Giuseppe Verdi, il «cantore» d’Italia
Un grande compositore, che nelle sue liriche seppe infondere lo spirito che allora animava gli intellettuali d’Italia; le sue opere sono più che mai attuali, in una società pur assai mutata rispetto a quella dei suoi tempi

Giuseppe Verdi

Ritratto di Giuseppe Verdi, 1886, Fondazione Verdi, Milano (Italia)

L’Ottocento è un secolo assai fecondo per la musica: è il tempo in cui si afferma il melodramma e in cui i teatri traboccano di folla per ascoltare le opere di Rossini, di Bellini, di Donizetti e di Verdi. Anzi, quest’ultimo con I Lombardi alla prima Crociata, Nabucco, Aida, Rigoletto, La battaglia di Legnano interpreta la passione patriottica degli Italiani e i suoi motivi saranno ben presto nell’orecchio di tutti, quasi a formare la «colonna sonora» dei fatti del 1848, eventi fondamentali del nostro Risorgimento: Verdi dà al Risorgimento i suoi slanci, i suoi ritmi, i suoi inni. Nelle sue opere liriche, il pubblico riconosce il tema del riscatto di un popolo dall’oppressione, soprattutto nei cori, che hanno un successo tale da venir cantati non solo nei teatri, ma anche nelle strade e nelle locande. Ancor oggi non c’è chi non abbia almeno una vaga reminiscenza di arie come il «Va’, pensiero» del Nabucco o la marcia trionfale dell’Aida.

È vero, nelle strade, nei teatri e nei salotti si cantano e si suonano anche canzoni provenienti dal repertorio della Rivoluzione Francese, ancora vivo nella generazione nata all’inizio dell’Ottocento; Giuseppe Mazzini, in esilio, ama cantare accompagnandosi con la chitarra l’Inno dell’albero («Or che innalzato è l’albero / s’abbassino i tiranni, / da suoi superbi scanni / scenda la nobiltà»), e la Marsigliese conosce molti rifacimenti in italiano. È vivo anche il repertorio delle canzoni popolari. Tuttavia è il melodramma che ha un ruolo preponderante. E l’interprete principale del melodramma è Giuseppe Verdi!

Giuseppe Verdi nasce a Roncole, una frazione di Busseto (in provincia di Parma) il 10 ottobre 1813. Ad otto anni, l’età in cui si pensa soltanto a giocare, il piccolo Giuseppe ha un solo, grande desiderio: quello di possedere una spinetta (uno strumento simile al pianoforte). E suo padre, un povero bottegaio, ha deciso di accontentarlo, dato che si è accorto che il figlio possiede una singolare attitudine per la musica. Spesi fino all’ultimo i pochi quattrini che ha risparmiato, può finalmente regalare a Giuseppe il tanto sospirato strumento. Da quel momento, Verdi si dedica alla musica: è capace di suonare la spinetta per tutta la giornata, spesso trascurando i suoi doveri scolastici. Chi l’ha ascoltato è rimasto meravigliato della sua bravura.

A soli dodici anni, Giuseppe viene nominato organista della chiesa di Roncole; il giovinetto non solo sa suonare a meraviglia, ma va già componendo della musica.

«Questo ragazzo diverrà certo un grande musicista!» dicono in paese quelli che s’intendono di musica. Ma per giungere a tanto, non è sufficiente continuare ad esercitarsi sulla spinetta, occorre affrontare studi molto più severi; e Verdi allora si reca a Milano per seguire le lezioni di bravi maestri (lezioni private, perché al Conservatorio lo bocceranno per «mancanza di attitudini»!). La svolta capita al Teatro Filodrammatici dove, per l’assenza del maestro concertatore, il giovane Giuseppe è chiamato a dirigere un Oratorio di Haydn: trascinato dalla musica, con una mano suona il pianoforte, con l’altra comincia a dirigere, sollevando l’entusiasmo dei presenti; il giovanotto alto e filiforme, col volto pallido incorniciato da una barbetta nera, rivestito di panni contadini, selvatico e scontroso, di colpo si ritrova famoso.

A ventidue anni, compone la sua prima opera melodrammatica, commissionatagli proprio dal Direttore del Filodrammatici: l’Oberto, conte di San Bonifacio, che pensa di far rappresentare in un grande teatro italiano; ritiene di aver scritto della buona musica ed è ansioso di farla conoscere al pubblico.

Il 17 novembre del 1839, per l’interessamento di alcuni amici, l’opera va in scena nientemeno che alla Scala di Milano, il più importante teatro lirico del mondo… l’opera è mediocre, comunque piace ma non è certo il successo che Verdi si aspetta, tanto che ne parlerà come di un mezzo fiasco. La seconda opera, Un giorno di regno (un’opera buffa), è invece un fiasco intero, tanto da far affermare a Giuseppe che non avrebbe più composto nulla (l’opera, in effetti, gli è stata commissionata negli anni in cui perde la moglie – la dolce «Ghita [Margherita] dai bellissimi capelli» – e due figli e, quindi, non è nelle condizioni psicologiche migliori per un soggetto umoristico; Rossini arriva addirittura a definire Verdi «privo di talento comico»).

Il 9 marzo 1842, invece, viene rappresentata una nuova opera lirica: il Nabucco. Ed è l’apoteosi!


Il Nabucco, l’opera del nostro Risorgimento

Il Nabucco è un’opera profondamente innervata nella storia italiana e, si potrebbe dire, «intrisa» nel legno della Scala, un vero e proprio «bene scaligero». Giuseppe Verdi la compone a ventinove anni, nel periodo più difficile della sua vita: a Milano vive in una stanza d’affitto, dando lezioni private per tirare avanti, spesso nutrendosi solo di una galletta inzuppata nell’acqua; una vita senza amici e senza prospettive verso il futuro. A convincerlo a scrivere ancora musica è l’impresario scaligero Merelli, che gli ficca in tasca, quasi di forza, il libretto del Nabucodonosor di Temistocle Solera, un’opera di soggetto biblico (in realtà, Merelli avrebbe scelto Otto Nikolay, un musicista viennese molto quotato, ma lui rifiuta con sdegno). Verdi racconterà più tardi che aveva intenzione di usare il libretto come carta straccia per accendere il fuoco: «Strada facendo, mi sentivo addosso un malessere indefinibile, una tristezza somma, un’ambascia che mi gonfiava il cuore. Mi rincasai, e con gesto quasi violento, gettai il manoscritto sul tavolo, fermandomi in piedi davanti. Il fascicolo, cadendo sul tavolo, si era aperto: senza saper come, i miei occhi fissano la pagina che stava a me innanzi, e mi si affaccia questo verso: “Va’, pensiero, sull’ali dorate”». Il «Va’, pensiero» è stata, in effetti, la prima parte ad essere musicata: Verdi è un compositore da grande affresco, bisognoso di movimenti scenici di massa, che gli forniscano il pretesto ad ampi, gagliardi, unisoni cori; il lamento degli Ebrei che dal lontano esilio piangono la Patria perduta fa vibrare le sue più intime corde.

La prima, abbiamo detto, è del 1942. L’opera entra subito nel cuore di tutti, spalancando al compositore le porte di tutti i teatri e dell’alta società (le grandi dame dell’aristocrazia gli si affollano attorno, e se lo disputano; ma lui continua a vivere da studente povero, in un piccolo alloggio disadorno e senza conforti, accudito da Muzio «testa rossa», un suo giovane compaesano che gli fa da segretario, da cuoca, da lavandaia, da infermiere). Nel 1848, proprio mentre l’opera va in scena ancora una volta alla Scala, il popolo milanese insorge contro gli Austriaci dando inizio alle famose «Cinque Giornate di Milano». Verdi ha dichiarato che l’opera non è risorgimentale (non ha legami con l’Italia, è la storia di un popolo diverso e sconfitto in guerra), ma il soggetto non può non entrare nei cuori dei patrioti, che si identificano con gli Ebrei oppressi a Babilonia; così, il Nabucco diviene l’opera-manifesto del Risorgimento, e le scritte che cominciano a comparire sui muri delle case, «Viva Verdi», possono essere facilmente intese come un acrostico: «Viva Vittorio Emanuele Re DItalia».

A rendere risorgimentale l’opera è il materiale musicale utilizzato da Verdi: egli assimila e fa proprio il melodramma, ma poi ci mette tutta la sua cifra, una musica estremamente infuocata, cori ardenti… con Nabucco Verdi diventa l’operista più amato in Italia, tanto che l’opera avrà subito quaranta repliche. Si tratta di un’opera giovanile, è vero, ma ha dentro in nuce tutto il grande Verdi, tutta la sua poetica: il conflitto tra i poteri – nella fattispecie, lo Stato e la Chiesa – che impedisce all’uomo d’essere se stesso, il dramma psicologico, il tema dell’amore.

Il Nabucco (è significativo il titolo, che si riferisce al nemico) si ambienta nel sesto secolo avanti Cristo, prima presso il Tempio di Gerusalemme e poi nel palazzo di Nabucodonosor, Re di Babilonia. Il popolo ebreo è vinto in guerra dagli Assiri (in realtà, sarebbero i Babilonesi), Fenena – figlia di Nabucodonosor – è ostaggio degli Ebrei ma di lei s’innamora Ismaele, nipote del Re di Gerusalemme, che le salva la vita. Nabucodonosor, pur vincitore, subirà la punizione divina per la sua tracotanza e malvagità, diverrà folle e tornerà in sé solo con la conversione al Dio di Israele (fatto narrato dalla Bibbia ma non suffragato da altre fonti), giusto in tempo per recuperare il trono dalle mani dell’usurpatrice Abigail, cresciuta nel palazzo e accudita come figlia nonostante sia prole di schiavi. Sarà l’amore tra Fenena e Ismaele, alla fine, a trionfare.

Il Nabucco è un’opera che è sempre stata in repertorio; il suo interprete più accreditato è Arturo Toscanini, che ha conosciuto Verdi di persona ma non ha mai inciso il Nabucco. Abigail, la donna fortissima ma destinata alla sconfitta, vero personaggio principale, è interpretata per la prima volta da Giuseppina Strepponi, seconda moglie di Verdi, e in seguito, tra le altre, dalla grande Maria Callas; indimenticabili interpreti moderne sono Ghena Dimitrova e Maria Guleghina.

Il successo dell’opera è, lo abbiamo detto più sopra, enorme: Giuseppe Verdi non solo viene considerato ora un grande compositore, ma anche un ardente patriota; negli anni in cui gli Italiani stanno lottando per liberarsi dalla dominazione austriaca, Verdi ha voluto musicare un’opera che possa interpretare il sentimento patriottico di tutto il popolo italiano.

L’anno dopo, il 1843, un’altra opera patriottica: I Lombardi alla prima Crociata (con un altro coro di patriottico rimpianto: «O Signore dal tetto natio»). Agli Italiani non sfugge il significato di questa nuova opera: Verdi invita il popolo italiano a preparare una Crociata contro lo straniero oppressore. E da quel momento, in pochi mesi, spartiti su spartiti, tanto che ormai il teatro lirico è solo Verdi, e lui stesso viene chiamato il «musicista del Risorgimento Italiano». Ma non si tratta solo di scelte musicali. Per esempio, il cappello con la piuma portato dagli uomini per indicare sentimenti patriottici è detto «cappello all’Ernani» perché ricorda quello usato dal protagonista dell’omonima opera, il bandito romantico ribellatosi al Re di Spagna: detto anche «all’italiana» o «alla calabrese», è vietato dall’imperial-regia polizia austriaca nel Lombardo Veneto e viene di moda nel periodo della rivoluzione.

I teatri diventano luoghi di manifestazioni. A Venezia, la Fenice viene chiusa dalla polizia austriaca nel febbraio del 1848 per far cessare gli interminabili applausi, le richieste di bis e lo sventolare di fazzoletti nel teatro. Quell’inverno va in scena il Macbeth, che scatena gli entusiasmi e le richieste di bis quando il protagonista, ribelle al Re Inglese, impugna la spada e attorniato dai suoi uomini intona: «La Patria tradita / piangendo ne invita! / Fratelli! Gli oppressi / corriamo a salvar».

È il pubblico stesso ad interpretare in senso patriottico espressioni che in altre circostanze non l’avrebbero avuto. «Noi siam corsi all’invito d’un pio», un verso del coro de I Lombardi alla prima Crociata, ricorda la figura di Pio IX, che nella primavera del ’48 si schiera inizialmente per l’indipendenza nazionale; e come non pensare al Leone di San Marco e all’Italia ascoltando il coro dell’Ernani: «Si ridesti il Leon di Castiglia / e d’Iberia ogni monte, ogni lito».

Quando i Milanesi cacciano gli Austriaci da Milano e Carlo Alberto dichiara guerra all’Austria, il grande musicista compone La battaglia di Legnano (1849), unica opera in cui affronta in modo esplicito il tema patriottico. Verdi ha scelto questo argomento, perché in cuor suo si augura che il popolo italiano consegua sull’Austria la stessa grande vittoria che nel 1176 i Comuni Italiani ottennero a Legnano contro il Barbarossa. È un momento particolare: l’opera viene rappresentata la prima volta a Roma, dopo che il Papa è fuggito dalla città in mano ai rivoluzionari, rifugiandosi a Gaeta presso il Re Borbone, e scomunicando chi partecipa al governo romano ed alle elezioni per la Costituente che di lì a poco dichiarerà decaduto il potere temporale dei Papi.

Le scene del melodramma diventano anche un modello per le azioni collettive: il coro degli uomini che intonano l’inno di guerra o pronunciano un giuramento di fratellanza incrociando le spade per poi abbracciarsi, è una tipica scena rivoluzionaria del 1848. Come nei teatri, osservando questa scena, le donne sventolano fazzoletti e applaudono all’acuto finale del tenore che guida il coro, così avviene nelle piazze; e proprio a partire dalle rivoluzioni del 1848 ci sono donne che non si accontentano del ruolo limitato all’assistenza degli uomini, per poi morire consunte dalla malattia o dall’infelicità come nel melodramma, ma, in virtù di una comune fratellanza, rivendicano un ruolo più attivo ed energico.

(Per chi desiderasse una buona edizione del Nabucco, consiglio una delle seguenti:
Manuguerra, Scotto, Ghiaurov, Philharmonia Orchestra, Riccardo Muti, Cd Emi;
Cappuccilli, Dimitrova, Nesterenko, Deutschen Oper Berlin Orchester, Giuseppe Sinopoli, Cd Deutsche Grammophon;
Gobbi, Suliotis, Wiener Philharmoniker, Lamberto Gardelli, Cd Decca).


La Traviata: la forza dell’amore

Tra il 1851 e il 1887, Verdi passa di successo in successo, chiamato anche all’estero (a Londra, a Parigi, a Pietroburgo…), e componendo le sue migliori opere.

Tra queste, la Traviata è una delle più amate e rappresentate. Anzi, si direbbe che ancor oggi ogni regista desideri farla sua, dato che accanto alle edizioni più tradizionali ci sono regie che la pongono nelle epoche o negli ambienti più diversi: per esempio, se Visconti, ambientandola alla fine dell’Ottocento, non si discosta troppo dalla tradizione, la Traviata di Stoccolma vive i suoi amori e le sue pene tra i grattacieli di New York, e quella di Berlino in una beauty-farm in una edizione, sotto un ponte in un’altra; ad Aix-en-Provence l’hanno ambientata in un set cinematografico, a Salisburgo in uno spazio atemporale, dove la scenografia è ridotta a pochi accenni; il regista Robert Carsen ha inserito la «sua» Traviata in un casinò. Diversamente da tutti, Ferzan Ozpetek (che il 5 dicembre 2012 ha inaugurato la stagione del Teatro San Carlo di Napoli) ha fatto una regia «proustiana» nel senso di ricreare la Parigi del tempo di Proust, la ville lumiére della Belle Epoque e del cinema muto: la stessa protagonista, Violetta Valery, viene vestita come una diva del muto; diretta da Michele Mariotti, un giovane direttore già assai quotato, l’opera si avvale di Saimir Pirgu come Alfredo, mentre Vladimir Stoyanov è Giorgio Germont e Violetta è interpretata da Carmen Giannattasio, una soprano affascinante.

Musicata nel 1853, vertice di quella «trilogia popolare» che annovera anche il Rigoletto e il Trovatore (dove i protagonisti sono rispettivamente un anziano gobbo ed un gruppo di zingari), la Traviata suscita subito un vespaio di polemiche. Per il soggetto scabroso (Violetta è una prostituta!) e per il fatto che il dramma è moderno (non si è mai vista un’opera con personaggi vestiti come quelli di tutti i giorni, e che vivono una vicenda di tutti i giorni), la Traviata viene rifiutata da tutti i teatri italiani e parigini; l’unica eccezione è Venezia, città tradizionalmente aperta, che accetta di rappresentarla ma retrodatandola al Settecento e cambiando il titolo che le aveva dato Verdi Amore e morte in Traviata, che le è poi rimasto (in questo, i censori veneti hanno visto giusto!).

L’opera non incontra subito un vasto gradimento. Verdi parla di un completo fiasco, incolpando i cantanti e il direttore che non avrebbero capito nulla della sua opera; in realtà esagera, certo è che non riceve le ovazioni a cui è ormai abituato.

La Traviata è un’opera innovativa, sul piano musicale (con un’orchestra quasi cameristica, senza masse corali) ma soprattutto perché ambientata nell’epoca a lui contemporanea e con protagonista una prostituta. All’epoca della sua pubblicazione suscita parecchio scandalo perché i ricchi che vanno a teatro (tutti ammogliati e tutti con l’amante) si immedesimano negli amanti della protagonista, si vedono sbattuti in faccia senza troppi complimenti i loro propri vizi; lo stesso Verdi, del resto, convive con Giuseppina Strepponi (la sposerà solo nel 1859). Paradossalmente, è la prostituta Violetta ad incarnare i sentimenti più nobili e puri, è lei l’unica che riesce ad amare veramente, con tutta se stessa, e che arriva a perdonare a tutti, anche al padre di Alfredo che le chiede di rinunciare all’unico amore della sua vita – a questo arriva il perdono cristiano!

L’opera è basata sulla vera storia di Marie Duplessis, la cortigiana più bella di Parigi ed amante di Alexandre Dumas figlio, che ne narra la vicenda nel romanzo La signora delle camelie (Parigi è una fonte d’ispirazione per Verdi, che vi ha trascorso parecchio tempo facendosi una cultura sui «vaudeville» e sulle «piece» teatrali in voga nella capitale francese – in pratica, tutte le sere era a teatro…). Giuseppe Verdi vede una trasposizione teatrale de La signora delle camelie e ne rimane affascinato.

Nella Traviata, Verdi fa una critica feroce della società del suo tempo, ma sarebbe sbagliato vederlo come un censore dei costumi: il suo vero intento è di esplorare nel profondo l’animo umano.

Violetta, bellissima cortigiana malata di tisi, non riesce ad amare e riempie la sua vita tra i fasti e le ricchezze (feste, brindisi, balli e giochi…). Viene trafitta dall’amore quando il giovane Alfredo, unico tra tutti i presenti ad una delle tante feste, si preoccupa della sua salute. Per la prima volta, i due scoprono la forza del vero amore, e fuggono dalla città per vivere il loro idillio in una villa in campagna. Qui vengono raggiunti da Giorgio Germont, il padre di Alfredo, che nell’opera ha la parte del «cattivo», del «bigotto» che guarda soltanto all’onore della famiglia (ma che alla fine si rivelerà una persona di buon cuore): chiede a Violetta di lasciare Alfredo, perché il fidanzato della di lui sorella rifiuta di sposarla e di diventare cognato di un uomo che vive una relazione illecita con una donna di «malaffare». Violetta gli tocca il cuore con l’amore sincero che prova per Alfredo, e proprio per non rovinare quella famiglia decide di abbandonarlo, di fuggire, di tornare a Parigi a fare la vita fastosa ed elegante che l’ha sempre affascinata, rinunciando all’amore. Alfredo la ritrova ad una festa e, non riuscendo a capacitarsi del suo gesto, la insulta ed umilia. Sarà il padre a scrivere ad Alfredo che Violetta lo ama veramente, ma quando egli la raggiunge la donna è ormai morente, consunta dalla tisi («È tardi per vivere questa storia d’amore», gli sussurra lei); spirerà tra le sue braccia, ma con un ultimo palpito di gioia per l’amore ritrovato.

(Per chi desiderasse una buona edizione della Traviata, consiglio una delle seguenti:
Cotrubas, Domingo, Milnes, Bayerischer Staatsopernchor, Carlos Kleiber, Cd Deutsche Grammophon;
Scotto, Kraus, Bruson, Philharmonia Orchestra, Riccardo Muti, Cd Emi;
Callas, Di Stefano, Bastianini, Orchestra Teatro alla Scala, Carlo Maria Giulini, Cd Emi).


Il Falstaff, l’opera buffa che a Verdi mancava

La vena musicale di Giuseppe Verdi è inesauribile: sono più di trenta le opere teatrali che ha composto (ventinove le opere liriche), compresa una famosissima Messa da Requiem per la morte di Alessandro Manzoni che rappresenta uno dei più grandi capolavori musicali di tutti i tempi. L’ultima sua opera è il Falstaff, rappresentata il 9 febbraio 1893, quando Verdi ha già ottant’anni, è ormai all’apice del successo e, dopo l’Aida (forse la sua opera più famosa), si ritiene soddisfatto e pensa ad un suo «ritiro» dalle scene. A provocarlo e convincerlo è Arrigo Boito, già librettista di Otello (un altro capolavoro verdiano) e che sarà il librettista anche di Falstaff.

Il soggetto è tratto da due famose commedie di William Shakespeare, Le allegre comari di Windsor e, in misura minore, Enrico IV, ma il libretto di Boito – un piccolo capolavoro letterario – supera addirittura la prosa shakespeariana. L’opera è stata scritta specificatamente per La Scala (la prima è nel 1921, a carnevale, poi nel 1936 e nel 1980), ed è una delle opere più dirette da Toscanini; nell’Archivio Ricordi è conservata la partitura autografa del Falstaff.

Siamo nel XV secolo, in Inghilterra. Falstaff è un nobile decaduto, che ha la presunzione d’essere, malgrado l’età avanzata, un grande rubacuori. È un personaggio ridicolo: il suo castello è in realtà l’Osteria della giarrettiera, le vesti ricche sono stracci da cacciatore, il fisico aitante è un pancione sformato e spelacchiato, l’esercito sono due spiantati, Bardolfo e Pistola. Decide di risanare le sue casse vuote puntando su una qualità che pensa di avere da vendere: il fascino. Cerca quindi di sedurre due dame borghesi, ricchissime e bellissime, mandando loro due lettere d’amore assolutamente identiche; il caso vuole che le due dame si conoscano, e così scoprano l’inganno e decidano di vendicarsi del goffo seduttore; alla loro vendetta si aggiungerà quella dei mariti delle due dame e persino quella dei «bravi» di Falstaff.

Il sogno di fare un’opera buffa è vivo in Verdi fin dalla composizione di Un giorno di regno. Il Falstaff è l’opera buffa che a Verdi mancava («scrivendo Falstaff non ho pensato né a teatrini né a cantanti. Ho scritto per piacer mio»), ma il messaggio che veicola è tutt’altro che buffo, è un messaggio amaro, dove il buffo si fonde con il tragico. Falstaff è il don Giovanni da vecchio, un gran signore senza più un soldo, un amante del cibo che lo devasta con colesterolo e diabete, un amante delle donne senza più donne; permea l’opera il contrasto tra la nobiltà in decadenza e la borghesia sempre più forte, che lotta contro il potente ma che, una volta preso il suo posto, si abbandona agli stessi eccessi e crudeltà – l’unico motore che muove l’uomo, suggerisce Verdi, è l’avidità (di potere, di denaro, di piacere), l’uomo schiaccia il suo prossimo perché ognuno tende a considerarsi più furbo e migliore degli altri. È la perenne lotta tra il pesce grosso e il pesce piccolo: quando i ruoli si invertono, il pesce piccolo non è meno cattivo e spietato del pesce grosso. Alla fine, tra ironie e sorrisi, si scopre che nel mondo poco è importante, perché in fondo tutto è burla: bisogna accettare gli altri, siamo al mondo per essere felici, magari anche con un briciolo di ironia.

Il Falstaff è un’opera perfetta, e forse proprio per questo complessa e non facile da dirigere; Abbado l’ha definita «l’opera più difficile mai scritta», Harding «un congegno ad alta orologeria musicale e drammaturgica». Vi è in essa un miracoloso equilibrio di comicità e profondità: c’è malizia e nello stesso tempo innocenza, leggerezza e pensosità, riso e amarezza, gioia e malinconia. Alla sua uscita ha un successo clamoroso, ventun repliche e grandi lodi (Verdi riceve telegrammi dai Sovrani Umberto e Margherita di Savoia, e sono presenti, tra gli altri, Giosuè Carducci, Puccini, Mascagni, Giolitti durante la replica a Roma…), ma il successo è solo di stima per il compositore, in realtà l’opera non viene capita perché troppo complessa e dovranno passare molti decenni perché si imponga nel repertorio; del resto, richiede ripetuti ascolti per essere apprezzata appieno. Alfredo Casella ha visto nel Falstaff il momento d’inizio della musica del Novecento, per la carica innovativa. Un’interpretazione imprescindibile per gli appassionati è quella del 1922 diretta da Toscanini, con Mariano Stabile.

Gli ultimi anni della sua vita, Giuseppe Verdi li trascorre prodigandosi in opere di bene: a Villanova d’Arda (Piacenza) fa costruire a sue spese un ospedale e a Milano fonda la grande Casa di Riposo per Musicisti.

A ottantotto anni, in Milano, il sommo compositore – stanco e malato – viene colto da una paralisi che gl’immobilizza il lato destro e, sei giorni dopo, cessa di vivere. È il 1901. «Per i funerali, basteranno due preti, una candela e una croce» lascia scritto, e la sua volontà viene rispettata. Ma un mese dopo la sua salma, insieme a quella dell’amata Giuseppina Strepponi, viene traslata alla cripta della Casa di Riposo da lui fondata, tra una folla immensa. Un coro intona: «Va’, pensiero, sull’ali dorate»: lo dirige un giovane maestro suo quasi compaesano, Arturo Toscanini.

Le opere di Verdi lo hanno reso immortale: le principali vengono tuttora rappresentate in tutti i teatri del mondo, riscuotendo sempre notevoli successi!

(Per chi desiderasse una buona edizione del Falstaff, consiglio una delle seguenti:
Gobbi, Schwarzkopf, Wiener Philharmoniker, Herbert von Karajan, Cd Emi;
Valdengo, Nelli, Merrimman, NbC Symphony Orchestra, Arturo Toscanini, Cd Rca;
Bruson, Nucci, Ricciarelli, Los Angeles Philharmonic Orchestra, Carlo Maria Giulini, Cd Deutsche Grammophon).

(ottobre 2013)

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