Plebisciti per le annessioni e per l’Unità Italiana (1860-1870)
Constatazioni e riflessioni a oltre un secolo e mezzo dal voto di 13 Regioni

Gli anni Sessanta dell’Ottocento furono decisivi per la storia dell’Italia moderna, avendo coinciso con la scomparsa degli Stati pre-unitari e con l’avvento di una struttura nazionale che non era mai esistita, fatta eccezione, sia pure con qualche forzatura di carattere imperialista, per l’epoca romana, ormai quasi mitica. Il cammino unitario, dopo la pluridecennale preparazione del Risorgimento, sebbene ristretta per la maggior parte alle classi emergenti, ebbe termine in tempi abbastanza rapidi (con l’eccezione di Venezia Giulia e Trentino) nonostante le gravi difficoltà indotte dalla lunga resistenza borbonica protrattasi per quasi tutto il decennio, e non senza qualche colpo della «fortuna» machiavelliana: primi fra tutti, la vittoria prussiana sull’Austria conseguita a Sadowa, decisiva per le sorti della Terza Guerra d’Indipendenza e l’acquisizione del Veneto ratificata col plebiscito del 1866; e la disfatta di Napoleone III a Sédan che nel settembre 1870 permise di «andare a Roma» a prescindere da qualsivoglia copertura formale in grado di avallare la «guerra dei dieci giorni» con lo Stato Pontificio.

In momenti storici naturalmente diversi, i plebisciti coinvolsero 13 Regioni, aggiungendosi a quelli che, sul finire degli anni Cinquanta dell’Ottocento, a seguito della Seconda Guerra d’Indipendenza, avevano permesso di aggregare Lombardia e Liguria al Regno di Sardegna, con un passaggio propedeutico all’unità non meno fondamentale, anche se in quel momento il progetto unitario sembrava lontano, se non un semplice sogno nelle menti e nei cuori dei patrioti più accesi. Non a caso, Vittorio Emanuele II rimase tale, e anche più tardi si astenne dal diventare «primo» Re d’Italia, cosa che sarebbe stata pienamente legittima, visti gli esiti dei plebisciti.

Oggi, la validità politica dei «pronunciamenti» popolari in favore delle annessioni è fuori discussione in tutta la storiografia di riferimento, con qualche eccezione in quella meridionalistica, alla luce della lunga «guerra» contro i briganti, o presunti tali. Del resto, qualora si prendano in esame i risultati plebiscitari, anche a prescindere dal clima di forte entusiasmo e da un sistema elettorale tutt’altro che garantista, è facile rilevare che tali esiti non furono uniformi: nelle Regioni del Mezzogiorno continentale i suffragi contro l’unità sfiorarono mediamente gli otto punti percentuali, con punte più alte in Campania, a fronte di un dato nazionale inferiore ai due, quasi a esprimere la permanenza di ragguardevoli simpatie legittimiste soltanto nel Sud, cui si aggiunse quella toscana, sia pure dimezzata, indotta dalla benevolenza che il Granducato dei Lorena aveva saputo conquistare anche in occasione del moto rivoluzionario del 27 aprile 1859, quando Leopoldo II diede ordine di non sparare, e prese la via dell’esilio assieme alla famiglia, mentre i Fiorentini, come avrebbe raccontato Don Raffaello Lambruschini che fu cronista e storico della vicenda, si levavano il cappello al passaggio della carrozza[1]. Altrove le cose andarono diversamente, a tutto vantaggio delle preferenze unitarie e dei loro coefficienti «bulgari».

Molte Regioni costituiscono casi non meno particolari, come quelli di Lazio, Sicilia e Veneto. Nel primo la scomparsa dello Stato Pontificio non indusse dissensi apprezzabili nonostante la presenza di un consolidato potere clericale, tanto che i voti potenzialmente conservatori si limitarono all’1%, enfatizzando la frattura tra una cittadinanza ormai disincantata e non immune, specialmente a Roma, dalle proteste per il giro di vite imposto dal Governo Pontificio negli ultimi anni di gestione del potere, ivi comprese le condanne alla pena capitale pronunciate proprio nel 1870 e puntualmente eseguite sulla pubblica piazza. D’altra parte, le sorti pontificie non trovarono apprezzabili supporti nemmeno nel modo, per lo meno atipico, con cui il Regno d’Italia aveva coronato il sogno della Città Eterna come sua capitale, mettendo fine alle ultime velleità dell’intransigenza vaticana culminate nella proclamazione del Sillabo, di pochi anni precedente[2].

A proposito dello Stato Pontificio, non più dubbi furono i risultati del plebiscito nei territori storici che ne avevano fatto parte fino agli anni Cinquanta (Romagna, Marche, Umbria) dove la tradizione laica aveva già raggiunto livelli di apprezzabile consolidamento: premessa se non anche anticipazione di Porta Pia, un decennio più tardi.

Non meno sorprendente fu il risultato del plebiscito in Sicilia, dove i suffragi per il Regno separato furono meno di un cinquantesimo rispetto a quelli che erano stati espressi nelle altre Regioni Borboniche. Evidentemente, l’isola era stata particolarmente attratta dall’azione dei cosiddetti «picciotti» non insensibili alle nuove idee propugnate da uomini come Francesco Crispi e Luigi Carlo Farini, o meglio ancora, all’esigenza che «tutto cambi perché tutto resti come prima», di cui al celebre aforisma del Principe di Salina, proposto nel grande affresco cinematografico di Visconti.

Il risultato più clamoroso a favore del trasferimento all’Italia fu quello del Veneto, dove i voti per la «conservazione» austro-asburgica poterono contarsi in appena 69 a fronte di un totale pari a quasi 650.000, con un minimo assoluto nel Trevigiano, dove si ragguagliarono a due! Il plebiscito fu certamente «taroccato» dall’entusiasmo e dal numero relativamente ridotto degli aventi diritto al voto, tanto è vero che proprio in questa regione le residue simpatie austriacanti si sarebbero manifestate anche a parecchia distanza di tempo dal plebiscito stesso. D’altra parte, il ricordo della generosa difesa veneziana durante la Prima Guerra d’Indipendenza, quello più sfumato ma pur sempre illuminante della Serenissima, e soprattutto la memoria delle forche su cui si erano immolati i patrioti del Risorgimento, in specie a Belfiore ma non solo, faceva pendere la bilancia in modo altrimenti «introvabile» e oggettivamente scontato a priori.

Resta da aggiungere che nei 13 plebisciti per le annessioni dirette il numero complessivo dei votanti fu particolarmente circoscritto, nel senso che l’avallo popolare alla nuova realtà italica sotto l’egida della Monarchia Sabauda si avvalse di un concorso pari a circa tre milioni e mezzo di cittadini elettori, e al 76% degli aventi diritto. In altri termini, anche a voler considerare le astensioni alla stregua di voti contrari – cosa per lo meno opinabile –, il risultato non sarebbe cambiato.

Nella storiografia dell’epoca, e soprattutto in quella contemporanea, si è molto discusso sulla validità giuridica e politica dei plebisciti ma in ultima analisi si è trattato di un confronto sostanzialmente accademico. Le rivendicazioni legittimiste, a parte il movimento borbonico protrattosi anche dopo il 1870, quando Francesco II e la Regina Maria Sofia furono costretti ad abbandonare anche il primo esilio di Roma per trasferirsi in terra austro-asburgica, e il prolungato «non expedit» pontificio rimasto in vigore fino al Patto Gentiloni stipulato poco prima della Grande Guerra[3], ebbero rilevanza puramente formale. Anzi, furono destinate a consumarsi «dans l’éspace d’un matin»: in fondo, gli stessi Sovrani spodestati dai rispettivi troni non pensavano a concrete possibilità restauratrici, se non altro perché l’Antico Regime, dopo la fine di Carlo X di Borbone e l’avvento di Luigi Filippo d’Orléans sul trono di Francia (1830) avrebbe imboccato il lungo viale del tramonto, concluso a seguito della medesima Grande Guerra, con la scomparsa degli Imperi Centrali e di quello russo.

Nondimeno, è fuori dubbio che i plebisciti si giovarono di una congiuntura internazionale assai favorevole, basata sul fatto che l’Inghilterra vedeva di buon grado la presenza di una nuova realtà prevalentemente mediterranea come quella italiana, in grado di costituire un freno alle velleità francesi, e nello stesso tempo a quelle austriache in area balcanica, senza dire del «ralliement» con Napoleone III, in un primo momento con l’intervento in Crimea, e poi col suo avallo alla Seconda Guerra d’Indipendenza, passaggio fondamentale verso la genesi unitaria, nonostante il brusco voltafaccia dello stesso Napoleone III a seguito dell’ecatombe di San Martino e Solferino, e conseguentemente, dell’armistizio di Villafranca (ma ormai il dado era tratto). Oggi, in epoca elettronica, l’idea stessa del plebiscito è diventata inattuale, a conferma del fatto che ogni stagione ha proprie norme e propri riti, ma in quella stagione di speranze e di fedi si trattava quasi di una festa che consentiva di risolvere problemi politici, istituzionali ed economici in un clima di entusiasmo popolare dove la diplomazia assumeva carattere subordinato mentre la guerra consentiva un richiamo al nobile coraggio degli eroi, di forte valenza psicologica.

Nel decennio compreso fra il 1860 e il 1870, in ogni caso, si fece l’Italia, nel bene e nel male. Come avrebbe detto Massimo d’Azeglio col suo celebre aforisma, restavano da fare gli Italiani, ma il percorso per giungere a questo traguardo sarebbe stato molto lungo e difficile. Un primo apporto importante, ben oltre il valore simbolico dell’acquisizione di Roma, sarebbe derivato dall’ardua maturazione delle coscienze nell’inferno della Grande Guerra, ma la sconfitta militare nel Secondo Conflitto Mondiale, con il successivo appiattimento pragmatico, comune a buona parte degli Stati, in riferimento prioritario a quelli occidentali, avrebbe nuovamente proposto – alla maniera di Giambattista Vico e della sua teoria ciclica – l’attualità perenne dei valori di civiltà, collaborazione e progresso che erano stati quelli del migliore Risorgimento.


Note

1 A Firenze i voti per il Regno separato superarono i sei punti, ma non mancarono casi di Comuni Toscani in cui la percentuale fu notevolmente più alta. Basti ricordare quello di San Miniato, dove le preferenze per la conservazione del Granducato furono il 24%, a conferma di un diffuso atteggiamento propenso alla prudenza, almeno nelle classi ammesse al voto, mentre quelle popolari attendevano congrui vantaggi dalla «rivoluzione nazionale».

2 Il Sillabo degli errori del nostro tempo fu promulgato da Pio IX nel 1864 quale appendice all’Enciclica Quanta cura, affermando ancora una volta l’autorità della Chiesa Cattolica anche nell’ambito della società civile, con particolare riguardo alla condanna del laicismo e del razionalismo, e conseguentemente, a quella del socialismo e dell’indifferenza in materia di religione, estendendola a libertà di coscienza, di pensiero e di stampa. Condanna non meno forte fu riservata, in chiusura del documento, al cattolicesimo liberale, suscitando ampio consenso negli ambienti conservatori ma accentuando l’anticlericalismo delle forze democratiche.

3 L’accordo, stipulato nel 1913, fu finalizzato a promuovere intese elettorali nei singoli collegi, fra cattolici e candidati della democrazia liberale, passando alla storia col nome del suo massimo promotore, il conte Vincenzo Ottorino Gentiloni, assieme all’intento prioritario di prevenire il probabile avanzamento della sinistra nelle elezioni di ottobre quale seguito all’introduzione del suffragio universale maschile, diventato legge nell’anno precedente. Fra i punti più importanti del Patto si devono ricordare la tutela delle scuole private, l’introduzione dell’insegnamento religioso in quelle pubbliche e l’opposizione al divorzio.


PLEBISCITI PER L’UNITÀ D’ITALIA (1860-1870)


Regioni

Iscritti
Votanti
%
Data
% No

Sud (a)

1.650.000
1.302.064
36,7
21.10.1860
7,85

Toscana

534.000
386.445
10,8
12.03.1860 4,07

Lazio

167.548
135.188
3,8
02.10.1870
1,12

Marche

212.000
134.977
3,8
04.11.1860
0,89

Emilia

526.218
427.512
12,0
12.03.1860
0,35

Umbria

123.000
97.708
2,7
04.11.1860
0,32

Sicilia

575.000
432.720
12,1
21.10.1860
0,15

Veneto

-
647.726
18,1
21.10.1866
0,01

TOTALE (b)

-
3.574.642
100,0
-
1,85

(a) – Dati aggregati del Mezzogiorno «continentale» di: Abruzzi, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglie.

(b) – Incidenza media Votanti / Iscritti = 76%, con massimo di 81,3 in Emilia e minimo di 63,7 nelle Marche.

(maggio 2022)

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