone era all’Isola d’Elba per perorare la causa di Melzi d’Eril, e il contenuto della lettera menzionata pone questo come un fatto acclarato.

Ribadisco, ben sappiamo come il figlio adottivo di Napoleone sia stato uno degli artefici principali dell’allontanamento di Napoleone medesimo dalla prigionia elbana. Ma il quadrisavolo di mio padre presente nello stato di famiglia menzionato si chiamava proprio Lorenzo, era nato nel 1767 e il dottor Tori, ex direttore dell’Archivio di Stato di Lucca, lo cita in una sua pubblicazione sulla Lucca giacobina.

D’altra parte Giuseppe Binda rimase fedelmente, in quella circostanza, a servizio di Re Gioacchino, che si fidava e sempre si fidò di lui. Giuseppe Binda mai tradì, fu legato alla sua città e ai patrioti qui menzionati, con cui restò in simbiosi per l’intera sua vita, ci sono i documenti. Ma fu proprio lui l’artefice dei tentavi di abboccamento a Genova da parte di Gioacchino Murat con Lord Bentick qualche mese dopo.

Re Gioacchino gli affidò infatti, dopo la disfatta di Tolentino, le sue più importanti carte, redatte dal marchese del Gallo, da recapitare a Genova a Lord Bentick per le trattative in corso, volendo, dopo la caduta napoleonica, e relativa sua disfatta, tentare si salvare il Regno di Napoli a suo favore con relativo intervento inglese.

Giuseppe Binda era affidabile per il suo Re nel 1815, rischiò in proprio per l’occasione, raggiungendo Lucca, la sua terra, dove sicuramente avrebbe incontrato l’amico Lorenzo, viste le circostanze e il proseguo delle mie ricerche.

Fu viceversa intercettato dal Generale Austriaco Werklein e costretto alla fuga a Londra. Le carte le passò in fretta all’agente napoletano, suo sostituto, Macirone, che purtroppo, pur avendo raggiunto Genova, non fu accolto favorevolmente da Lord Bentick. La mediazione di Giuseppe Binda avrebbe potuto fare di più? Non lo sappiamo.

Sta di fatto che se Lord Bentick rappresentava i voleri della nomenclatura Tories, a Londra i Whig stavano sempre più prendendo piede e vedevano in Lord Henry Holland il loro paladino, favorevole sia a Napoleone che alla sua intera famiglia.

Quel Lord Holland che a casa sua, in Holland House, accolse come bibliotecario ufficiale proprio il fuggitivo Giuseppe Binda.

Lord Holland aveva dimorato a lungo a Napoli alla Corte di Gioacchino Murat ed era stato il diplomatico inglese accreditato sia a Firenze che a Lucca durante il periodo napoleonico.

Dunque la volontà di Re Gioacchino Murat di tentare, dopo la pesante disfatta imperiale e la sua personale «debacle», di costituire in Italia un Regno autonomo e indipendente sotto la sua reggenza nel Sud aveva visto una figura inglese di grande prestigio tifare per lui e per l’intera causa nazionale italiana.

Lord Henry Holland era nipote di quel Charles James Fox Holland che nel Settecento aveva non solo foraggiato il partito Whig, ma sostenuto a lungo una politica internazionale volta all’abolizione della schiavitù nelle colonie inglesi e a un più ampio intervento economico inglese finanziario e industriale. L’industria era ai primordi, ma il pensiero politico Whig già promuoveva queste tendenze socio-economiche internazionali, di cui alcuni dei neo Stati Americani del Nord erano i paladini ufficiali.

Lord Henry Holland, il plenipotenziario napoleonico, morì nel 1840, ma era stato lui nel 1815, quando Giuseppe Binda lo raggiunse a Holland House, divenendone il bibliotecario ufficiale, a creare un cenacolo di artisti, politici, letterati e patrioti di grande spessore europeo in Londra.

Tra questi troviamo, tra i patrioti italiani, nomi come Antonio Panizzi, Pietro Rolandi, Gabriele Rossetti, Giuseppe Mazzini, Antonio Canova, Beolchi, Miglio, Arrivabene, solo per citarne alcuni nostrani. Tra l’altro fu proprio Giuseppe Binda a presentare Ugo Foscolo a Lord Holland.

Lady Henriette Holland, la moglie del nobiluomo inglese, volle a spada tratta che il marito si prodigasse affinché Napoleone Bonaparte, nel frattempo esiliato a Sant’Elena, venisse liberato, anche per ragioni politiche.

L’ex Imperatore e la sua famiglia erano considerati dagli esponenti Whig un freno importante contro l’Antico Regime Europeo. E in effetti sappiamo che lo stesso Napoleone, già al tempo dei 100 giorni, volle prendere in considerazione la possibilità di frenare il suo potere assoluto con l’emanazione di una Carta Costituzionale adeguata alle esigenze britanniche Whig, ma ciò naufragò sul piano concreto.

A ogni modo molti sono gli indizi e gli studi che vorrebbero davvero un Napoleone fuggito da Sant’Elena in America grazie a rocamboleschi sottomarini primordiali che avrebbero potuto fare delle recenti scoperte di Robert Fulton uno strumento importante di fuga per il Grande Córso. Ciò probabilmente è solo leggenda, ma non lo è affatto la collaborazione di Lord Henry Holland con la famiglia Bonaparte nel corso di tutto il primo Risorgimento Italiano.

Ancora nel 1836 Lord Holland visitava a Roma la madre dell’Imperatore Letizia Ramolino che qui visse fino al 1838, anno della sua morte. E non si trattava unicamente di visite di cortesia, dal momento che l’anziana matriarca era il nume tutelare dell’intera famiglia Bonaparte, incoraggiando Luciano piuttosto che Giuseppe che viveva negli Stati Uniti, a fare delle prospettive rivoluzionarie mazziniane delle fonti di ispirazione politica. Per la sua famiglia e per l’intero Stivale.

Non dimentichiamo mai che Lord Holland in epoca napoleonica era stato il rappresentante ufficiale a Firenze della Corte Inglese. Questo è un punto essenziale per capire queste manovre.

La Regina Vittoria, che prese il potere nel 1819, era votata a un rinnovamento politico.

Ragion per cui anche durante il Primo Risorgimento fu Lord Holland a essere designato come Ambasciatore Ufficiale Inglese presso la piccola Corte Lucchese del Duca Borbonico Riformato Carlo Ludovico.

Duca che ho avuto modo, con le mie pubblicazioni, di trovare come il diretto paladino della politica da mazziniani dei Napoleonidi, in particolare di Luciano Bonaparte, che viveva a Canino, nell’Alto Lazio; dei suoi figli di secondo letto, di Giuseppe Bonaparte, «vicino di casa» in America proprio di quel Giuseppe Binda qui citato.

L’ex agente segreto citato, già nel 1817 lasciava Holland House per raggiungere New York. Ufficialmente perché era un uomo d’affari che in New York aveva trovato modo di concludere affari d’oro; ufficiosamente perché Lord Henry Holland lo aveva incaricato di perorare la causa italiana e dei Bonaparte medesimi. A riprova di questo, il matrimonio faraonico che lo stesso Giuseppe Binda, naturalizzandosi negli Stati Uniti come Joseph Agamemnon Binda, fece oltre oceano. Niente meno che con la figlia del Generale Sumter, uno degli uomini più potenti nel Senato degli Stati Uniti, di concerto con l’intera sua famiglia. Le vicende che videro successivamente Giuseppe Binda Console Onorario Americano a Livorno durante il Risorgimento e che ho descritto in svariati articoli pubblicati, perorando la causa mazziniana e al contempo federalista di Alexander Walewsky, figlio naturale di Napoleone I, residente a Firenze, ne è la prova diretta. Così come la forte propensione del Governo degli Stati Uniti a sostenere Giuseppe Binda ancora nel 1860, al momento dell’Unità. L’intero Congresso Americano votò contro la risoluzione di condanna di Giuseppe Binda per le vicende rivoluzionarie italiane. Non tanto, come vuole l’ufficialità, perché i Sumter erano determinanti nel Congresso Americano. Ma perché i Whig Inglesi, con cui Binda medesimo fu sempre in contatto, furono fino all’ultimo vicini alle posizioni federaliste per la Penisola.

È possibile documentarlo grazie a un busto marmoreo, raffigurante Sir Charles James Fox Holland, padre dei Whig Inglesi, scolpito intorno al 1860 dal pittore garfagnino (lucchese?) Giuseppe Pierotti a Londra e che è oggi presente nei locali dell’Università di Oxford.

Giuseppe Pierotti è il terzo nome che compare nel mio stato di famiglia.

Giuseppe il pittore era nato a Castelnuovo Garfagnana nel 1826 e qui l’ufficialità lo vuole deceduto nel 1884, anche se secondo quanto ho rintracciamo in rete, i suoi resti si trovano nel Duomo di Milano, dove lo stesso aveva lavorato per un certo periodo.

Da miei documenti questo pittore, all’epoca molto celebre (aveva studiato a Firenze all’Accademia di Belle Arti ed era stato compagno di studi di Telemaco Signorini e Giovanni Fattori) era in realtà figlio di un nobile lucchese, Cesare, che fu coinvolto con gli Amici del Popolo di Domenico Guerrazzi a Firenze nel 1848. Lo stesso per una brutta circostanza che lo vide protagonista, dopo pesante accusa, assolto perché l’allora Sovrano del Granducato di Toscana Leopoldo II d’Asburgo-Lorena non poté condannarlo per ragioni politiche, e ritiratosi a vita privata a Lucca morì a 94 anni nel 1901.

Era egli stesso figlio di quel Lorenzo, patriota napoleonico, rintracciato nella lettera del 1° gennaio 1815, collaborante per l’occasione alacremente con Giuseppe Binda, Eugéne de Beauharnais e Gioacchino Murat.

Il pittore Giuseppe, che nel 1860 stava a Londra, in una lettera del periodo rintracciabile come gli altri documenti alla Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, aveva verosimilmente soggiornato anche a Malta con la famiglia. È quanto emerge dai ricordi del botanico Attilio Zuccagni Orlandini, come ho potuto ricostruire, che cita una congiunta del pittore come colei che lo aiutava in Firenze nel 1864 a tradurre dal maltese idioma. Elena, questo il nome della ragazza menzionata da Attilio Zuccagni, vissuta a Malta, dimorava quell’anno a Firenze come il nostro pittore che infatti in data 1870 risulta ubicato proprio in Via delle Ruote, fortezza da Basso.

La presenza di Giuseppe a Malta aveva sicuramente attinenza con quel Movimento di Oxford che volle a lungo, per la Penisola Italiana, non solo una soluzione federalista sotto egida papale, ma una soluzione tale da sconfessare il potere temporale dei Papi, e a tale ragione si deve la collaborazione di questa famiglia piuttosto che degli ambienti a lei afferenti sia con i Bonaparte che con i mazziniani, cui confluirono gli stessi Bonaparte nel Primo Risorgimento.

Era infatti Monsignor Bartolomeo Pacca colui che in Vaticano faceva da tramite tra Luciano Bonaparte, queste frange localistiche cattolico liberali, e quello che l’amico Padre Gioacchino Prosperi chiamava il laicismo italo-sardo.

L’Ingegnere Ermete Pierotti di Pieve Fosciana, del resto, località non distante da Castelnuovo Garfagnana, nel 1870 pubblicava a Genova per l’editore Pellas un significativo breve saggio dal titolo Il potere temporale dei Papi al cospetto del Tribunale della Verità che metteva in chiaro le posizioni sue e, presumo, dell’intera sua famiglia sulla questione romana.

Senza contare che il busto del 1860 scolpito dal pittore Giuseppe Pierotti è ancora oggi ubicato proprio dentro le mura dell’Università di Oxford. Dobbiamo pensare che tutte queste particolari coincidenze non determino la prova evidente delle circostanze che ho chiarito? Il Cardinale Raffaele, qualche anno dopo, intorno al 1890, era in corrispondenza con John Henry Newman, il più importante membro del Movimento di Oxford, essenziale politicamente con ogni evidenza nelle dinamiche rivoluzionarie del Primo Risorgimento.

Lord Henry Holland con la sua famiglia sosteneva queste frange. Sosteneva in Vaticano persone come il Cardinale Bartolomeo Pacca che, ribadisco, da documenti rintracciati, non solo era in comunione col fratello di Napoleone Bonaparte, Luciano, il quale visse a Canino, nell’Alto Lazio, sino al 1840, ma con tutti i patrioti che ruotarono intorno allo stesso Luciano, ai suoi figli, all’intera famiglia Bonaparte e allo stesso Lord Holland. Fu addirittura sepolto nel 1842 a Roma in Santa Maria in Portico in Compitelli, Chiesa dei Chierici Regolari Lucchesi.

Se la storiografia vuole ancora Gioacchino Murat un perdente, un visionario, un uomo dal grilletto facile, un uomo incapace di avere una sua visione politica, è solo perché successivamente chi, soprattutto in Italia, costruì il neonato Stato Unitario, si prese la briga di raccontare una sua verità.

Un altro documento essenziale, anche questo inedito, prova quanto asserisco.

Giuseppe Pierotti all’amico fiorentino Gino Capponi scrisse in una lettera, in riferimento a scavi archeologici del 1200 avvenuti a Castelnuovo Garfagnana negli anni Cinquanta del XIX secolo, testuali parole: «Capponi mio, il cavaliere è tuo non è mio».

Il riferimento palese al Cavalierato del Tau di cui i Capponi Fiorentini furono a lungo i Gran Maestri, lottando ancora nel Cinquecento con i potenti Medici per salvare il Cavalierato, fa da contraltare ad altro Cavalierato Giovannita, cui la famiglia di Giuseppe apparteneva. Situazioni di antico retaggio ma anche situazioni che avrebbero potuto costruire una storia ben diversa per l’intera Penisola Italiana. Erano queste frange, considerate quasi gianseniste, a volere un allontanamento dalle posizioni gesuite più retrive. Perché il protagonista della mia tesi, Padre Gioacchino Prosperi, accusato costantemente di giansenismo, smascherava apertamente già all’epoca, pubblicandolo, chi nell’Ordine Gesuita non sosteneva Londra e il mondo riformato; e confrontava la loro visione politica con chi viceversa la pensava in tutt’altra maniera.

In tal modo definiva sia i religiosi gesuiti che i laici «gesuitanti», altrettanto attivi su questa linea.

Interessi e/o posizioni politiche che non agevolarono e agevolano neppure adesso il «Tribunale della Verità».

Chi attendeva davvero Gioacchino Murat a Napoli, quando la sua spedizione per riconquistare il Regno del Sud, partita in Corsica, naufragò in Calabria? Possiamo tranquillamente pensare a nomi italiani che hanno fatto il Risorgimento ma che solitamente non vengono affatto associati al grande condottiero di origini francesi.

In Calabria troviamo una famiglia che ha antiche radici comuni con quel Leonetto Cipriani Córso che durante il Risorgimento Italiano fu essenziale nelle dinamiche rivoluzionarie.

Leonetto fu vicino ai figli di Luciano Bonaparte e all’intera famiglia durante il Primo Risorgimento. Alcuni membri della sua famiglia avevano fatto parte della famosa Legione Córsa, quella che organizzò il tentativo estremo di Re Gioacchino. Nella Legione anche i Cattaneo di Corsica, nipoti di Felice Baciocchi, che moriranno a Sant’Alessio di Lucca nel 1874. Chissà perché scelsero di vivere e morire in quei luoghi! E perché Giovanni Gentile nel 1932 in «Archivio di Corsica» scrisse che se avesse ritrovato le loro carte avrebbe riscritto la storia d’Italia!

Naturalmente le mie vogliono essere solo domande retoriche!

I Cipriani Córsi erano particolarmente legati alla famiglia Bonaparte.

Leonetto, che nacque nel 1812, dunque posteriormente ai fatti ascritti, restò sempre in connessione proprio con gli ambienti toscani e lucchesi che ho descritto. Addirittura si racconta che un Cipriani Córso (non Leonetto, data la sua data di nascita) fu fratello di latte di Napoleone Bonaparte e lo seguì persino a Sant’Elena. Come non associare questa famiglia nella sua complessità alle vicende rivoluzionarie del periodo?

Il filosofo di Tropea Pasquale Galluppi, citato opportunamente da Padre Gioacchino Prosperi, fu particolarmente attivo sul piano politico sia durante il periodo napoleonico che nel corso del Primo Risorgimento, e non solo come filosofo, come vogliono i documenti ufficiali.

Da documenti rintracciati infatti egli fu legato a Rosmini e agli ambienti cattolico liberali di stampo bonapartista, che ho descritto e pubblicato in rete.

La presenza a Napoli e nell’intero Meridione di chi poteva sostenere alacremente Re Gioacchino non è dunque solo evidente, ma sicuramente rintracciabile.

In ogni caso nulla avrebbe potuto egli senza il sostegno della Londra Whig, cui certamente si affidava.

Paolina Bonaparte nel suo testamento lasciò l’intera sua biblioteca a Lord Henry Holland. E tra i visitatori di Murat e di sua moglie, la Regina Carolina, in Napoli, figura, ribadiamolo, proprio Lord Henry Holland.[2]

Sicuramente Gioacchino Murat aveva sopravvalutato le sue carte. Ma erano carte di tutto rispetto. Ancora nel 1860 Napoleone III visitava in Seravezza il cenacolo dei Gherardi Angiolini. E il plenipotenziario Luigi Angiolini, amico intimo di Giuseppe Bonaparte, anche quando l’ex Re di Napoli era in America, era il suocero di quel Gherardi Angiolini che Giuseppe Binda da New York sosteneva nel 1830, prestandogli la sua villa di Segromigno in Monte, vicino a Lucca, essendo il Gherardi Angiolini col conte Bichi e con Michele Carducci, padre del poeta Giosuè, un patriota mazziniano ricercato. La voce di Giuseppe Binda era e rimase la voce del Governo Americano e la voce di Re Gioacchino, oltre la morte del condottiero francese.

Ma fu anche la voce di quel partito Whig Inglese che con Lord Palmeston permise l’Unità Italiana Garibaldina.

Che mai mise in ombra nel cuore degli Inglesi quel federalismo laico tanto inseguito da patrioti autentici ed equilibrati nel corso del Risorgimento, e che anche Murat non aveva mai mancato di apprezzare.


Note

1 MUR, Lucca. Alla voce «Gioacchino Murat Lucca» in rete.

2 «Project Murat», March 25, 2022 by Sarah (blog on line che non contiene altre indicazioni).

(ottobre 2022)

Tag: Elena Pierotti, Gioacchino Murat, Lord Henry Holland, Napoleone Bonaparte, Pasquale Galluppi, Gino Capponi, Convenzione di Casalanza, Ferdinando IV di Borbone, Carolina Bonaparte, Eugéne de Beauharnais, Chierici Regolari della Madre di Dio, Gioacchino Prosperi, Salvatore Bongi, Il potere temporale dei Papi al cospetto del Tribunale della Verità.