Marzo 1821
Memoria dei primi eroi del Risorgimento a 200 anni dal martirio. Apporti e contributi della cultura: dalla nuova «antologia» all’ode manzoniana in onore dei patrioti

Sono passati due secoli ma per taluni aspetti potrebbe sembrare «ex prima facie» che siano trascorsi due millenni: eppure, in quel lontano 1821 il migliore Risorgimento Italiano aveva proposto prove importanti del suo diritto alla vita. Gli esiti non furono felici ma il seme era stato gettato e non avrebbe mancato di germogliare con frutti positivi, perché poteva contare su nobili adesioni di menti e di cuori, fino all’estremo sacrificio.

Il nuovo anno si era aperto con i migliori auspici, grazie all’uscita del primo numero di «Antologia» che vide la luce a Firenze il 2 gennaio per iniziativa di Gian Pietro Vieusseux e dei suoi collaboratori nel Gabinetto scientifico e letterario che aveva fondato nel 1812: in tale ambito, si ricordano i patrioti napoletani Giuseppe Poerio, Gabriele Pepe e Pietro Colletta, esuli dal Regno Borbonico; i cattolici toscani Gino Capponi e Raffaele Lambruschini; altri patrioti che venivano dall’esperienza del «Conciliatore» quali Pietro Giordani, Giuseppe Montani e Niccolò Tommaseo. Apporti non meno importanti, anche dal punto di vista finanziario, giunsero dall’aristocrazia e dal mondo economico locale tramite Cosimo Ridolfi e Bettino Ricasoli, con un contributo importante all’impostazione moderata in chiave liberale, ma con un occhio di riguardo alla diffusione per quanto possibile interclassista, testimoniata dalla tiratura iniziale di 700 copie: cifra certamente ragguardevole per l’epoca e per una rivista assolutamente innovatrice[1].

Sempre in gennaio, il Congresso di Lubiana, apertosi con l’intervento degli Stati Europei ai massimi livelli istituzionali nell’ottica reazionaria guidata dall’Austria e dalla Russia ma sostanzialmente condivisa da tutti, si espresse in termini di netta preclusione di fronte alle attese patriottiche che si erano diffuse soprattutto in Piemonte, sull’onda di quelle già emerse a Napoli, dove Ferdinando I di Borbone aveva concesso la Costituzione nel luglio precedente, mentre alla fine del 1820 aveva dichiarato di partire per Lubiana con l’impegno non mantenuto di proporsi quale mediatore fra la «Nazione Napoletana» e gli Stati Europei.

In sostanza, la richiesta principale era quella della libertà di pensiero e di associazione, che doveva essere garantita dai Sovrani a livello costituzionale, anche se in qualche caso non mancarono proclami autonomi, come accadde in alcune città piemontesi quali Alessandria, Asti, Casale, Ivrea, Vercelli.

Gli eventi furono di tutt’altro segno, né avrebbe potuto essere diversamente, alla luce di un fronte reazionario assai compatto che non ebbe remore nel decidere l’intervento armato contro i rivoluzionari partenopei mentre Ferdinando stava tranquillamente a Lubiana, dove sarebbe rimasto fino all’aprile dell’anno successivo, in attesa degli eventi che confidava a lui favorevoli, come puntualmente accadde. Dal canto suo, il reggente Carlo Alberto di Savoia concesse la Costituzione[2] mentre Carlo Felice, che si trovava momentaneamente a Modena presso la figlia Beatrice, si fece premura di dichiararne l’illegittimità, non senza pronunciare l’accusa di tradimento nei confronti degli ufficiali che l’avevano sollecitata.

In aprile, la catarsi era compiuta. A Napoli si tradusse nella vittoria austriaca e nell’insediamento della corte marziale, cui avrebbe fatto seguito il rientro di Ferdinando, tanto tardivo quanto pomposo; in Piemonte, ebbe compimento nella sconfitta dei costituzionalisti a Novara, con la fuga di Carlo Alberto[3], l’ingresso a Torino dei legittimisti vittoriosi e l’ascesa al trono del nuovo Monarca, ossia del medesimo Carlo Felice, in cui favore si era già avuta l’abdicazione del vecchio Sovrano, il fratello maggiore Vittorio Emanuele I.

La giustizia reazionaria fu impietosa, con una mano pesante che non era certamente imprevedibile, anche alla luce dei precedenti. D’altra parte, nella logica di Metternich e degli altri autocrati che facevano parte della Santa Alleanza, bisognava dare l’esempio: allo scopo, non si poteva certamente usare il guanto di velluto.

In Piemonte, i tempi furono rapidi. Il 21 maggio, il Capitano Giacomo Garelli fu impiccato a Torino perché riconosciuto colpevole di avere guidato il moto di Alessandria, mentre il «complice» Isidoro Palma fu graziato ma radiato e condannato all’esilio. Tre mesi dopo, sempre nella capitale piemontese fu eseguita la sentenza di morte per impiccagione a carico del Tenente Giovanni Battista Lanieri, reo di avere promosso analoghi tentativi «rivoluzionari» in Savoia. Non basta: altre condanne in contumacia furono eseguite sparando «sull’effigie» dei responsabili! A ben vedere, si tratta di esempi sempre in agguato: quelli di una tragedia non priva di aspetti grotteschi.

A Napoli non si ebbe altrettanta fretta: probabilmente, anche per il ritardo con cui Ferdinando era rientrato, e aveva presieduto alle istruttorie. Nondimeno, già dal gennaio 1822 la sentenza capitale emessa nei confronti di nove Carbonari ebbe esecuzione a Palermo; qualche mese più tardi ebbe seguito a Napoli con quella pronunciata a carico di Michele Morelli e Giuseppe Silvati, e a Modena con l’esecuzione di Don Giuseppe Andreoli, precursore di altri religiosi caduti nel Risorgimento per opera di una reazione incapace di comprendere il nuovo corso della storia. In detta ottica, si può aggiungere che all’inizio del 1822 andò a chiusura anche il processo asburgico nei confronti di Pietro Maroncelli e Silvio Pellico, condannati alla pena capitale, poi commutata in quella a 20 anni di carcere duro per il primo, e 15 per il secondo[4].

200 anni dopo, a queste ricorrenze si deve un ricordo che non sia meramente rituale. Da un lato, l’assunto trova motivazione nei sacrifici che i primi patrioti del Risorgimento seppero e vollero compiere all’inizio di un percorso assai lungo, non sempre compreso nei suoi valori autentici, anche perché compromesso da tante contraddizioni e da proposte talvolta non complementari, a cominciare da quelle in campo istituzionale. Nondimeno, fu la partenza di un riscatto morale, ancor prima che politico, come quello cantato nell’ode manzoniana con versi immortali.

Nell’ormai lontano marzo del 1821, coinvolto nel subitaneo e transeunte entusiasmo del momento, lo stesso Manzoni aveva creduto che l’Italia fosse prossima all’essere «una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue, di cor». Non era così, fatta eccezione per una minoranza patriottica culturalmente impegnata e propensa al sacrificio, persino della vita, nell’intento di portare le glorie degli avi a nuovo splendore; d’altra parte, Don Lisander intuiva con ottimo acume politico e psicologico che i comportamenti umani possono essere fortemente orientati dall’esempio e perfino da una nobile imitazione.

I risultati, secondo un’oggettiva necessità, sarebbero stati raggiunti col tempo, ma la disponibilità di uno strumento di autentica «informazione formativa» come la nuova rivista fiorentina, posta al servizio dell’idea nazionale italiana, e l’impegno volitivo dei patrioti, avrebbero finito per trionfare sull’assolutismo non certo illuminato di tanti Sovrani e dei loro Governi reazionari. Se non altro, il dado era stato tratto.

Il 1821, in ultima analisi, coincise con un momento fondante nella storia d’Italia: da una parte attraverso la cultura, come attestano la fondazione di «Antologia» e le alte celebrazioni poetiche, e dall’altra tramite il primo tentativo concreto di scendere in campo per la difesa e l’affermazione dei valori nazionali, che non ebbe successo immediato ma trasse dal contributo di sangue dei combattenti e dei martiri uno spunto fondamentale per riflettere e per conquistare nuove convinzioni più mature, destinate a convergere nel principio sovrano dell’indipendenza, in un quadro imprescindibilmente unitario, improntato al valore fondamentale della Libertà[5] come categoria dello Spirito.


Note

1 L’esperienza di «Antologia» si protrasse con significativo impatto politico e culturale fino al 1833, nonostante le gravi difficoltà dovute alla Restaurazione, per concludersi a causa delle forti pressioni esercitate da parte austriaca sul Granduca di Toscana Leopoldo II di Lorena. Le pubblicazioni furono riprese con la testata di «Nuova Antologia» a decorrere dal 1866, in concomitanza col trasferimento della sede del Governo d’Italia da Torino a Firenze, per continuare ininterrottamente fino ai nostri giorni.

2 La Costituzione fu stampata in 20.000 copie per una distribuzione altrettanto ampia. Questo particolare attesta che – almeno in un primo momento – Carlo Alberto, sopravvalutando il proprio ruolo di reggente, aveva considerato con favore la richiesta dei patrioti, salvo rivedere tale decisione nel brevissimo termine: giusto in tempo per suscitare l’entusiasmo di Alessandro Manzoni che scrisse di getto la sua celebre ode (dal 15 al 17 marzo), salvo darsi alla fuga e rinunciare alla reggenza con altrettanta rapidità (21 marzo). A proposito di Marzo 1821, giova rammentare che dopo la subitanea caduta delle speranze d’Italia lo stesso Manzoni si sarebbe fatto premura di archiviare il manoscritto, salvo riesumarlo nel 1848 e diffonderlo apertamente, forse con qualche integrazione: ebbe larghi consensi fra cui quello di Giovanni Berchet e, più tardi, di Giosuè Carducci (sia pure con qualche venatura umoristica: quest’ultimo lo avrebbe paragonato a Padre Cristoforo nell’atto di pronunciare un’omelia all’indirizzo degli Austriaci).

3 Carlo Alberto fu preso in consegna dalle truppe austriache al confine con la Lombardia e condotto a Modena, dove lo zio Carlo Felice, dopo essersi rifiutato di riceverlo, gli diede ordine di proseguire per la Toscana. Le sue fortune parvero tramontare senza possibilità di ripresa, ma nel 1831 ebbe modo di recuperare il trono alla morte dello stesso Carlo Felice, che non aveva eredi diretti. Dopo aver cercato di recuperare la fiducia del partito legittimista impegnandosi contro i seguaci di Giuseppe Mazzini durante i moti del 1831 e seguenti, nel 1845 si sarebbe volto a simpatie neoguelfe, fino a proclamare quello Statuto (4 marzo 1848) che sarebbe rimasto in vigore per 100 anni e ad accettare la discesa in campo contro l’Austria e subire la disastrosa sconfitta di Custoza, un pesante armistizio e l’esilio definitivo in Portogallo.

4 Maroncelli e Pellico hanno trovato collocazione nella galleria del migliore Risorgimento grazie alla fondamentale opera dello stesso Pellico (Le Mie Prigioni) e alle inaudite sofferenze del Maroncelli nella fortezza boema dello Spielberg, dove ebbe a subire l’amputazione di una gamba. senza alcun conforto tranne la vicinanza dell’amico e l’austera presenza del carceriere Schiller. Anche per questo, entrambi i detenuti poterono fruire di un discreto sconto di pena, che fu dimezzata per il Maroncelli e ridotta di un terzo per il Pellico.

5 In questa ottica resta di fondamentale rilevanza storica e culturale l’idea di Libertà come vera e propria «religione» proposta da Benedetto Croce, Storia d’Europa nel secolo XIX, Laterza Editore, Bari 1953. Ciò, senza escludere le altre «fedi opposte» cui il grande storico idealista riconosceva uguali diritti e analoghe attenzioni, con particolare riguardo ai principi egualitari del socialismo, ai valori del principio di nazionalità, e naturalmente, alla morale cattolica; ma pur sempre con un occhio di particolare riguardo al liberalismo perché fondato sull’accettazione incondizionata del confronto pluralista e di una centralità dell’uomo in funzione di ciò che gli appartiene in forma esclusiva: per l’appunto, la morale della Libertà.

(aprile 2021)

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