La Prima Guerra per l’Indipendenza
Iniziato sotto i migliori auspici, il primo conflitto che oppose il Regno di Sardegna all’Impero Austriaco non ebbe un epilogo felice. Per più di una ragione

Forse nessun’altra dichiarazione di guerra, come quella fatta all’Austria dal Re Carlo Alberto, suscitò tanto entusiasmo nei patrioti italiani dell’Ottocento: essa era infatti ritenuta indispensabile per cacciare dall’Italia una potenza straniera, nemica ed opprimente. Quasi tutti gli stati in cui era divisa l’Italia nel 1848 si trovavano direttamente o indirettamente sotto il dominio dell’Austria; il Regno Lombardo-Veneto veniva considerato addirittura territorio austriaco. Gli unici stati realmente indipendenti erano lo Stato della Chiesa e il Regno di Sardegna (il Piemonte), di cui era allora Re Carlo Alberto di Savoia.

L'Italia nel 1848

Mappa dell'Italia nel 1843

Re Carlo Alberto di Sardegna

Re Carlo Alberto di Sardegna, circa 1848

Poiché questo Sovrano dimostrava avversione verso l’Austria, che mirava ad estendere il suo controllo anche al Piemonte, i patrioti italiani si accordarono con lui per combattere il comune nemico: fu così che, dopo le insurrezioni di Venezia e Milano, il Re di Sardegna si decise, non senza quei tentennamenti che caratterizzeranno sempre la sua politica, a dichiarare guerra agli Austriaci. Due erano i pretesti che permisero al Piemonte di rompere l’alleanza militare che lo legava all’Austria: il primo una frase di Metternich che un giorno, per giustificare l’intervento austriaco a Napoli, aveva detto che «quando brucia la casa del vicino, al vicino è consentito entrarvi per impedire che il fuoco si propaghi alla sua»; il secondo era l’installazione austriaca di presidi militari a Modena e a Parma, atto col quale il trattato di alleanza era già stato stracciato.

Il conflitto che scaturì viene definito «Prima Guerra per l’Indipendenza» e il «teatro delle operazioni», cioè il territorio su cui si svolse, fu l’Italia Settentrionale: l’obiettivo di Carlo Alberto era infatti occupare il Lombardo-Veneto non già per restituirlo ai suoi abitanti, ma per aggregarlo al Piemonte. Tutta la sua azione fu tesa più a mettere in ombra il contributo dei patrioti lombardi (di estrazione prevalentemente liberale) e ad impedire che essi si rivolgessero per aiuti alla Francia, che a preparare un solido piano di guerra contro l’Austria.

In quel momento, gli Austriaci, cacciati da Venezia, Milano e da quasi tutti i centri del Lombardo-Veneto, si erano trincerati nelle fortezze di Peschiera, Verona, Legnago e Mantova (che formavano il cosiddetto «Quadrilatero») sotto la guida del Maresciallo Radetzky: un uomo di 81 anni, abile e pieno ancora di energia, amato e temuto dai suoi soldati, profondo conoscitore dell’Italia perché da 17 anni era comandante supremo delle forze di occupazione nella Penisola.

Il Maresciallo Josef Radetzky

Georg Decker, Il Maresciallo Josef Radetzky, circa 1850, Heeresgeschichtliches Museum–Militärhistorisches Institut, Vienna (Austria)

Il 29 marzo 1848, in piena notte, Carlo Alberto, assieme al figlio Vittorio Emanuele, raggiunse Pavia – occupata senza colpo ferire – dove s’era schierato il grosso del suo esercito e ne assunse il comando supremo... ma Carlo Alberto non aveva esperienza di guerra, aveva visto un solo giorno di battaglia, tra l’altro non come Generale ma come granatiere del Trocadero e nulla più; né i suoi Generali, che uscivano da un periodo di 34 anni di pace, ne avevano più di lui (taciamo degli altri ufficiali...). I Piemontesi non erano preparati per la guerra: male equipaggiati e quasi privi di artiglieria, non avevano carte della zona, non un servizio d’esplorazione, i trasporti dei viveri erano affidati a carrettieri non soggetti ad alcuna disciplina o regolare comando (molto spesso i soldati soffrirono la fame!), non vi era neppure un servizio sanitario efficiente; i combattenti erano tenuti per più mesi a dormire sulla nuda terra e sotto il nudo cielo, senza che si spogliassero mai dei vestiti, cosicché le infermità corsero a guastare l’esercito, a diradarne le file. Gli Austriaci contavano tra i 70.000 e gli 80.000 uomini; l’esercito piemontese era composto di circa 25.000 soldati, ma si attendevano truppe dagli altri stati italiani. Quando arrivarono, furono meno del previsto: poche migliaia di volontari dalla Lombardia e dal Veneto, agli ordini del Generale Zucchi; 7.000 tra regolari e volontari dalla Toscana, comandati dal Generale De Laugier; 7.000 regolari dallo Stato della Chiesa, sotto il Generale Durando, e 10.000 volontari agli ordini del Generale Ferrari; 16.000 regolari dal Regno delle Due Sicilie, comandati dal Generale Guglielmo Pepe. Si trattava di truppe poco affiatate fra loro, delle quali, oltretutto, Carlo Alberto diffidava perché temeva che le popolazioni italiane si sentissero liberate da sé anziché da lui, e che tentò, quando possibile, di smistare tra i propri reparti.

Ritratto del Generale Giovanni Durando

Ritratto del Generale Giovanni Durando, seconda metà del XIX secolo

Dopo una faticosa marcia di alcuni giorni, le truppe piemontesi arrivarono in vista del nemico sulle rive del Mincio. Per Carlo Alberto era giunto il momento di mettere in atto il suo piano di attacco: varcare il Mincio per poi investire la fortezza di Peschiera. Il primo scontro tra le truppe piemontesi e quelle austriache avvenne al ponte di Goito, la mattina dell’8 aprile; dopo un accanito combattimento durato tutta la giornata, i soldati di Carlo Alberto riuscirono a guadare il fiume attraverso la spalletta del ponte, che il nemico non era riuscito a distruggere completamente, e ad impadronirsi della cittadina, facendo un centinaio di prigionieri. Rincuorati per il successo ottenuto, i Piemontesi si lanciarono all’attacco conquistando Mozambano (9 aprile) e Valeggio (11 aprile): con queste vittorie, le truppe di Carlo Alberto si trovarono ormai a pochi chilometri da Peschiera.

Numerose città accolsero l’intervento piemontese con entusiasmo, cacciarono le guarnigioni austriache e proclamarono l’annessione al Piemonte: in due mesi Carlo Alberto raggiunse, senza perdere un sol uomo, obiettivi mai eguagliati da alcun suo antenato, al di là addirittura delle proprie aspettative.

Posto l’assedio alla fortezza di Peschiera, i Piemontesi avanzarono verso Est per sbarrare la valle dell’Adige, da dove potevano giungere rinforzi al Maresciallo Radetzky. All’alba del 30 aprile, sulle alture di Pastrengo, ebbe inizio una violentissima battaglia. Alle quattro del pomeriggio, le sorti erano ancora molto incerte: ad ogni assalto dei Piemontesi, gli Austriaci contrattaccavano con furore. Solo verso il tramonto le truppe austriache vennero respinte e le alture di Pastrengo furono conquistate.

La carica dei carabinieri a Pastrengo

Sebastiano De Albertis, La carica dei carabinieri durante la battaglia di Pastrengo, 1880, Roma (Italia)

Desideroso di sfruttare il successo, Carlo Alberto decise di puntare su Verona; ma al villaggio di Santa Lucia, dove giunsero il 6 maggio, i Piemontesi si trovarono di fronte al grosso dell’esercito nemico. Dopo un aspro combattimento, i Piemontesi si ritirarono dalle posizioni nemiche che avevano conquistato, ripiegando sulle posizioni di partenza. Equivoci e contrattempi, un impiego disarmonico e spicciolato delle unità, azioni slegate e senza frutto costituirono una costante della campagna: la mancanza di un capo con un forte ascendente e la diversità dei contingenti portarono ad un atteggiamento remissivo e titubante che andò a tutto vantaggio di Radetzky; il Maresciallo ebbe modo di radunare a Verona le sue truppe demoralizzate e attendere i rinforzi che il Generale Nugent aveva radunato sull’Isonzo.

Teatro della prima fase della Prima Guerra d'Indipendenza

Teatro della prima fase della prima campagna militare dell'esercito piemontese (fino al 9 maggio 1848)

Proprio nel momento più critico della guerra, il Papa Pio IX e il Re di Napoli richiamarono le loro truppe. Secondo la storiografia risorgimentale, il Papa tradì i patti poiché l’Austria aveva minacciato uno scisma religioso, un’adesione in massa al protestantesimo; Pio IX, nella famosa allocuzione del 29 aprile, dichiarò che, come Vicario di Cristo, non poteva prender parte a guerre contro alcun popolo; il Generale Durando, ricevuto l’ordine di ritirarsi, non obbedì, ma molti soldati pontifici disertarono. Il mito del Papa liberale e patriota, di cui si era nutrito tutto il pensiero neoguelfo, crollò di schianto. In realtà, studi recenti hanno portato in luce il fatto che il Papa abbandonò il Piemonte perché si accorse che la direzione degli eventi era stata presa da elementi fortemente anticlericali ed ostili al Cattolicesimo – quindi per questioni sociali (o, se vogliamo, «religiose») anziché politiche. Sulla scia del Papa, anche il Re Ferdinando II di Napoli, col pretesto di disordini scoppiati nel suo Regno, s’affrettò a dare alle sue truppe l’ordine di ritirarsi dalla guerra; il Generale Pepe non obbedì, ma molti soldati napoletani abbandonarono il campo. Anche la Lombardia, dove era forte la contrapposizione tra il partito repubblicano (con a capo il Cattaneo e il Mazzini giunto appositamente da Londra) e il partito moderato (che aveva sollecitato l’intervento piemontese), incominciava a diffidare di Carlo Alberto. Così i Piemontesi e i volontari toscani (oltre a tutti coloro che non avevano obbedito all’ordine di ritirarsi) si trovarono da soli a dover affrontare l’esercito austriaco che intanto andava ricevendo rinforzi: il Mareciallo Radetzky arrivò a disporre di oltre 100.000 uomini, perfettamente organizzati.

Venuto a conoscenza della defezione degli alleati, e raggiunto dal Generale Thürn (succeduto al Nugent ammalato) con un altro esercito, Radetzky si propose di lanciare una poderosa controffensiva, per togliere l’assedio a Peschiera e puntare su Mantova prendendo così alle spalle l’esercito piemontese. Ma il suo piano non riuscì: giunte il 29 maggio a Curtatone e a Montanara, le truppe austriache non riuscirono a fare un passo avanti; per sette ore, 5.000 volontari toscani, quasi tutti studenti coi loro professori, oltre a Napoletani ed Emiliani, guidati dal Generale Cesare De Laugier, tennero testa a 35.000 Austriaci! Tra morti, feriti, prigionieri e disperi, gli Italiani ebbero circa 3.000 vittime; quasi tutti i cannonieri spirarono sulle loro batterie: Giuseppe Elbano, vedendo ardere i suoi vestiti, li gettò e rimase nudo e impavido al suo cannone. L’eroica resistenza di quei giovani, che si ritirarono a Goito e Castellucchio dopo aver esaurito tutte le munizioni, diede tempo al grosso dell’esercito piemontese di schierarsi presso Goito per affrontare l’avanzata nemica: e infatti quando il giorno dopo gli Austriaci giunsero a Goito, subirono una dura sconfitta. Solo il sopraggiungere della notte, una pioggia torrenziale e la stanchezza dei Piemontesi evitarono di traformare la ritirata austriaca in un massacro. La stessa sera anche la fortezza di Peschiera si arrendeva, e i soldati acclamavano per la prima volta Carlo Alberto «Re d’Italia».

Ma il Sovrano non seppe approfittare di questo momento favorevole: invece di incalzare il nemico demoralizzato per la caduta di Peschiera, rimase ad indugiare col suo esercito lungo le rive del Mincio. L’anziano Maresciallo Austriaco non mancò di approfittare di una tale mancanza di iniziative: riorganizzato l’esercito, a metà luglio sferrò una grande offensiva. Lo scontro decisivo avvenne il 23 luglio sulle colline di Custoza: per tre giorni i Piemontesi resistettero all’attacco nemico sotto un caldo soffocante, ma poi, sopraffatti dal numero perché il Re non voleva impiegare in battaglia tutti i suoi effettivi, furono costretti a ritirarsi. Incalzato dal nemico, l’esercito piemontese non ebbe il tempo di riorganizzarsi: gli Austriaci tentarono di sbarrargli il passo, tendevano continue insidie, stavano annidati negli orti e nelle case e li si doveva ricacciare di muro in muro; molti soldati uscivano dalle mischie colle baionette infrante. Vi fu un ufficiale nemico (non l’unico) che tentò d’ingannare i Piemontesi gridando loro: «A me, Savoia», conducendoli fin sotto la mitraglia; ma fu sterminato con tutti i suoi. Nonostante numerosi episodi di valore, in pochi giorni tutta la Lombardia ricadde nelle mani degli Austriaci; il 4 agosto, dopo un’ultima, disperata resistenza sotto le mura di Milano, Carlo Alberto abbandonò la metropoli, mentre la folla inferocita gridava al tradimento e tirava su di lui alcune fucilate. Il 9 agosto, il Generale Salasco firmò l’armistizio che porta il suo nome (armistizio di Salasco), che imponeva ai Piemontesi di ripassare il Ticino, confine tra il Regno di Sardegna e l’Impero Austriaco.

Soltanto Garibaldi, accorso dall’America alla notizia dello scoppio della guerra, ottenendo il comando di un corpo di volontari, non volle riconoscere l’armistizio e, dopo aver ripetutamente beffato le pattuglie austriache che tentavano di catturarlo, si rifugiò in Svizzera.

Molte sono le cause della sconfitta: non solo la sproporzione d’equipaggiamento e d’addestramento fra Piemontesi ed Austriaci, ma anche – soprattutto – la mancanza di un disegno organico delle operazioni, di una volontà capace, di una unità ed autorevolezza di comando; vi furono troppi consiglieri e troppe discussioni, e troppo poche quando sarebbero servite – molti Generali manovrarono le loro truppe sui campi di battaglia senza consultarsi gli uni con gli altri, divisi da reciproche diffidenze ed antiche rivalità. Diffidenze e rivalità che segneranno, come una triste litania, la storia futura delle armi d’Italia.

(settembre 2017)

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