Il Re galantuomo
Un ritratto per alcuni versi inedito, ma storicamente ineccepibile, di Vittorio Emanuele II, il più contemporaneo dei Padri della Patria

Vittorio Emanuele II

Gerolamo Induno, Vittorio Emanuele II a cavallo, 1861, Museo del Risorgimento, Milano (Italia)

Tra i grandi personaggi che fecero l’Italia, almeno nella coscienza popolare spiccano Cavour e Garibaldi, e magari persino Mazzini, l’eterno perdente. Manca all’appello Vittorio Emanuele II, il Re così simpatico, vitalistico, sanguigno, timido e spaccone, allergico all’etichetta di corte, così simile per tanti versi a noi Italiani. Il Re che fu magistralmente ritratto da Gerolamo Induno nel 1861, elegantemente assiso su uno scalpitante cavallo bianco, i capelli tagliati corti, il pizzetto ben curato, lo sguardo sicuro spinto in avanti, come un uomo d’altri tempi. Ma allora, perché ignorarlo? Ci vergogniamo di lui per via del fatto che si tingeva i capelli? Non è mica l’unico a farlo, fra i capi di Stato e di Governo. Forse perché la sua discendenza è impresentabile? Non è colpa sua. Per le cosiddette ragioni dinastiche, Vittorio deve sposare una cugina prima; suo figlio Umberto idem e di conseguenza si passa nell’arco di tre generazioni dai due metri e quattro centimetri di altezza di Carlo Alberto a quel ragnetto complessato di Vittorio Emanuele III, il reuccio pignolo, timido, ritroso e solitario. Forse perché è stato proprio Vittorio Emanuele III, suo discendente, a consegnare l’Italia prima al fascismo e poi al caos con la sua vergognosa fuga da Roma? Ancora, non è colpa di Vittorio Emanuele II.

A farci prediligere Re Vittorio sarebbe sufficiente l’episodio che precede la sua visita di Stato in Gran Bretagna dopo la vittoriosa guerra di Crimea: immaginiamoci la scena, Cavour e Massimo d’Azeglio nell’appartamento privato del Re, armati di forbici e doppio decimetro, che lo costringono a tagliare almeno dieci decimetri di quei meravigliosi baffi a manubrio che gli arredano il viso, allo scopo di «non spaventare la Regina Vittoria»!

Nei suoi ventinove anni di regno (dal 1849 al 1878) il Re si trova ad affrontare cinque guerre e nelle prime quattro combatte personalmente. Al generale Möhring, inviato di Francesco Giuseppe, confida, dopo la campagna del 1866: «La sola cosa che mi dà veramente piacere è di fare la guerra».

La più grande virtù di Vittorio Emanuele è proprio il coraggio. Lo dimostra fin dal suo esordio come Re di Sardegna: suo padre Carlo Alberto, sconfitto a Novara dall’Austria nel 1849, con un colpo di testa abdica e se ne parte per l’esilio, lasciando la corona a questo ventinovenne che nessuno ha preparato ai suoi compiti, tutto preso dai suoi divertimenti, i cavalli, la caccia, la sciabola, l’escursionismo in montagna. Forse Re Carlo spera che il maresciallo Radetzky, nell’imporre i termini dell’armistizio, avrà un occhio di riguardo per Vittorio, dal momento che è stato suo padrino di battesimo e testimone di nozze. Insieme a Massimo d’Azeglio Presidente del Consiglio, il Re negozia il trattato di pace ma il Parlamento, troppo «democratico», lo respinge; senza indugi, con il Proclama di Moncalieri, il Re scioglie la Camera e indice nuove elezioni e siccome la città di Genova si ribella perché vuole continuare la guerra, ordina che venga bombardata dal mare; il capoluogo ligure subirà 500 morti tra i civili.

Sul capo di Sua Maestà, Cattolico praticante, cadono nell’arco di vent’anni (1850-1870) ben tre scomuniche da parte di Pio IX e lui le lascia scivolare via, convinto che la Storia gli darà ragione. Sono originate dalle leggi Siccardi che nel 1850 sopprimono i tribunali ecclesiastici, dalla legge del 1855 che scioglie le corporazioni legate alla Chiesa incamerando i beni nel demanio e dalla presa di Roma nel 1870. Nel giro di poche settimane gli muoiono la madre, la moglie, il fratello e il figlio minore; qualcuno insinua che si tratti della vendetta divina, propiziata da una maledizione lanciata da Don Bosco, ma il Re tira avanti per la sua strada.

È l’unico Sovrano italiano a non abrogare lo Statuto concesso da suo padre nel 1848, giunto intatto al passaggio del testimone cento anni dopo con la Costituzione dell’Italia Repubblicana. Per quasi tutta la durata del suo regno ha a che fare con dei Presidenti del Consiglio tosti e affatto malleabili, a cominciare da Cavour che cumula i dicasteri degli esteri, degli interni, della marina e della guerra (quello delle infrastrutture non esiste ancora). Tra Vittorio Emanuele e Cavour non corre grande simpatia, anzi il Re più volte ne limita le azioni, arrivando persino a mandargli in fumo svariati progetti politici, alcuni dei quali anche di notevole portata.

I due si trovano però d’accordo nello schierarsi a fianco di Turchi, Francesi ed Inglesi contro i Russi durante la guerra di Crimea. «Se noi fossimo battuti in Crimea» riflette il Sovrano, «non avremmo altro da fare che ritirarci, ma se saremo vincitori, benissimo! Questo varrà per i Lombardi assai meglio di tutti gli articoli che i ministri vogliono aggiungere al trattato [...] Se essi non vorranno marciare, io sceglierò altri che marceranno...». Il Piemonte si distingue nella vittoriosa battaglia della Cernaia (16 agosto 1855), potendo così portare all’attenzione delle grandi Nazioni il problema dell’unità d’Italia. L’Imperatore di Francia Napoleone III accetta di stipulare un’alleanza franco-piemontese.

Poiché Vittorio, ansioso di combattere, parla della guerra imminente contro l’Austria mentre gli impegni presi con Napoleone III devono restare segreti, Cavour tranquillizza gli Austriaci dicendo: «Da dieci anni, ogni inverno, il Re ripete sempre la stessa cosa, ciò non significa nulla, è una sua idea fissa». Il 10 gennaio 1859, rivolgendosi al Parlamento, Vittorio Emanuele proclama invece: «Il nostro Paese, piccolo per territorio, acquistò credito nei Consigli d’Europa perché grande per le idee che rappresenta, per le simpatie che esso ispira. Questa condizione non è scevra di pericoli, giacché, nel mentre rispettiamo i trattati, non siamo insensibili al grido di dolore che da tante parti d’Italia si leva verso di noi!». È la guerra: il Piemonte, con l’aiuto francese, scaccia gli Austriaci dalla Lombardia, e con una serie di plebisciti (sulla cui regolarità tuttora si discute) si annette l’Emilia, la Romagna e la Toscana. In seguito, conquista il Regno di Napoli.

Il 17 marzo 1861, il Parlamento proclama la nascita del Regno d’Italia, stipulata dall’articolo: «Vittorio Emanuele II assume per sé e per i suoi successori il titolo di Re d’Italia».

Nel 1866, l’Italia ottiene il Veneto; il 20 settembre 1870, le truppe italiane entrano in Roma. Vittorio Emanuele esclama: «Con Roma capitale ho sciolto la mia promessa e coronato l’impresa che ventitré anni or sono veniva iniziata dal mio magnanimo genitore». L’Italia è quasi tutta unita: mancano alcuni territori, e si devono affrontare grandi problemi – l’analfabetismo, il brigantaggio, l’industrializzazione, il diritto di voto, la «questione romana». Un aneddoto racconta che, visitando l’Italia del Sud, il Re non vuole che i sudditi gli bacino le mani e quando a Palermo staccano i cavalli dalla sua carrozza, preferisce proseguire a piedi dicendo: «Non sono un cantante o una ballerina».

La sua passione per le donne è un argomento che ha alimentato una messe impressionante di aneddoti. Al termine della visita in Gran Bretagna gli chiedono che cosa gli sia piaciuto di più e lui risponde: «Miss Flora Macdonald, damigella della Regina». La corte e i suoi ministri vorrebbero risposarlo con una gentildonna di sangue reale ma lui tiene duro nel suo amore per Rosa Vercellana, la figlia del tambur maggiore del reggimento, conosciuta quando era una prosperosa ragazza di quindici anni, fino ad arrivare alle nozze morganatiche.

Alla notizia della morte del Re, avvenuta nel gennaio 1878 quando ancora non ha compiuto cinquantotto anni, la Regina Vittoria scrive nel suo diario: «Era uno strano uomo, sregolato, e spesso sfrenato nelle sue passioni (specialmente per le donne), ma un coraggioso, prode soldato, con un cuore generoso, onesto, e con molta energia e grande forza».

Se l’Italia è unita, lo dobbiamo soprattutto a lui!

(maggio 2011)

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