La contessa di Castiglione
Una donna conscia del suo fascino e capace di usarlo anche in modo spregiudicato. Quasi dimenticata dalla storia, in realtà diede un non piccolo contributo per l’unità nazionale

Virginia Elisabetta Luisa Carlotta Antonietta Teresa Maria era nata a Firenze il 23 marzo 1837, figlia del nobile marchese spezzino Filippo Oldoini e della Fiorentina Isabella Lamporecchi. Fu considerata la donna più bella del secolo, affascinante, intelligente, colta e scaltra, abile nella diplomazia e negli affari e si servì del suo fascino per influire sulla politica del tempo.

La Spezia, dove visse ma non fu sepolta, nonostante lo desiderasse, fu la città che molto amò e alla quale sempre pensò come al borgo natio, attratta con nostalgia dal Golfo dei Poeti, da lei romanticamente ribattezzato «Golfo di Ariel».

Virginia, soprannominata «Nicchia» da Massimo D’Azeglio, divenne la contessa di Castiglione sposando giovanissima il conte Francesco Verasis di Castiglione, che non amava, al quale fu ripetutamente infedele e dal quale poi si separò. Ebbe un solo figlio maschio a cui diede il nome Giorgio.

Alta, bionda, di figura armoniosa e snella, una statua di carne, come la definì non senza invidia la principessa di Metternich, con gli occhi cangianti tra l’azzurro e il verde, il nasino all’insù, aveva anche belle mani e piedi, tanto che molti artisti li ritrassero separatamente dal corpo, di sé diceva: «Io sono io, e me ne vanto; non voglio niente dalle altre e per le altre. Io valgo molto più di loro. Riconosco che posso non sembrare buona dato il mio carattere fiero, franco e libero, che mi fa essere talvolta cruda e dura. Così qualcuno mi detesta; ma ciò non m’importa. Non ci tengo a piacere a tutti».

Contessa di Castiglione

Michele Gordigiani, Virginia Oldoini, contessa di Castiglione, 1862

Passionale, consapevole del suo fascino, altera e superba, sprezzante verso le altre donne, amante della libertà e insofferente alla disciplina, animata da irrefrenabile ambizione mondana, Virginia era anche convinta di essere predestinata ad un destino superiore, di poter passare alla Storia aiutando il Paese.

Fu Cavour, il suo «brutto cugino», l’unico uomo che, pur subendone il fascino, non cedette alle sue seduzioni, ad inviarla a Parigi, con l’approvazione del Re Vittorio Emanuele II, affinché, con l’adulazione e la seduzione, influenzasse favorevolmente verso l’Italia Napoleone III e lo spingesse all’alleanza franco-piemontese. Le fu compagno inseparabile, specie in Francia, il conte Costantino Nigra, prima segretario particolare di Camillo Benso conte di Cavour e poi divenuto Ambasciatore del Piemonte sabaudo in Francia.

E fu così che, fra intrighi amorosi e maneggi politici, destreggiandosi fra la diplomazia e l’alcova, divenne una delle poche donne in grado di svolgere, seppur con mezzi discutibili, una funzione politica, esercitando un ruolo importante nella formazione dell’unità d’Italia, e schierandosi a favore della Francia invasa dai Prussiani, contribuendo a scrivere un’importante pagina della storia del Risorgimento. Fu l’amante di Napoleone III che le regalò una villa, oltre a splendidi gioielli e l’Imperatrice Eugenia la detestò per la sua bellezza e per la relazione con il marito. Una sera, Nicchia, si presentò ad un ballo a corte tutta nuda, solo ricoperta da un velo e un fiore per nascondere la parte intima. Da allora l’Imperatrice cercò in tutti i modi di cacciarla da corte.

Dopo aver brillato e scintillato tra gioielli preziosi e toilette da favola, tra balli ed amanti, dopo aver conosciuto i fasti, i piaceri e i trionfi della mondanità, finì i suoi giorni come una romantica eroina: ignorata, in solitudine, disperata, quasi folle, piena di rancori ed inconsolabile per il fascino perduto. Si narra che fece oscurare tutti gli specchi della sua casa perché non voleva vedere il declino della sua bellezza.

Chiese di essere sepolta a La Spezia, senza funzione religiosa e senza fiori, senza informare i giornali e le autorità, con una camicia da notte leggera e preziosa, quella che stava tutta nel pugno di una mano, che aveva indossato la notte trascorsa con Napoleone III a Compiègne, con al collo una collana di perle e ai polsi due braccialetti che tanto aveva cari, sotto il capo il cuscino di velluto ricamato dal figlio Giorgio quand’era bambino, e di avere ai suoi piedi, nella bara, i due cagnolini imbalsamati.

Morì nel 1899 a Parigi; niente di quanto chiese ottenne, né dalla Francia, che aveva aiutato, né dall’Italia che, nonostante i mezzi discutibili, aveva contribuito a creare.

Nessuno dei suoi estremi desideri fu esaudito: ebbe una regolare funzione religiosa, ai suoi funerali parteciparono i camerieri, un duca e un agente di cambio, fu privata della compagnia dei suoi cani, persino del cuscino del figlio, morto da tempo, che pure in tutta la vita non aveva molto amato e seguito ma del quale, in un tardivo sussulto d’istinto materno, si era ricordata, e non indossò né la famosa camicia della notte di Compiègne né i suoi gioielli, prontamente sottratti dagli eredi d’accordo con l’avvocato compiacente.

Subito dopo la sua morte la polizia, le autorità e i servizi segreti sabaudi frugarono tra le sue carte e bruciarono tutte le lettere e i documenti a lei inviati dalle massime personalità del tempo con le quali era entrata in contatto, Re, politici, Papi e banchieri, come Napoleone III, Bismarck, Cavour, Pio IX, Rothschild, forse per cancellare documenti compromettenti o per negare che l’Italia le era debitrice perché l’unità era stata conseguita anche attraverso le sue modalità non troppo lecite, ma era stato proprio il capo del Governo, Cavour, quando l’aveva spedita a Parigi da Napoleone III, a dire a Virginia: «Usate tutti i mezzi che vi pare, ma riuscite».

La contessa di Castiglione non ebbe nemmeno la tomba in Italia, non fu sepolta a La Spezia, ma nel cimitero di Père Lachaise, dove ancora oggi riposa.

(marzo 2011)

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