Dalla cessione genovese della Corsica alla Francia alle successive tensioni politiche isolane del primo Risorgimento
L’Isola Mediterranea al centro delle questioni europee tra XVIII e XIX secolo

Nella storiografia italiana del XX secolo l’episodio della cessione della Corsica alla Francia da parte della Repubblica Genovese non ha mai assunto una particolare rilevanza. Non fu così nel XVIII e XIX, quando storici, letterati e politici segnalarono l’episodio con rammarico. Come ci ricorda Gioacchino Volpe nella sua rivista «Archivio di Corsica», «il secondo Trattato di Compiègne del 1764, che fu conchiuso in base alla memoria inviata dal marchese di Chamelin al duca di Choiseul-Praslin, non lasciava alla Repubblica Genovese, che con lo sforzo supremo cedeva parte del suo dominio, alcuna speranza di ulteriori soluzioni a lei favorevoli».[1]

Pasquale Paoli, ribelle per Genova, favorito dalla pubblica opinione, guadagnava terreno all’interno dell’Isola e si stava avvicinando a Bastia, la sola città che fosse rimasta genovese di sentimento. La corrispondenza che seguì tra il duca di Choiseul e Pasquale Paoli, «Generale della Nazione Corsa», è assai importante per le diverse fasi di accordo.

Il conte di Marbeuf, nominato comandante delle truppe francesi in Corsica, seguendo le istruzioni avute dalla Corte Francese, non si tratteneva dal dimostrare ai Córsi che il trattato conchiuso assicurava loro tutta la buona volontà di amichevole mediazione del suo Re. Dopo prolungate trattative il duca di Choiseul, il 18 marzo 1766, fece domandare al Paoli, che nel frattempo aveva respinto sia la possibilità di riconciliarsi con la Repubblica di Genova che le profferte francesi ad assumere il comando di un reggimento, con quali ultime e definitive condizioni la Corsica avrebbe trattato con Genova, «che a giusto diritto aveva da secoli la sovranità dell’Isola»; e che non poteva abbandonarla senza compenso.

La risposta del Paoli non si fece attendere. Egli inviò un lungo memoriale con il quale dichiarava la volontà della Nazione: Genova doveva riconoscere l’indipendenza di tutta la Corsica ed accettare un trattato d’alleanza e di commercio. La Repubblica respinse con sdegno tali condizioni. Fu a quel punto che il duca di Choiseul, temendo che i Córsi, stanchi della lunga guerra, si dessero spontaneamente a qualche principe, o che la Repubblica Genovese, priva di mezzi, cercasse l’aiuto di qualche altra potenza, decise di venire ad una conclusione. Inviò allora al Generale Córso le seguenti proposte: Pasquale Paoli avrà il titolo di Re di Corsica, farà omaggio di vassallo alla Repubblica e le lascerà qualche piazza costiera; e il Re di Francia si farà garante per la Convenzione.

Pasquale Paoli non accettò, tra tali proposte, quella di lasciare le piazze costiere di Capo Corso, Bastia e San Fiorenzo, a Genova. Seguì l’ulteriore richiesta francese di cedere tali piazze direttamente al proprio governo. A quel punto, siamo ormai nel giugno del 1767, Paoli troncò la corrispondenza con la Francia.

Non potendo più Genova sostenere tali piazzeforti corse, decise quindi di offrirle in una sorta di deposito infinito, che si risolveva in sostanza in una vera e propria alienazione alla Francia medesima.[2] Genova fu particolarmente risoluta a fare in modo che mai i Francesi provassero nuovamente a trattare con Paoli per tali piazze, date nel 1768 ai cugini d’oltralpe per un certo numero di anni, al fine di garantirne l’ordine interno.

Tutto questo trambusto era iniziato perché la Repubblica Genovese, in grande difficoltà, non aveva mai ignorato le mire della Francia sulla Corsica e, tutto sommato, auspicava una sorta di intervento «mediatore» della Francia stessa, nella segreta convinzione di poter nel frattempo aggiustare le questioni di politica interna, gravemente compromesse. Genova amministrava come meglio poteva. Difetti propri del governo genovese, inettitudine o disonestà di funzionari – non di tutti – non si possono negare, ma bisogna tener conto anche della situazione interna dell’Isola. Feudatari recalcitranti, popolo dominato da avversione ai Genovesi, signori spodestati che attribuivano alla Dominante l’essere stati privati del loro potere sui vassalli; aspirazione delle famiglie maggiori dell’Isola a occupar esse gli uffici civili ed ecclesiastici; clero mal disposto verso i funzionari.

Nessuna meraviglia, perciò, che fermenti rivoluzionari covassero nel seno dell’Isola; che questa trama si tenesse con i Savoia, divenuti padroni della Sardegna; che la Francia cominciasse a trovar terreno favorevole alla sua accorta propaganda, ormai già orientata verso l’acquisto della Corsica.

All’Isola, come a tutto il territorio della Repubblica, aveva aspirato anche Carlo Emanuele III di Savoia, appoggiato dall’Inghilterra. L’alleanza austro-anglo-sarda del 1744 aveva armato Versailles. Nel 1753 si era scatenata l’anarchia, quando il Paoli prese il potere, a capo dei ribelli.

Il pericolo dell’intervento inglese era stato eliminato mediante il primo Trattato di Compiègne del 14 agosto 1756 con Genova, la quale tuttavia non disperava di venire ad un accordo diretto con i Córsi; ed i senatori si erano recati perciò quell’anno a Bastia.

Ma la Consulta, ponendo come condizione la consegna delle piazze e il riconoscimento del governo nazionale, diretto da Pasquale Paoli, di fatto rinunciò ad un proseguo nella dominazione sull’Isola. Genova certamente tentò di separare i maggiorenti dal Paoli.[3] Ma, finita la guerra dei Sette Anni, la Francia si rioccupò della Corsica, addivenendo, come si è visto, col secondo Trattato di Compiègne, a presiedere le piazze più importanti a nome di Genova ed a trattare direttamente coi Córsi per la pacificazione.

Paoli si era di fatto illuso che la Corsica potesse ottenere l’indipendenza sotto la protezione del Re di Francia; e quando il duca di Choiseul chiese la consegna delle piazze più importanti a nome di Genova e di trattare direttamente coi Córsi, il Paoli comprese l’errore di valutazione e si rifiutò.

Notevole l’opera di convincimento che il governo francese esercitò sulla Repubblica Genovese, prospettandole il pericolo che l’Isola potesse cadere nelle mani del Paoli, senza che Genova ne ottenesse alcun compenso. La Dominante, che aveva veduto fallire i tentativi d’accordo col Paoli, col Trattato di Versailles del 15 maggio 1768 cedette dunque, di fatto, tutti i suoi diritti di sovranità sulla Corsica al Re di Francia prima del 1763, ed un sussidio di 2.000.000 di lire.

Non per questo in ogni caso la Corsica perse il suo appeal politico agli occhi dell’Europa ed ancor più, dei vari governi della Penisola Italiana, che insieme, dopo il congresso di Vienna, vigilarono su quanto ivi avveniva e nel contempo si resero disponibili a possibili cambiamenti politici che qui si prospettavano, per quanto difficoltosi e poco realizzabili potessero apparire.

Seguì infatti al periodo rivoluzionario prima e napoleonico poi una presa di coscienza europea della particolare condizione che veniva assumendo l’Isola per chi voleva modificare l’ordine stabilito a Vienna nel 1815. E vivi e numerosi continuarono i rapporti economici e politici dell’Isola con l’Italia, durante l’intero periodo Risorgimentale.

Purtroppo su tale versante storiografico non si ha a tutt’oggi un’organica trattazione, nonostante il peso che la figura di Napoleone I continuò a suscitare in Europa anche dopo la sua caduta ed il ruolo altrettanto significativo che i Napoleonidi rivestirono sul continente nel corso del XIX secolo. Poteva la Corsica, terra di origine dei Bonaparte, ed Isola strategica nel Mediterraneo, non essere al centro di intrighi e dispute? Tratterò qui, a grandi linee, alcuni di questi aspetti stranamente poco trattati dagli storici, che una recente tesi discussa mi ha portato a riconsiderare, susseguenti alle vicende isolane che videro in Pasquale Paoli la figura più significativa. E soprattutto consequenziali alle stesse aspirazioni che mossero Pasquale Paoli ed i suoi sostenitori a perorare l’indipendenza nazionale.

Nello specifico, dopo Waterloo, i Ministri Granducali trassero un bel respiro di sollievo nei confronti dell’Isola, ma non credettero che fosse scomparso ormai ogni pericolo, quindi non diminuirono affatto la loro attenta vigilanza sulle materie politiche.[4] A Governatori e Commissari il presidente del buon Governo Granducale Toscano, Aurelio Puccini, il 7 agosto 1815 raccomandava investigazioni sulla Corsica, sulle altre isole e sul vicino territorio lucchese.[5] Maggior inquietudine suscitavano i movimenti, veri o supposti, dei membri della famiglia Bonaparte e dei loro presunti seguaci e fautori.

Sempre nei primi mesi dell’anno 1817 tornava a spargersi la voce della fuga di Luciano Bonaparte da Roma e, mentre alcuni segreti informatori riferivano che egli meditasse di imbarcarsi sulla squadra americana[6], altri invece affermavano che il Principe si proponesse di compiere uno sbarco in Corsica. Nello stesso mese di marzo del 1817 veniva da più parti segnalata la partenza dalla Corsica e la venuta a Roma di Matteo Casamarte, che si vantava di essere fratello di latte della Principessa Paolina Bonaparte e che si sospettava latore di corrispondenze per vari membri della famiglia di Napoleone.

Circa la corrispondenza dei Bonaparte con la Corsica in quel periodo, monsignor Governatore di Roma riferì: «Non esiste carteggio tra la famiglia Bonaparte e il Matteo Casamarte, ma ha bensì questa famiglia dei carteggi per mezzo di un tal Cipriani, residente a Livorno, e un tal Pietro Sisco dimorante all’isola d’Elba. Per far giungere le lettere ai detti Cipriani e Sisco si servono i Bonaparte di diversi banchieri e fanno generalmente scrivere all’Abate Colonna».[7] Perché improvvisamente i Bonaparte, che con Pasquale Paoli avevano rotto i ponti, ed erano perciò fuggiti esuli in Francia, avrebbero dovuto rappresentare agli occhi dei patrioti córsi una risorsa d’indipendenza? Alcuni documenti rintracciati suggeriscono che durante il primo Risorgimento l’idea di un federalismo nazionale sulla Penisola, unito ad un bisogno più generale d’indipendenza dallo straniero, poteva vedere nei Bonaparte una risorsa, soprattutto quando Luigi Filippo d’Orlèans scartò l’ipotesi di farsi promotore di moti insurrezionali in Italia.

Mancò nell’Isola, già a partire da quegli anni, un forte e regolare governo. L’autorità francese rappresentata dal conte, Generale De Vignole, era ininfluente. Quest’ultimo, disgustato dalla condotta tenuta in suo riguardo dal governo di Parigi, che nominava senza neppur consultarlo gli impiegati amministrativi e gli ricusava quello che gli era stato promesso per fare il bene dei suoi amministrati, aveva chiesto e ottenuto, sin dall’ottobre del 1819, il suo richiamo, e al momento della partenza, ad Ajaccio e a Bastia, era stato fatto segno di particolari dimostrazioni di stima, di simpatia e di gratitudine.[8]

Alla fine dello stesso anno (siamo ancora nel 1817) venne nominato come suo sostituto il barone de Talleyrand, ma questi non prese nemmeno possesso del suo ufficio[9], e per un periodo di circa sei anni il governo del Dipartimento fu retto dal signor Martinenghi, Prefetto interinale, con scarsa autorità e, si può aggiungere, con non grande soddisfazione dei Consoli stranieri, particolarmente di quello napoletano, a causa di una sua «istruzione sui passaporti, e in special modo di un articolo della medesima che prescriveva dover essere gratuite le vidimazioni consolari».[10]

Dopo gli avvenimenti sopra accennati, il governo borbonico di Francia credette prudente e necessario provvedere in modo stabile alla amministrazione dell’Isola e nominò Prefetto il Cavaliere d’Eymard, che alla fine di marzo 1817 fece il suo ingresso in Ajaccio. Animato dai migliori propositi, si volse sin dal principio al buon ordinamento delle amministrazioni comunali. In quel frangente, nel cambiamento quinquennale prescritto dalle leggi, uomini ragguardevoli e degni di pubblica stima, Generali, colonnelli e ufficiali, in riposo o in riforma, furono nominati «maires» e aggiunti municipali. Ma i provvedimenti adottati dal nuovo Prefetto non diminuirono grandemente il numero dei malcontenti e, tanto meno, quello dei liberali e degli affiliati alle società segrete che, aspirando a riforme private e radicali nell’ordine politico, non potevano dichiararsi soddisfatti delle piccole innovazioni introdotte nell’ordine amministrativo.

Anzi, pare che il loro numero andasse aumentando, ed è proprio in questo tempo che la polizia cominciò a occuparsi seriamente delle investigazioni e della sorveglianza sulle Vendite Carbonare, già stabilite in vari luoghi dell’Isola. Si deve anche aggiungere che ad agitare maggiormente gli animi concorrevano negli stessi mesi di primavera la voce di un supposto arresto di Luciano Bonaparte, nonché la fuga a Parigi di monsignor Tiberio Pacca, Governatore di Roma e direttore generale di Polizia, che si sospettava derivata da ragioni d’ordine politico piuttosto che da brogli di carattere finanziario.[11]

Emilio del Cerro[12] in una sua pubblicazione, ci regala queste considerazioni: «…Si può assicurare con certezza che monsignor Pacca non solamente non ha fatto uso del denaro in danno del governo, ma che anzi molte volte ha impiegato in servigio del governo medesimo, ricompensando largamente quelle persone dalle quali egli si procurava notizie, all’interno e all’estero, intorno alle attuali sette, tendenti al rovesciamento dell’ordine pubblico. Che anzi, avendo egli sempre agito con infinita penetrazione ed attività nel grande affare delle sette rivoluzionarie, la di lui mancanza è sotto questo rapporto una vera perdita per il governo pontificio e forse anche per gli altri governi interessati in questa causa comune…». Quale poteva mai essere tale causa comune? Quella ufficiale, che voleva i vari Stati della Penisola pronti ad intervenire in qualunque modo per ottemperare alle richieste della Santa Alleanza, oppure un più generale proposito di presa di distanza dai voleri più marcati di Vienna?

«Più tardi il Pacca, che continuava a vivere a Parigi, sotto il nome di Francesco Ceccoli, insieme alla supposta moglie, e carico di debiti, esibiva i suoi servigi alla Polizia Francese e il Nunzio, l’11 maggio 1822, chiedeva al Cardinal Consalvi, Segretario di Stato Vaticano, quale contegno doveva osservare in riguardo, essendo in grado di secondare o impedire la di lui domanda».

Qualcuno a Roma tramava contro i Borboni di Francia? In Roma troviamo particolari interessi córsi da proteggere? Il Console Pontificio in Corsica, Lota, scrivendo al Segretario di Stato Vaticano, dichiarava che aveva appreso con grande sorpresa la fuga dell’autorevole prelato, se tale accidente avesse influito sugli affari politici dello Stato e, per finire, quasi a consolare un po’ il Cardinale Consalvi delle amarezze che quella fuga doveva avergli procurato, lo assicurava «che gli avvenimenti della capitale di Francia non avevano in alcun modo alterata la tranquillità di quest’Isola».[13] A quale tranquillità si riferiva il Lota, che proprio in quel periodo, come apprendiamo dalle ricerche del Volpe, si lamentò per i cattivi trattamenti ricevuti in Corsica dalle autorità francesi?[14]

Nel 1820 su cinquanta navi che arrivavano nei porti dell’Isola, trenta provenivano dall’Italia. Napoletani e Sardi pescavano corallo nelle sue acque; i Lucchesi, come nel Seicento, dissodavano terreni. I funzionari francesi erano allarmati dall’interesse che i Córsi mostravano alle cose d’Italia. In verità nel 1820-1821 la situazione era compromessa anche in Corsica. Ci furono indubbiamente dei tentativi rivoluzionari, se non altro preparatori, dei Bonaparte; ma in particolare, nel settembre e ottobre del 1821 è da segnalare qui un viaggio di Lord Byron.[15] Egli era in compagnia della contessa Guiccioli e di vari suoi familiari e servitori, e il suo passaggio da un luogo all’altro dette origine a numerosi incidenti.[16]

Byron non aveva mancato, in precedenza, di visitare Lucca, dove i fuoriusciti córsi erano molto nutriti. Tra questi lo stesso capo della Polizia del ducato Vincenti, anch’egli di origine Corsa, al servizio del duca borbonico Carlo Ludovico.[17]

Non risulta da alcun documento o da alcuna testimonianza, ma è molto probabile che nella sua peregrinazione attraverso i vari luoghi dell’Isola, Lord Byron prendesse contatto coi liberali e i carbonari córsi, nonché con i rifugiati italiani. Com’è noto egli aveva già da tempo dichiarata la sua piena adesione alla causa della libertà e dell’indipendenza italiana, ed aveva dato il suo nome alla Vendita «degli Americani» in Ravenna, luogo d’origine della contessa sua amante, la Guiccioli, che da nubile si chiamava Gamba. La famiglia Gamba, per inciso, ebbe un ruolo di primo piano nelle questioni risorgimentali nel loro complesso e stretti vincoli con Bagni di Lucca, dove tutt’ora possiede una proprietà.

I legami segreti che univano tra di loro i carbonari di ogni luogo e di ogni Nazione spinsero Byron ad abboccamenti e colloqui di natura politica e settaria.

Nell’ottobre del 1829 a Livorno si facevano investigazioni intorno a varie balle contenenti oggetti di stamperia portatile che appartenevano «ad alcuni malintenzionati forestieri»[18] e successivamente si cercò di proibire la circolazione di alcuni componimenti stampati e introdotti in Corsica; più precisamente dalla tipografia Fabiani di Bastia. Si trattava di due canzoni che riguardavano la spedizione dell’Avana contro il Messico e che celebravano in particolar modo la dispersione della flotta spagnola.[19]

Gli esuli italiani nell’Isola risentirono i danni della miseria generale del Paese che li ospitava; ma per loro fortuna trovarono generosi fraterni aiuti da parte di Francesco Maria Nicolao Santelli. Possiamo considerare il Santelli in quegli anni come l’angelo tutelare dei nostri emigrati politici in Corsica.[20]

Ottorino Montenovesi, nell’«Archiginnasio» di Bologna, numero d’aprile del 1927, trattando de Il 1831 nel territorio della Chiesa e dei documenti dell’archivio di Stato di Roma, riferisce sulla partecipazione dei Córsi residenti in Roma ai moti di quel tempo e delle persecuzioni subite.[21] Roma guardava alla Corsica? Quali i suoi reali interessi sull’Isola? E soprattutto, quali i rapporti tra la Francia restaurata borbonica e i rappresentanti pontifici presenti sul territorio córso? A partire dal 7 ottobre 1824, un episodio verificatosi in quella data suscitò numerosi sospetti. Quel giorno, al mattino, nella chiesa di San Giovanni Battista in Bastia, per iniziativa del parroco di quella chiesa, don Bajetta, si celebrò una cerimonia funebre in memoria del defunto Pontefice Pio VII. Vi intervennero le autorità civili, militari e politiche e i vari Consoli esteri. Primo di ogni altro il Console Generale Pontificio, Cavalier Antonio Giacinto Lota, capitano onorario della Marina Pontificia, cui ho fatto cenno. Tenuto conto che si trattava di una funzione di suffragio del suo defunto Sovrano, a lui era stato assegnato dal parroco un posto di riguardo, a fianco cioè «del primo Presidente della Regia Corte di Bastia. Ma se tale assegnazione era stata approvata dal signor Brodin, uno degli aiutanti della piazza di Bastia, non fu ammessa né riconosciuta conveniente dal colonnello de Mondesir, comandante di tale piazza, che invitò il Console Pontificio a lasciare quel posto ad altri personaggi più autorevoli e a trarsi più indietro.

Vane furono le rimostranze del Cavalier Lota, inutili le sue proteste. Allora egli, approfittando della sua vicinanza col Generale Montlégier, comandante la Divisione Militare, invocò il suo autorevole intervento contro la pretesa del comandante della piazza e infatti da lui ricevette l’invito di riprendere il posto già occupato. Ma il colonnello de Mondesir persistette nella sua determinazione; e anzi, aggiungendo che non era permesso al Console di rimanere nella linea dei colonnelli, gli impedì di riprendere la sua sedia». Vero che in via ufficiale l’affronto subito dal Lota fu amaramente tenuto in poco conto dalle autorità pontificie. Gli espressi riferimenti al Nunzio Pontificio di Parigi caddero per diverso tempo nel vuoto. Ma il malessere pontificio verso il governo borbonico francese era evidente. E l’avvento al potere di Luigi Filippo accentuò ulteriormente la frattura tra la Francia e lo Stato Pontificio, per quanto questa frattura non apparisse in via ufficiale.

Gli esuli italiani, da parte loro, preferivano come luogo di rifugio la Corsica perché qui si sentivano a casa. Lo confessava anche Giuseppe Mazzini, che nel 1831 vi giungeva da Marsiglia: «Là mi sentii nuovamente con la gioia di chi rimpatria, in terra italiana… Da Bastia ad Ajaccio in fuori, dove l’impiegatume era di chi lo pagava, ogni uomo si diceva d’Italia, seguiva con palpito i moti del centro e anelava a ricongiungersi alla Grande Madre».

Anche il Tommaseo si fermò a lungo nell’Isola, intento a raccogliere i canti popolari e a preparare la pubblicazione dell’epistolario del Paoli. Nel programma di unificazione nazionale i patrioti italiani pensarono più volte al cambio della Savoia con la Corsica e nel 1831 si misero su ciò d’accordo col Lafayette, grazie al Comitato Cosmopolita con sede a Parigi. Molti i Córsi che parteciparono poi alle lotte risorgimentali. Un nome fra tutti, Leonetto Cipriani che, come ricordato, fu vicino ai Bonaparte; e che divenne Governatore nelle Romagne al momento dell’annessione di quei territori alla neonata Nazione Italiana.

Ma come elemento di novità circa i contenuti sin qui proposti sulla particolare connotazione dell’Isola, in riferimento a moti insurrezionali di stampo patriottico non andati a buon fine, ho da citare le vicende di un religioso lucchese, padre Gioacchino Prosperi.

Questi, che da padre gesuita aveva avuto in Torino nei primi anni Venti del XIX secolo un ruolo significativo, era poi uscito dalla Compagnia, divenendo un frate minore. Predicò in Corsica per ben otto anni (dal 1839 al 1846) e le sue predicazioni furono di stampo patriottico e rosminiano, lasciando pochi dubbi sulle reali vicende politiche sull’Isola. Prosperi fu un contatto col collega professore piemontese, ed anch’egli un religioso, il patriota vercellese Gioacchino De Agostini.[22]

Quest’ultimo in particolare, abbandonò nel 1848 l’abito talare per sposare l’anno successivo Adelaide Galli Dunn, figlia del patriota Fiorenzo Galli, protestante inglese convertitasi al Cattolicesimo. E nello stesso periodo fondò e diresse giornali patriottici in Piemonte. Le questioni in oggetto, che vide al centro il partito bonapartista córso e i vari governi peninsulari, interessati a cacciare gli Austriaci dal territorio italiano, mancano, lo ripeto, di una compiuta trattazione. In ogni caso ciò sprona ulteriormente alla riflessione ed al confronto politico su questioni spinose, che ancora oggi vedono il nostro Paese alle prese con temi quali il federalismo ed i rapporti Stato/Chiesa. Ma ancor più destano interesse perché rivolti ad un’Isola che spesso è ritenuta marginale nel contesto europeo.


Note

1 «Archivio di Corsica», rivista cessata, anno 1927 (pagina 22 e seguenti).

2 Era stato il marchese di Brignole a mettere ai voti il 2 marzo 1767 l’accettazione del progetto d’offerta dell’Isola alla Francia in deposito infinito. La sua proposta fu rifiutata ed egli decise, facendosi interprete dell’opinione comune, di propugnare un trattato in cui la Repubblica doveva abbandonare unanimemente alla Francia senza porre questioni di deposito definito o indefinito.

3 Tradimento dell’Abbatucci, insurrezione di Aleria, Castello Fium’Orbo.

4 «Archivio di Corsica», rivista cessata, anno 1927, citato.

5 G. Marcotti, Cronache Segrete della Polizia Toscana, Firenze, G. Barbèra 1898, pagine 373-375.

6 Archivio di Stato di Firenze, Buon Governo Segreto, anno 1816-1818, numero 146.

7 «Archivio di Stato di Corsica», citato, pagina 50.

8 Renucci, Storia di Corsica, II, pagine 351-352.

9 Girolami, Cortona, Histoire de Corse, pagine 520-562.

10 Il Regio Console Crucillo aveva fatto le sue rimostranze in proposito al Ministro degli Esteri a Napoli, che a sua volta ne aveva interessato il principe di Castelcicala, ambasciatore a Parigi. Questi poteva ottenere dal Ministro Pasque qualche concessione sulla materia dei passaporti, ma nessuna su altre richieste del Console (esenzione di spese postali, di dazi doganali eccetera) riconosciute ma non fondate e inammissibili. A tergo di uno dei documenti trovasi questa nota: «Il Re approva quanto Castelcicala ha operato. In generale i Consoli non godono di alcuna franchigia in nessun Paese». Archivio di Stato di Napoli, Esteri, Regio Console a Bastia, anni 1816-1829, fascio 2463, lettere varie.

11 Emilio del Cerro, Cospirazioni Romane, Roma, edizioni Voghera 1899. Intorno alla fuga del Pacca si trovano numerosi documenti nell’Archivio Segreto Vaticano. In specifico Segreteria di Stato 248. Nunziatura di Parigi. Accenniamo alle lettere del nunzio a Parigi (monsignor Macchi, Arcivescovo titolare di NISIBI) per approvare che egli avesse fatto conoscere al Duca di Richelieu il vero motivo della evasione del Pacca, ossia falsificazione di firme e dissesti finanziari, non ragioni politiche, questa l’ufficialità.

12 Emilio del Cerro, Fra le quinte della Storia: contributo alla Storia del Risorgimento politico d’Italia con documenti inediti, Torino, Fratelli Bocca 1903.

13 Archivio Segreto Vaticano, Segreteria di Stato 294, Consolato Pontificio a Bastia, anno 1820, 20 giugno, numero 73565.

14 «Archivio di Corsica», rivista cessata diretta da Gioacchino Volpe, anno 1927, citato.

15 Emilio del Cerro, citato, pagina 72.

16 G. Courtillier, Voyage de Lord Byron en Corse, in «Revue de Corse», anno II, 1921, numero 7, pagine 19-22.

17 Archivio di Stato di Lucca, Esteri, anno 1821, numero 351.

18 Archivio di Stato di Firenze, Buon Governo Segreto, anni 1820-1830, numero 10.

19 Archivio di Stato di Corsica Livorno, Governo di Livorno, corrispondenza Ministri 142, anno 1830, lettera del 1° luglio.

20 Supplica dell’Emigrazione italiana in Corsica di Ersilio Michel, pagina 10.

21 Emilio del Cerro, citato, pagina 180.

22 G. Prosperi, La Corsica e i miei viaggi in quell’Isola, Bastia, Fabiani 1844. Ed ancora Padre Gioacchino Prosperi. Dalle Amicizie Cristiane ai Valori Rosminiani, tesi di laurea discussa a Pisa, anno accademico 2009-2010.
Sempre in proposito vedere l’articolo che a breve sarà pubblicato dalla Società Storica delle Valli di Lanzo nella sezione «Nuove Proposte», dal titolo Padre Gioacchino Prosperi. Su di lui anche il periodico córso «A Viva Voce» di Ajaccio ha pubblicato un breve articolo che attesta l’indiscussa amicizia dello stesso con Niccolò Tommaseo e Salvatore Viale, figure di riferimento essenziali per i patrioti isolani.

(giugno 2013)

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