I moti italiani nella prima metà dell’Ottocento
L’indifferenza del popolo e l’obiettiva sfortuna dei patrioti sono i due elementi principali che determinano il fallimento dei moti rivoluzionari del Primo Risorgimento

Gli anni che vanno dal 1820 al 1848 sono segnati da numerose rivolte che scoppiano in diverse parti d’Italia, con lo scopo di abbattere la tirannide austriaca ed i regimi dispotici che all’Austria si richiamano (il Regno Lombardo-Veneto è infatti territorio austriaco e quasi tutti gli altri stati italiani sono stati assegnati a Sovrani inclini a seguire con scrupolo la rotta tracciata dalla Corte Asburgica). L’Europa disegnata dal Congresso di Vienna nel 1815 comincia così, dopo appena cinque anni, a far sentire i primi scricchiolii.

Il palpito iniziale viene da lontano, dalla Spagna: il 1° gennaio 1820 insorgono contro Ferdinando VII, che si rifiuta di concedere la Costituzione elaborata dai patrioti otto anni prima, ai tempi della lotta contro Napoleone, i Colonnelli Riego e Quiroga; il 9 marzo, il Re deve accondiscendere alle richieste dei rivoltosi.

L’eco di questo successo desta delle speranze a Napoli, dove regna Ferdinando I di Borbone, fedele esecutore degli ordini austriaci: il 2 luglio due ufficiali iscritti alla Carboneria, Michele Morelli e Giuseppe Silvati, sollevano la guarnigione militare di Nola e, alla testa di una colonna di 150 uomini tra militari e borghesi, puntano su Avellino. Si unisce ai rivoltosi, con altri uomini, il Generale Guglielmo Pepe, in passato un valoroso ufficiale dell’esercito napoleonico. Tutti insieme marciano su Napoli, chiedono a gran voce una Costituzione uguale a quella che è stata concessa in Spagna, cioè una «carta» in cui diritti e doveri dei cittadini siano sanciti in modo chiaro e preciso ed il Re non possa più governare in modo assoluto; parte del popolo si unisce ai ribelli, chiede anch’esso la Costituzione di Spagna.

Preso alla sprovvista, Ferdinando I si vede costretto a cedere: il 13 luglio concede la Costituzione e indice le elezioni per la nomina dei deputati al Parlamento. Ma il moto si allarga in Sicilia dove si chiede una certa autonomia dell’isola: il popolo, reso aspro dalle ingiustizie subite per secoli, compie rapine e delitti.

L’Austria non è disposta però ad accettare un simile «turbamento» dei fragili equilibri della Penisola: al Congresso di Troppau, nell’ottobre 1820, Metternich fa accettare dalle potenze della Santa Alleanza il «principio di intervento». Ferdinando, invitato a Lubiana, sconfessa la Costituzione e chiede aiuto all’Austria contro i patrioti, che godono dell’appoggio di suo figlio.

Il Generale Frimont muove dal Lombardo-Veneto con le sue truppe, viola la neutralità dello Stato Pontificio e penetra nel Regno delle Due Sicilie. Guglielmo Pepe lo affronta in Abruzzo, ma il suo esercito si disperde; lo stesso avviene al Generale Carrascosa, sul Volturno. Il 23 marzo 1821 Frimont entra in Napoli. Ferdinando I torna sul trono ed inizia tutta una serie di fucilazioni e impiccagioni (tra gli altri, sono condannati a morte Morelli e Silvati), affidando la direzione della polizia al Principe di Canosa. Molti liberali abbandonano il Napoletano ed emigrano in Francia o in Inghilterra: tra questi il Pepe, Gabriele Rossetti, Giuseppe Poerio, il Colletta. Il popolo s’è mostrato indifferente alla sommossa o ha trasceso; il Re ha tradito la parola data revocando la Costituzione che aveva giurato. Ai patrioti italiani è ormai ben chiaro che non ci potrà mai essere libertà finché gli Austriaci avranno accesso alla Penisola – per questo tutte le Guerre d’Indipendenza saranno dichiarate esclusivamente contro l’Austria, anche quando dirette ad occupare stati e territori non soggetti alla Corona Asburgica.

È ancora in atto l’insurrezione napoletana, quando in Piemonte si ribellano le guarnigioni di Pinerolo e di Alessandria. I patrioti questa volta non chiedono solo un Governo Costituzionale, ma mirano addirittura alla guerra contro l’Austria per liberare il Lombardo-Veneto. L’anziano Re Vittorio Emanuele I, che dopo il Congresso di Vienna ha riportato il suo stato a vent’anni prima, rifiuta di concedere la Costituzione ma – non avendo il coraggio di affrontare la situazione – àbdica in favore del fratello Carlo Felice: poiché questi è lontano, a Modena, la reggenza va a Carlo Alberto di Savoia, il giovane principe ereditario dal carattere complesso e malinconico che è vissuto per lo più all’estero. Figlio di Carlo Emanuele, principe di Carignano, Carlo Alberto è entrato in contatto con l’Accademia dei Concordi e ne ha apprezzato i desideri di riforme e di patriottismo, tanto da concedere la Costituzione; ma Carlo Felice non approva il suo gesto e la ritira.

Contessa di Castiglione

Mansi, Ritratto di Carlo Alberto di Savoia, circa 1860

L’esercito austriaco interviene e l’8 aprile 1821 i rivoluzionari, guidati da Santorre di Santarosa, uno dei capi della sommossa, sono dispersi; le speranze che s’erano appuntate sul giovane principe dileguano. D’ora in avanti Carlo Alberto sarà giudicato come un uomo indeciso, tentennante e dubbioso, caratteristiche del carattere che avranno grosse conseguenze nella Prima Guerra d’Indipendenza.

«Sistemata» così la situazione in Italia, ci si può rivolgere a «rimettere a posto» le cose nell’«anello debole», la Spagna: l’esercito francese interviene e nel 1823 prende Madrid e il Trocadero. Ferdinando VII, protetto da un presidio francese, ordina feroci rappresaglie, che però non spegneranno i contrasti politici, forieri di nuove rivolte. Contro i liberali combatte in Spagna anche Carlo Alberto; succederà a Carlo Felice sul trono di Sardegna nel 1831.

Se i patrioti piemontesi emigrano, i liberali sono sottoposti a processo. La polizia ha scoperto la loro attività e li ha condannati chi a morte, chi al carcere. Sono arrestati Pietro Maroncelli, Pietro Borsieri, Silvio Pellico e Federico Confalonieri.

Silvio Pellico è nato a Saluzzo (Cuneo) nel 1789; emigrato a Milano, collabora al «Conciliatore». Arrestato nel 1820, viene processato e condannato a morte dalla polizia austriaca; commutata la pena, sconta dieci anni di carcere duro a Spielberg, in Moravia, e lascerà ricordo di questi anni nel libro Le mie prigioni. Anche il Confalonieri sarà rinchiuso nello stesso carcere.

Per i successivi 10 anni, dal 1821 al 1831, l’Austria – grazie ad una fitta rete di spionaggio – riesce a prevenire ogni insurrezione. Ma nel 1831 alcuni Carbonari, con a capo Ciro Menotti, trovano la maniera di organizzare un’insurrezione in grande stile e senza destare il minimo sospetto: essi riescono nientemeno che ad avere la protezione del Duca di Modena, Francesco IV. Questi, che aspira a formare un Regno comprendente la Lombardia, l’Emilia e lo Stato Pontificio, accetta di collaborare coi patrioti per cacciare gli Austriaci da quei territori. Stabilita per il 4 febbraio 1831, la rivoluzione dovrebbe scoppiare contemporaneamente a Modena ed in altre città. Ma all’ultimo momento Francesco IV, forse non sicuro del risultato dell’impresa, decide di impedire l’insurrezione: nella notte fra il 3 e il 4 febbraio fa arrestare Ciro Menotti e una quarantina di altri patrioti. La notizia del tradimento del Duca non giunge in tempo nelle altre città: Bologna, Parma ed altri centri dello Stato Pontificio insorgono; la rivoluzione si propaga nelle Marche, nell’Umbria e presso Roma, e in un primo tempo sembra avere successo. Gli Austriaci intervengono in forze e il 26 marzo i patrioti sono dispersi; Ciro Menotti, l’organizzatore della rivolta, viene impiccato.

Tutti i moti scoppiati in seguito sono opera della «Giovine Italia», una società segreta fondata a Marsiglia da Giuseppe Mazzini. Il primo viene organizzato a Genova nel 1833: lo scopo è lo stesso del 1821, indurre Carlo Alberto a concedere la Costituzione e a dichiarare la guerra all’Austria. Ma l’insurrezione fallisce ancora prima di scoppiare: la polizia sarda viene a conoscenza del piano e Jacopo Ruffini – il capo dei rivoluzionari – si uccide in carcere per non essere costretto a tradire i compagni.

Il fallimento dell’insurrezione di Genova non scoraggia affatto i patrioti iscritti alla «Giovine Italia»: l’anno dopo infatti mettono in atto un nuovo e più audace piano rivoluzionario, l’invasione della Savoia e una contemporanea insurrezione in Liguria e in Piemonte, per rovesciare il Governo di Carlo Alberto. Al moto rivoluzionario prende parte un giovane di 27 anni, da poco iscritto alla società mazziniana: Giuseppe Garibaldi. Ma le grandi speranze dei patrioti sono destinate a rimanere ancora una volta deluse: nel febbraio del 1834, le truppe di Carlo Alberto riescono a disperdere i rivoluzionari. Seguirà la repressione: Mazzini e Garibaldi, condannati a morte, riusciranno a salvarsi rifugiandosi all’estero.

Ugualmente sfortunate sono le insurrezioni scoppiate in Romagna nel 1843 e in Calabria l’anno successivo. Protagonisti di quest’ultimo tentativo sono i due fratelli veneziani Emilio ed Attilio Bandiera, due ufficiali della marina austriaca che disertano per porsi al servizio della «Giovine Italia». Il 16 giugno 1944 sbarcano, per suggerimento di Nicola Ricciotti, sulla spiaggia di Crotone (provincia di Catanzaro) assieme a 19 compagni. Traditi da uno di loro, vengono sorpresi dalle forze borboniche. I fratelli Bandiera ed il Ricciotti con altri sei vengono fucilati nel vallone di Rovita, presso Cosenza, il 25 luglio.

Quelle appena citate sono le più importanti insurrezioni tentate, prima dalla Carboneria e poi dalla «Giovine Italia», dagli anni Venti agli anni Quaranta dell’Ottocento. Il loro esito sfortunato forse non è servito, come invece sosteneva Mazzini, a risvegliare nel popolo italiano l’amore di patria e il desiderio di libertà, ma sicuramente ha portato la consapevolezza che un Impero come quello austriaco non poteva essere piegato da pochi gruppi di patrioti, ma era necessario appoggiarsi ad un vero e proprio stato, con un suo esercito. Sarà così che gli occhi di tutti cominceranno a volgersi verso il Piemonte, piccola Nazione periferica a cavallo delle Alpi, culturalmente meno vivace di quelle del resto della Penisola e retta da un Re tentennante e dubbioso, ma con un esercito di tutto rispetto e capace, all’occorrenza, di una politica ambiziosa, anche se non di rado ambigua.

(maggio 2017)

Tag: Simone Valtorta, Risorgimento italiano, moti italiani nella prima metà dell’Ottocento, 1821, Regno Lombardo-Veneto, Congresso di Vienna, 1831, Ferdinando VII, Michele Morelli, Giuseppe Silvati, Generale Frimont, Ferdinando I di Borbone, Guglielmo Pepe, Congresso di Troppau, Santa Alleanza, principio di intervento, Metternich, Generale Carrascosa, Gabriele Rossetti, Giuseppe Poerio, Colletta, Vittorio Emanuele I, Carlo Felice, Accademia dei Concordi, Carlo Alberto di Savoia, Santorre di Santarosa, Pietro Maroncelli, Le mie prigioni, Pietro Borsieri, Silvio Pellico, Federico Confalonieri, Ciro Menotti, Emilio Bandiera, Francesco IV, Carboneria, Giovine Italia, Giuseppe Mazzini, Jacopo Ruffini, Giuseppe Garibaldi, Attilio Bandiera.